SECRET SPHERE – Ritratto di una rinascita

Pubblicato il 11/01/2013 da

‘Ritratto di una rinascita’. Abbiamo voluto giocare con il titolo del nuovo disco della band piemontese, riprendendo il tema del ritratto e puntando sulla contrapposizione tra il ‘cuore morente’ del titolo e il concetto di una rinascita, ma ammettiamo che questo nostro gioco di parole è alquanto lontano dal descrivere lo stato attuale della band capitanata dal chitarrista Aldo Lonobile. Sarebbe più corretto parlare di un nuovo cammino, come dice appunto il nuovo arrivato, il cantante Michele Luppi, in questa intervista. Un nuovo cammino lungo il quale scoprire nuove strade e comporre nuovi dischi, senza però mai dimenticarsi di quanto fatto in carriera e mantenendo sempre stretta a sé l’esperienza acquisita, il vero e irrinunciabile bagaglio di tutti gli artisti. Di queste e tante altre cose si è discusso con il simpatico cantante emiliano, cedendo alla curiosità e andando anche a toccare qualche nervo dimenticato come Vision Divine, Thaurorod e Killing Touch. Il loquace artista non si è tirato indietro da nessuna domanda, e quello che riportiamo nel seguito è il fedele resoconto di questa lunga ma interessante chiacchierata…


BENE, MICHELE… SEI ENTRATO NEI SECRET SPHERE SOLO QUALCHE MESE FA, EPPURE SIAMO GIA’ QUA CON UN NUOVO DISCO, CHE VEDE ANCHE LA TUA FIRMA SU QUASI TUTTI I PEZZI. SEI SODDISFATTO DEL LAVORO SVOLTO?
“Assolutamente sì! Penso proprio che ‘Portrait Of A Dying Heart’ sia, nell’ambito dei miei dischi metal, quello più bello, il più completo ed anche il più sentito. I motivi sono molteplici: sia per la sua qualità intrinseca, sia per l’esperienza che abbiamo accumulato, ma soprattutto per un discorso che riguarda quanto effettivamente sono legato a questi brani, che sono stati scritti in un momento particolare della mia vita. E comunque vedo che i pezzi sono stati molto apprezzati e questo mi rende ancora più felice”.

IN EFFETTI LE RECENSIONI SONO STATE ENTUSIASTICHE UN PO’ OVUNQUE… VI ASPETTAVATE UN SIMILE SUCCESSO?
“Be’, come si dice sempre… uno si aspetta sempre il meglio, ma ha sempre paura del peggio! Scherzi a parte, la cosa che mi fa più felice è il fatto che le varie recensioni hanno mostrato un ascolto attento dell’album. Nelle recensioni sono state colte alcune sfumature che solo ascoltando il disco con attenzione si sarebbero colte, e questo ci ha reso molto soddisfatti. Ringrazio tutti per questo, però rimango anche convinto che con i Secret Sphere abbiamo fatto un lavorone a prescindere dai giudizi positivi. Certo, se tutti avessero detto che il disco faceva schifo ci sarei rimasto molto male, però sarei rimasto comunque convinto che il lavoro che c’era stato dietro fosse valido. Soprattutto per via delle emozioni che l’album trasuda durante l’ascolto. ‘Portrait’ è un disco dove secondo me emerge il fatto che come band avevamo qualcosa da dire, qualcosa da esprimere, tutti assieme. E penso che questo sia stato capito, per fortuna”.

COMINCIAMO A PARLARE DEL DISCO FACENDO UN PO’ DI RIASSUNTO… COME SIAMO ARRIVATI AL TUO INGRESSO NELLA BAND? CONOSCEVI QUALCUNO DA PRIMA? COME SI SONO SVOLTI I CONTATTI TRA DI VOI?
“Esiste, o forse esisteva – non so se ci sia ancora – un locale dalle parti di Alessandria chiamato Mephisto. Nel lontano 2004 feci lì la mia prima data con i Vision Divine, e poi ci tornai con i Mr Pig. Aldo (LoNobile, chitarrista dei Secret Sphere, ndR) era il direttore artistico del locale, ed è così che ci conoscemmo, per i nostri rispettivi lavori. Ci scambiammo i numeri di telefono, riproponendoci magari di fare qualcosa insieme in futuro. Quando è stato il tempo giusto, Aldo mi ha mandato un SMS, chiedendomi di ascoltare dei brani nuovi e invitandomi ad unirmi alla band. Considerato che i Secret Sphere godono all’interno della scena di un’ottima reputazione, soprattutto dal punto di vista personale, pensai di accettare e chiesi loro di poter avere i brani. Dopo essermi trovato poi con il gruppo ed avere provato ‘Lie To Me’, uno dei pezzi forti del disco, semplicemente abbiamo deciso di andare avanti, concludere il disco e ‘metterci assieme’, per così dire (ride, ndR)”.

PICCOLA PROVOCAZIONE: SPESSO ACCADE CHE UN ALBUM VENGA RICORDATO COME ‘IL PRIMO SENZA PORTNOY ALLA BATTERIA’ O ‘L’ALBUM DEL RITORNO DI BRUCE’… AI RAGAZZI DELLA BAND HA MAI SFIORATO IL DUBBIO CHE “PORTRAIT OF A DYING HEART” POTESSE DIVENTARE SEMPLICEMENTE IL ‘PRIMO CON LUPPI ALLA VOCE’?
“Guarda, sarò sincero. La prima cosa che ho pensato a cose fatte, visto che molte delle situazioni in cui ci siamo trovati con i Secret Sphere si sono rivelate molto simili a quelle che si verificarono ai tempi col mio ingresso nei Vision Divine, è stata che avrei voluto entrare in questo progetto molto prima, non così in corsa. Questa era proprio il tipo di band che cercavo fin dall’inizio, sia sotto l’aspetto dei rapporti personali sia che per gli intenti professionali comuni. Comunque, nonostante questo, almeno per me questo non è mai stato ‘il mio primo disco con i Secret Sphere’. ‘Portrait’ non è il primo album né per me né per loro, e quindi per noi tutti rappresenta solo un nuovo inizio, l’inizio di un nuovo cammino”.

HAI CITATO I VISION DIVINE, QUINDI PARTO CON LA STOCCATA… AI TEMPI DEL VOSTRO SPLIT, SEMBRO’ QUASI CHE TRA LE MOTIVAZIONI CI FOSSE PURE IL FATTO DI NON POTER REGISTRARE LE VOCI SULL’ULTIMO DISCO COME TU AVRESTI VOLUTO. SU “PORTRAIT OF A DYING HEART” LA TUA IMPRONTA SULLA REGISTRAZIONE SI SENTE INVECE TANTISSIMO… COME HAI POTUTO LAVORARE QUI? HAI RISCONTRATO DELLE DIFFERENZE?
“Guarda, non è del tutto vero quello che mi dici. Tutti i dischi in cui ho cantato sono stati sempre registrati nel medesimo modo, scelto da me. Su ogni lavoro, anche con i Vision Divine, ho sempre avuto carta bianca per quanto riguarda la registrazione delle mie linee. Qualche differenza c’è stata, se vuoi, durante la stesura delle parti vocali, visto che con i Secret Sphere mi sono occupato in toto dei testi mentre nei Vision Divine curavo solo le linee melodiche, ma ti assicuro che comunque dal momento in cui le parti vocali venivano decise ho sempre goduto della massima libertà per quanto riguarda la registrazione nello studio di casa mia. Ho sempre fatto questa scelta un po’ per comodità, non ti nego, ma anche per un fattore di crescita personale, perché seguirle in autonomia in ogni loro parte mi ha sempre permesso di crescere come artista. Ho poi un modo di lavorare talmente minuzioso che, se andassi in uno studio esterno pagando per la registrazione, andrei sotto con le spese ogni volta! Tutto quello che senti sui miei dischi è sempre registrato su performance reali, e niente è frutto di plugin o di campionamenti, e tutto questo richiede almeno un mese di lavoro. Ad esempio, in un coro con venti voci, le devo registrare tutte e venti! Non so cosa ti sia stato detto a riguardo dopo lo split, ma ti assicuro che ho sempre avuto la fortuna di poter lavorare come credo, cosa di cui ringrazio tutti gli artisti con i quali ho collaborato, oggi come allora”.

CI HAI PARLATO DEI TESTI, PER LA MAGGIOR PARTE OPERA TUA, APPUNTO… COME HAI LAVORATO STAVOLTA SOTTO QUESTO ASPETTO?
“Ho semplicemente preso le parti musicali già composte dalla band, le ho ascoltate a fondo, e poi ho scritto le linee melodiche da appoggiare su ogni brano, unitamente al testo da cantarci sopra. Per le liriche mi sono appoggiato ad un racconto scritto da Costanza (Colombo, narratrice, ndR), mentre per la stesura delle linee vocali mi sono preso due mesi, marzo e aprile di quest’anno, per lavorarci sopra. Ho realizzato molte demo, mandandole sempre alla band per avere continui feedback, e questi sono sempre stati più che positivi. Anzi, ti racconterò una cosa particolare: se ascolti il disco, noterai che su ciascun brano le strofe non sono mai uguali. E’ una cosa strana se ci pensi. Ciò è successo perché per ciascuna canzone componevo un paio di linee, non solo una, mandandole entrambe agli altri. Queste melodie sono sempre piaciute entrambe, e da qui nasce il fatto che le strofe che ascolti risultano diverse all’interno dello stesso brano. Era un peccato scartarne una! La cosa migliore è stata anche lavorare in un periodo temporalmente concentrato, in questo caso appunto di due mesi. Una sola linea era già composta, quella del brano ‘The Fall’, scritta da Ramon (Roberto Messina, l’ex cantante, ndR) prima della sua fuoriuscita. L’abbiamo tenuta così com’era, perché ritenevo quella melodia davvero vincente. L’ho dunque solo modificata un po’ per renderla ‘mia’, associandole ovviamente il suo testo inserito nella trama generale”.

I CONCEPT NON SONO UNA NOVITA’ NE’ PER TE NE’ PER I RAGAZZI DEI SECRET SPHERE, CONSIDERATI I VOSTRI DISCHI PASSATI… COSA VI ATTRAE DELL’IDEA DI SCRIVERE CANZONI DEDICATE AD UN’UNICA LINEA NARRATIVA?
“Probabilmente è il fatto che un disco finisce sempre per rispecchiare un momento definito della tua vita, un momento della vita in cui tu vivi sensazioni ed emozioni ben precise. Il primo concept che ascoltai è stato ‘Music From The Elder’ dei Kiss. L’ho ascoltato per anni e anni, ed è stato a lungo il mio disco preferito. Mi sono affezionato grazie a quel disco ai concept, e sono comunque convinto che quando uno di essi è ben fatto risulta quasi un film sonoro. Un concept album è molto più ricco e completo di un disco che è una mera collezione di canzoni. Poi, ovviamente, dipende anche dal genere… sui miei progetti AOR chiaramente i dischi sono e saranno sempre compilation di pezzi con temi diversi. Collegare i testi e i brani con la musica è comunque una cosa molto stimolante, che porta spesso a risultati inattesi. Guarda ‘Portrait Of A Dying Heart’, ha tutti i pezzi lenti in chiusura! E’ insolito per un disco normale, ma nella storia narrata la protagonista trova finalmente pace proprio alla fine del racconto, e questo ha motivato alcune scelte, portando ad un risultato inatteso, che completa però alla perfezione la musica. Capisco la tua domanda, ultimamente in molti sembrano considerare il concept album un po’ come la parata di culo di un artista che non sa che cazzo scrivere e vuole darsi un tono, ma per noi non è stato così. E’ un modo più completo di sviluppare una bella idea, che magari in un solo pezzo non verrebbe sfruttata appieno. Infine, piccola soddisfazione, un concept album obbliga l’ascoltatore interessato ad ascoltare tutti i brani e non solo alcuni… cosa che si dovrebbe sempre fare, no?”.

LA CURA DEL DETTAGLIO E’ UN PUNTO FORTE DEL DISCO. QUANTO TEMPO VI HA PORTATO VIA LA CURA MINUZIOSA CHE AVETE MESSO NEI SUOI VARI ASPETTI?
“Guarda, non voglio ripetermi, ma sono abbastanza convinto che tutti i dischi che ho fatto, da ‘Stream Of Consciousness’ a questo, godano tutti più o meno della stessa cura, almeno da parte mia. A volte c’erano pezzi che necessitavano magari di trenta voci nei cori, alla volte qualche brano funzionava già da solo con una voce e quattro strumenti… secondo me la ‘cura’ nasce nel momento in cui sai cosa devi fare. Molta gente utilizza cori o arrangiamenti un po’ per mascherare quello che gli manca… una voce piccolina magari, o una pochezza compositiva generale. Non è il modo in cui mi piace lavorare. Ho sempre cercato, nei dischi metal, di mantenere un’unica voce solista sulla linea melodica, e di considerare il coro come se fosse un’orchestra, un completamento piuttosto che un modo di doppiare la linea principale o di darle uno spessore che le manca. L’arrangiamento vocale, così come lo chiamo io, è una mia caratteristica fondamentale, una specie di mia tavolozza personale, con molti colori che mi piace usare”.

COME LA METTERETE PERO’ CON LA RESA LIVE? IL DETTAGLIO SPESSO SI TRASFORMA IN TRAPPOLA PER ALCUNE BAND…
“E, invece, ti dirò che sono assolutamente sorpreso di come le cose stiano andando bene sotto quest’aspetto. Dopo solo due date, ci si rendeva già conto che il treno filava liscio come doveva andare. Con le band che ho avuto in precedenza ci sono volute in genere più di una decina di date per ingranare veramente… per i soliti motivi che penso stavi per dire tu stesso: pezzi difficili, orchestrazioni, arrangiamenti pesanti che suonano in base e a cui tutti devono andare dietro rimanendo a tempo… oltre che le solite situazioni nelle quali ti trovi magari a suonare in luoghi inadatti alla tua proposta, con impianti fonici sottodimensionati o un’acustica scadente. Con i Secret Sphere ho invece trovato una vera band, gente che si conosce, e che suona bene assieme. E, cosa ancora più bella, non si sente nemmeno lo stacco tra il materiale nuovo e i dischi precedenti, l’effetto finale è molto uniforme. Meglio di così non poteva andare!”.

TI TROVI BENE A FARE I PEZZI DI ROBERTO MESSINA, DUNQUE?
“Sì, mi trovo molto bene, anche se ovviamente siamo cantanti molto diversi, con impostazioni differenti. Io non mi ritengo tanto un cantante, peraltro, almeno non nel senso ‘canonico’… mi considero più un musicista, con la voce che è il mio strumento. Per rifare i pezzi di Ramon mi sono semplicemente limitato a rispettare il concetto originale dei brani, lavorando unicamente allo scopo di renderli più incisivi dal punto di vista ritmico, senza voler snaturarli. Anche a livello di tonalità mi sono trovato a meraviglia, grazie però anche al lavoro della band tutta”.

A TUO MODO DI VEDERE DUNQUE… QUAL E’ IL PUNTO FORTE DELL’ALBUM?
“I pezzi stessi! Il problema secondo me di oggi è che ci sono quasi più band che musicisti. A parte la battuta, spesso manca la passione nello scrivere i brani, un po’ perché si sa che per appartenere a certi ambiti o generi si deve per forza ‘cadere’ su certi cliché. Invece ritengo che ‘Portrait Of A Dying Heart’ eviti questo, e che sia un disco realizzato un po’ nel vecchio stile, con una band che si ritrova per lavorare a belle canzoni, sperando poi che piacciano. Alla fine, la cosa forte di ‘Portrait’ è che è un disco autentico, un album fatto da pezzi su cui ci è piaciuto lavorare. La produzione ha poi rivestito comunque un ruolo importante, dando giustizia a brani appunto già curati. Infine il fattore esperienza ha inciso molto: credo che in questo album siamo riusciti a dire molte più cose in molto meno spazio, grazie all’esperienza di questi anni”.

VOLEVO FINIRE L’INTERVISTA STACCANDOCI DAL DISCO NUOVO E ANDANDO SU ARGOMENTI PIU’ PERSONALI… AD ESEMPIO, QUALE DISCO DEI SECRET SPHERE PREFERISCI? ORA CHE SEI CON LORO, AVRAI UNA TUA PREFERENZA…
“Eh, la band mi ha regalato tutti i dischi, ma ti confesso che a parte per i pezzi da fare per i concerti non è che li ho ascoltati tantissimo… (ride, ndR). A parte questa figura di merda che mi hai fatto fare, penso che ‘A Time Never Come’ è il disco che, secondo me, oltre ad essere bellissimo, ha una valenza storica un po’ superiore rispetto agli altri”.

IL PUNTO FORTE DELLA BAND, INVECE, QUAL E’?
“E’ la band stessa. Dopo anni di progetti, mi sono un po’ rotto di trovarmi accanto a persone che fanno gli ‘scienziati’ in sala prove e che poi, quando tornano a casa, del lavoro fatto gliene  frega poco. Volevo una band che lavorasse insieme, nella quale l’aspetto umano fosse il vero completamento di quello artistico. Senza voler generalizzare, ti dico ci sono anche dei progetti che magari funzionano anche sotto questo aspetto, però al momento non mi interessano più. Da ora in poi, se devo fare una collaborazione, voglio che sulla copertina ci sia scritto ‘featuring Michele Luppi’, senza fare più finta di far parte di una pseudo-band con la quale magari dovevo solo collaborare”.

GRAZIE MICHELE… PRIMA DI LASCIARCI PERO’ HO UN ULTIMO PUNTO SULLA TUA CARRIERA: CI DICI COM’E’ ANDATA CON I THAUROROD E CON I KILLING TOUCH? SENTIREMO ANCORA PARLARE DI TE CON LORO?
“Guarda, in entrambi i casi la storia è stata molto semplice. Con i Thaurorod non è successo niente di brutto, semplicemente mi sono unito a loro in un momento un po’ particolare della mia vita, un momento in cui non avevo band o progetti, e cercavo qualcosa… loro sono bravissimi e simpaticissimi, ma abitano in Finlandia e, volendo concentrarsi sull’aspetto live, per me la cosa diventava geograficamente complicata. Con loro l’esperienza è stata sicuramente favolosa, soprattutto il tour con Symphony X e Nevermore. Veramente grandi musicisti e grandi persone, ma i problemi logistici erano veramente troppi per me, soprattutto adesso che, alla soglia dei quarant’anni, voglio dare un taglio meno ‘incasinato’ alla mia vita. E’ stato meglio chiudere con loro prima che la faccenda scoppiasse, insomma. Per i Killing Touch… ti darò un’esclusiva: non esistono più. Era un gruppo che avevo formato subito dopo i Vision Divine, e già allora volevo una band coesa e unita. Purtroppo, relativamente ad alcuni dei membri, mi sono accorto che l’interesse non verteva in quella direzione. Visto che la registrazione di ‘One Of A Kind’ aveva richiesto da parte mia uno sbattimento esagerato e vedendo che non ero seguito da tutti, ho preferito concentrarmi su altro. Magari, su una band metal già esistente e rodata come i Secret Sphere, ad esempio! Come solista ho anche un altro gruppo, che porta il mio nome ‘Michele Luppi’s Band’. Con loro ripropongo tutti i pezzi che ho fatto nella mia carriera, dai Vision Divine ai Killing Touch, passando per Los Angeles, Strive e i vari dischi fatti con la Frontiers. In questo modo posso dare sfogo alla mia personalità, mostrando quanto da me fatto in tutti questi anni di carriera. Mi è sembrata la scelta giusta. Una band metal, una vera band, e uno progetto più personale e più hard rock. Ecco tutto!”.

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