Il caleidoscopio di colori sulla copertina di “The End, So Far” riflette l’album più concettuale, artistico e sperimentale dei titani dell’Iowa. Con tutta probabilità si tratta anche dell’album più divisivo del collettivo, viste le reazioni che si stanno moltiplicando a macchia d’olio, mai così opposte tra loro. Un disco che ha trovato critiche anche all’interno della stessa band, secondo le opinioni trapelate di pesi massimi come Shawn ‘Clown’ Crahan, che non lo ritiene un ‘vero’ album degli Slipknot, e Jim Root, che ha trovato la band impreparata alle sessioni di registrazione. Un disco che segna l’importante separazione della band dall’etichetta che li ha cresciuti, Roadrunner Records, e che regala spunti interessanti per quanto riguarda i possibili sviluppi artistici della band. Solo sette giorni fa abbiamo avuto il piacere di confrontarci su tutte queste questioni con il batterista del gruppo Jay Weinberg, che con tutta la compostezza e la sobrietà che lo contraddistinguono ha sviscerato le questioni riguardanti “The End” e ci ha donato una visione più chiara di questo periodo abbastanza caotico (come sempre, tra l’altro) dell’universo dei nove. Rimane irremovibile un’unica certezza: un nuovo disco degli Slipknot è un evento, senza dubbio alcuno.
CIAO JAY, OGGI SUONATE AL LOUDER THAN LIFE (UNO DEI MAGGIORI FESTIVAL ROCK E METAL NEGLI STATI UNITI, NDR) GIUSTO?
– Esatto, siamo carichi!
HO NOTATO CHE GLI STATI UNITI SONO PASSATI ABBASTANZA VELOCEMENTE DAI FESTIVAL ITINERANTI AI GRANDI FESTIVAL DI DUE O TRE GIORNATE, CON FORMULA EUROPEA, PER COSI’ DIRE.
– Assolutamente, i grandi eventi che ci sono oggi si sono sviluppati nell’ultimo decennio e hanno tratto sicuramente ispirazione dai festival europei. Anche noi con il Knotfest stiamo tentando di esportare questa cultura negli Stati Uniti e non solo, un po’ in tutto il mondo a dire il vero. Il Louder Than Life è uno degli esempi migliori in circolazione, siamo felici di poter tornare ad esibirci su questo palco a Louisville, Kentucky.
SIAMO GIA’ ALLO STESSO LIVELLO DEI FESTIVAL EUROPEI A TUO PARERE?
– E’ diverso, ogni festival sta spingendo molto per diventare un’esperienza unica. Abbiamo passato cinque settimane in Europa in giro per i festival e devo dire che ora che tocca agli Stati Uniti sto notando la voglia di rendere unico e specifico ogni singolo evento, ed è una cosa che mi piace molto. Mantiene viva ogni singola esperienza.
AVETE DEFINITO “THE END, SO FAR” COME UN DISCO PIU’ OSCURO DEL PRECEDENTE “WE ARE NOT YOUR KIND”. COSA VI HA ISPIRATO IN QUEST’ULTIMO CAPITOLO E PERCHE’ LO DEFINITE PIU’ OSCURO DI QUELLO?
– Prima di tutto è bene specificare che non abbiamo avuto alcuna discussione a riguardo, non abbiamo preso la decisione di scrivere un album in quella direzione di proposito. E’ uscito in maniera naturale, come “WANYK” era una collezione di canzoni che ci rappresentava in quel periodo, che abbiamo trovato di legare insieme, terminare e pubblicare come album. Da questa prospettiva “The End, So Far” non è diverso in alcun modo. Se alla fine risulta essere più dark del precedente può essere per una moltitudine di motivazioni: siamo nove persone che vivono nove vite diverse, che si riuniscono per lavorare allo stesso progetto. Abbiamo affrontato la pandemia ognuno a suo modo. Sono sicuro che le nostre singole esperienze siano finite nella nostra creazione, ma in generale non siamo soliti prendere come punto di riferimento il nostro vecchio materiale, penso che ogni singolo album sia un passo nella direzione in cui siamo sempre andati. Siamo cresciuti negli ultimi tre anni e questo si riflette nel disco, puoi riscontrare il progresso e puoi notare le differenze rispetto a dove eravamo tempo prima, come persone e come artisti. E’ interessante notare questa crescita come movimentazione del nostro sound.
PARLANDO DEL PROCESSO COMPOSITIVO SO CHE DI SOLITO C’E’ UN NUCLEO RISTRETTO DI TRE O QUATTRO ELEMENTI CHE SCRIVE GLI EMBRIONI DEI PEZZI, E TU SEI STATO PARTE DI QUEL NUCLEO SIN DALL’INIZIO. LAVORATE ANCORA IN QUESTO MODO?
– Questa volta è stato tutto complicato a causa delle restrizioni pandemiche. Non abbiamo avuto modo di trovarci fisicamente e scambiarci idee, se non in qualche occasione isolata. Ci sono alcuni pezzi su questo disco che arrivano da molto lontano. “Medicine For The Dead” è un pezzo che abbiamo iniziato a scrivere nel 2014 per esempio, e che non abbiamo mai considerato completo fino ad oggi. Ci sono canzoni che sono nate in quello spazio fisico collaborativo, ma il grosso del lavoro è nato lavorando da remoto, registrando delle idee e scambiandole tra di noi. Sono diventato un ingegnere del suono migliore lavorando in questo modo. Ci scambiamo idee tramite mail finché non c’è un embrione sufficientemente sviluppato da entrare in studio e registrare realmente. E’ stato un processo sicuramente inedito a causa delle limitazioni, qualcosa a cui ci siamo dovuti abituare con fatica, ma attraverso il duro lavoro credo che siamo riusciti comunque a realizzare quello che avevamo in mente.
QUANDO UNA CANZONE E’ COMPLETA E CHI HA L’ULTIMA PAROLA?
– Bella domanda. Non sai mai davvero quando una canzone è completa. C’è un detto che dice “tutte le opere d’arte non sono mai complete, sono solo abbandonate”. Pensaci, siamo nove persone che lavorano molto duramente per creare qualcosa di speciale, dopo molti anni abbiamo raggiunto quel livello in cui senza parlare siamo in grado di capire se una canzone è ad un certo livello di completezza, riascoltandola capiamo che comunica quello che vogliamo comunicare. Riguardo ai singoli contributi io so quando la mia parte è completa e non ho parola in merito a quella degli altri, devo rispettare lo spazio di tutti i miei compagni. In generale se riascoltando un brano siamo soddisfatti di com’è venuto siamo a posto, passiamo al successivo fino a quando non ne abbiamo abbastanza per un album intero. E’ un esercizio di pazienza e di consapevolezza. Continuando a lavorarci all’infinito potrebbe diventare spazzatura inascoltabile, come quando cuoci troppo una pietanza. Aiuta molto anche avere un buon produttore che tenga le persone in riga. Abbiamo lavorato con un nuovo producer, Joe Barresi, che è stato in grado anche di dirci quando mettere il punto.
SIETE QUEL TIPO DI GRUPPO CHE SI MOTIVA AUTONOMAMENTE O AVETE BISOGNO DI QUALCHE SPINTA DALL’ESTERNO?
– Non abbiamo bisogno di nessuno, siamo persone molto motivate; lo siamo fino all’ossessione, te lo garantisco, al livello che ci si aspetta da noi. Inoltre abbiamo standard qualitativi parecchio elevati a mio parere, e questo rende più facile ottenere un buon risultato. Penso che tutte le nostre band preferite si ATtengono a standard elevati: se si vuolE fare qualcosa di grande ed importante non ci si può settare sul minimo indispensabile o solo su quello che la gente si aspetta da te. Devi elevarti, devi superare le aspettative per crescere e migliorare. Abbiamo sentito questa pressione interna individualmente e come collettivo, diamo il meglio in ogni canzone e in ogni album, li trattiamo come se fossero il nostro ultimo in assoluto. Non c’è bisogno che nessuno ci spinga al nostro meglio, questa band significa molto per noi.
SEI ENTRATO NEL GRUPPO QUANDO LA BAND ERA GIA’ MOLTO BEN AVVIATA: HAI AVUTO DIFFICOLTA’ AD ENTRARE NEL MECCANISMO, A TROVARE I TUOI SPAZI CON COSI’ TANTI ELEMENTI E COSI’ TANTI PEZZI DA METTERE INSIEME? E’ PIU’ FACILE OGGI, DOPO QUALCHE ANNO?
– Oggi non sento sia più facile far parte del processo creativo di questa band. Mi sento però più integrato, con pratica, consistenza e la reputazione che mi sono costruito in centinaia di concerti in giro per il mondo,;viaggiando insieme agli altri, impari a sviluppare una chimica ed impari a conoscere le persone. Conosco i ragazzi da quando avevo dieci anni, sono ventidue anni ormai. Sono nella band da nove. Facendo parte del gruppo abbiamo avuto modo di conoscerci in maniera molto più approfondita, la nostra comunicazione si è sviluppata e mi sono integrato nel sistema in cui conviviamo ma non è diventato più facile, è stato più difficile, in qualche modo. Ho dovuto capire ed adattarmi al mio ruolo e ho dovuto coltivarlo ed espanderlo in relazione al metodo di lavoro. Ho dovuto lavorare su me stesso e sulla mia motivazione. Ho dovuto riempire un vuoto ma penso che sforzandomi di raggiungere il mio meglio contribuisco a far pressione anche su chi si trova accanto a me. Lavorare su me stesso migliora i risultati e contribuisce all’etica lavorativa dell’intera band.
HO AVUTO L’OCCASIONE DI ASCOLTARE IL DISCO E PENSO ABBIA DEGLI EPISODI ABBASTANZA DIVERSI DA QUELLO CHE CI SI ASPETTA. PROBABILMENTE QUESTI POTRANNO ESSERE ACCETTATI O MENO IN BASE A QUANTA TOLLERANZA SI HA NEI CONFRONTI DI QUALCOSA DI DIVERSO DAL VOSTRO STILE USUALE.
– Siamo sulla stessa traiettoria dei nostri fan. Cosa combinerà questa volta la mia band preferita? E’ molto eccitante riuscire a stare allo stesso passo del tuo artista preferito mentre persegue nuovi obiettivi musicali e resta creativo. Per quanto riguarda noi non stiamo a pensare se a qualcuno piacerà o meno il disco o una singola canzone, se lo facessimo inizieremmo a fare compromessi e la cosa più importante per noi è l’integrità artistica. A noi sta bene che sia un’esperienza sfidante per gli ascoltatori, di sicuro c’è un passo in molte direzioni diverse, che ci stimola molto. Ci sono fan della band e ci sono critici musicali. Da fan vorrei che la mia band preferita continuasse a fare cose diverse, a mettersi in gioco, a proporre cose che non mi aspetto di ascoltare da loro. Mi piacerebbe vedere la mia band preferita crescere, cambiare, essere fedele a se stessa ed ispirata. Per noi è lo stesso, ci piace essere ispirati e motivati, ci piace seguire il nostro fuoco interiore ovunque ci porti, senza alcun riguardo di cosa gli esterni possano pensare. Considero i fan degli Slipknot molto aperti mentalmente, penso siano in questo viaggio insieme a noi. Quando pubblichi un disco in cui spingi verso i limiti le tue possibilità, metti alla prova le tue capacità di scrittura, ti metti in gioco creativamente e una parte del tuo pubblico non lo accetta… Smettete di ascoltare, non ci rallenterete. La musica è molto soggettiva, ad alcuni piacciono certe cose, ad altri no, non ci interessa.
VISTO CHE AVETE SPINTO TANTO, C’E’ STATO QUALCUNO ALL’INTERNO DEL GRUPPO CHE PENSAVA CHE LE SPERIMENTAZIONI FOSSERO UN PO’ TROPPO?
– Non penso, quando decidiamo che la canzone è una canzone degli Slipknot non si torna mai indietro, di fatti è lì, nel disco “The End, So Far”. Abbiamo avuto un’esperienza simile su “We Are Not Your Kind” con una canzone come “Spiders”, di sicuro al di fuori del tradizionale suono Slipknot: i feedback dicevano “non è veloce, non è intensa, non è rumorosa”, ma ha il suo vibe particolare, abbiamo deciso che è una canzone degli Slipknot ed è quella la direzione in cui volevamo andare. C’è ovviamente sempre qualcosa che rimane fuori dal disco finale, e a volte capita che rimanga fuori perché decidiamo che quella musica non è Slipknot, almeno non ancora. “Medicine For The Dead”, “H377” e un paio di altre canzoni sono state parcheggiate per moltissimo tempo. Dovevano maturare, dovevamo lavorarci ancora per poter mettere il sigillo finale e arrivare alla pubblicazione, a volte espandendo il suono che caratterizza la band.
QUALCHE OPPOSIZIONE DAL MANAGEMENT O DALLA LABEL INVECE?
– Assolutamente nessuna interferenza da parte di etichetta o management. E’ tutto interno alla band, seguiamo la nostra ispirazione artistica, senza alcuna interferenza esterna. Nel mio periodo di permanenza nella band non ho mai avuto esperienze del genere, te lo garantisco. Le persone cruciali che lavorano con noi capiscono il nostro credo e ci danno totale fiducia per quanto riguarda l’ambito creativo. Lo guadagni nel tempo, dimostrandoti sempre all’altezza.
VORREI CI PARLASSI DI “ACIDIC”, UNA DELLE CANZONI PIU’ INTERESSANTI DEL DISCO A MIO PARERE. QUAL E’ STATO IL TUO APPROCCIO A QUESTO ESPERIMENTO DECISAMENTE BEN RIUSCITO?
– “Acidic” è una delle mie canzoni preferite, una delle canzoni migliori che abbiamo scritto di sempre. E’ molto particolare per il nostro stile, mostra delle influenze che scorrono nelle nostre vene da tempo ma non abbiamo mai iniettato negli Slipknot. Blues, stoner rock, sludge, doom: introdurre degli elementi di questi generi a questo punto della carriera è davvero molto esaltante. In questa canzone Corey ha dato il suo meglio, non lo avevamo mai sentito cantare in quel modo, ci ha impressionato. Avere questi momenti in cui ci diamo i brividi a vicenda è una benedizione dopo tutto questo tempo, quindi siamo molto contenti di presentare questa canzone e siamo contenti di presentarla come una canzone degli Slipknot.
POSSIAMO CONSIDERARE “ADDERAL” E “FINALE” COME DEI REGGILIBRI, QUALCOSA DI SOSTANZIALMENTE DIVERSO TIENE INSIEME LA RACCOLTA? SE LE ASCOLTIAMO DI SEGUITO SEMBRANO IN QUALCHE MODO COLLEGATE.
– Mi piace questa interpretazione. Se le senti collegate sappi che non è stato intenzionale. Non lavoriamo a tutte le canzoni nello stesso momento, è solo al momento di ordinare la tracklist che si considera una canzone come adatta ad iniziare o a finire il disco. Per noi quelle canzoni calzano naturalmente in quelle posizioni. Quando cerchi di mettere insieme un lavoro che abbia un filo logico e sia ascoltabile dall’inizio alla fine, perché è così che concepiamo gli album, desideriamo che l’ascoltatore sia trasportato in un viaggio sonoro. Per rendere l’esperienza più vivida serve un inizio ad effetto ed un capitolo finale degno di nota. Come ti dicevo non sono collegate intenzionalmente, ma se ti creano un’entrata e un’uscita ad effetto il nostro fine è stato raggiunto in qualche modo.
PARLIAMO DEL TITOLO: AVETE MESSO IN CHIARO CHE NON SI TRATTA DELLA FINE DEGLI SLIPKNOT MA DELLA FINE DI UN CICLO. PUOI SPIEGARCI QUALCOSA IN PIU’? DOBBIAMO ASPETTARCI UN’EVOLUZIONE E UNA METAMORFOSI?
– Quando ci mettiamo a fare qualcosa di nuovo, specialmente quando ci imbarchiamo nel lungo progetto di un nuovo album, siamo sempre molto fatalisti: lo consideriamo il nostro ultimo disco in assoluto. Diamo letteralmente tutto. La realtà è che non sai mai davvero quando potrebbe finire, quindi il nostro approccio è davvero quello. Lo dicevamo durante “The Gray Chapter”. Lo ripetevamo durante le registrazioni di “We Are Not Your Kind”. E’ un modo per dare il massimo e di mettere luce sul disco in maniera importante. Per quanto riguarda “The End” ci sentiamo comunque alla fine di un ciclo, le canzoni lo riflettono. Se ascolti comunque l’album e se poi ci vieni a vedere dal vivo, però, non c’è segnale di rallentamento. Il titolo intrappola un po’ il nostro approccio in cui diamo tutto senza riserve, ecco. E’ solo un nome alla fine.
PENSA CHE VI HO VISTI RECENTEMENTE SUONARE COI VENDED (IL GRUPPO DEI FIGLI DI TAYLOR E CRAHAN) E MI SONO IMMAGINATO UN FUTURO NEL QUALE GLI SLIPKNOT VANNO AVANTI PER DECENNI CAMBIANDO MAN MANO I COMPONENTI SOTTO LE MASCHERE. SECONTO TE E’ UN FUTURO IMPOSSIBILE?
– Tutto è possibile! Se lo chiedi a me poi… Se mi avessi detto all’età di dieci anni che avrei suonato la batteria negli Slipknot non ti avrei mai creduto e invece eccomi qua! La vita è folle, ci sono sempre opportunità per crescere ed evolvere quindi perché no? Mai dire mai.
TORNANDO AL DISCO CHI E’ L’MVP (MOST VALUABLE PLAYER) DI “THE END, SO FAR” SECONDO TE?
– MVP? Lo siamo tutti. Non puoi avere un disco degli Slipknot senza uno di noi. Sono fiero di come portiamo sempre sul tavolo il meglio del meglio di ognuno di noi. E’ l’unica risposta che ti posso dare, ognuno di noi è tanto singolare che non si può mettere una persona sopra gli altri. Se ci metti in fila tutti e nove offriamo tutti una cosa diversa, per il fatto che riusciamo a mettere tutto insieme a fare quello che facciamo ci meritiamo tutti il titolo di MVP.
COME DICEVI PRIMA IL VOSTRO FESTIVAL KNOTFEST SI STA ESPANDENDO SEMPRE DI PIU’ IN TUTTO IL MONDO, EUROPA INCLUSA. CONTINUERETE CON L’ESPANSIONE? POSSIAMO SPERARE IN UN’EDIZIONE ITALIANA?
– I piani sono di continuare e aggiungere sempre nuove destinazioni, assolutamente. Adoriamo portare in giro la nostra formula e suonare con band che ci piacciono. Il museo degli Slipknot, il cibo, le attrazioni, è tutta una grossa esperienza che vogliamo cresca in continuazione. Ovunque possiamo portarlo vogliamo portarlo. In Italia? Sarebbe un sogno. Potremmo avere una pizza Slipknot speciale!
SEI FRESCO DELLA TUA PRIMA MOSTRA PITTORICA: COME TI ESPRIMI DA PITTORE DIVERSAMENTE DALLA MUSICA?
– Viene comunque dalla stessa spinta creativa interiore, ma tendo a mantenere le cose separate perché sono separate. Quella collezione, che ho intitolato “The Hollow Realm”, è in realizzazione da circa otto anni. Sono quattordici dipinti di grandi dimensioni, per i quali sono state necessarie dalle trenta alle cento ore lavorative per quadro. E’ un lato diverso della mia creatività. A volte dopo intensi cicli di tour e sessioni di registrazioni estenuanti la mia vena creativa musicale si inaridisce, così voglio compartimentare i due lati e spesso mi butto a testa bassa sulla pittura. Quella mostra è la fine di questi otto anni di processo creativo. Mi sono sentito pronto ad esibire i miei quadri perché sono davvero fiero del mio lavoro, è una parte importante di me che mi sento finalmente di poter condividere con tutti.
LA PRIMA COSA CHE SI NOTA E’ CHE SI TRATTA ESCLUSIVAMENTE DI SOGGETTI FEMMINILI, C’E’ UN MOTIVO?
– E’ una scelta narrativa mia personale, si tratta di prendere traumi emozionali che hanno segnato la mia vita e cercare di creare qualcosa di positivo da questi, o anche riflettere esperienze positive una volta interiorizzate. Ho tirato fuori molto dal petto, è stato molto terapeutico. Queste esperienze di vita, dirette o indirette, ho cercato di esprimerle tramite queste figure femminili, senza rendere ovvio e didascalico l’intento del singolo quadro ma lasciando aperta l’interpretazione, tentando di evocare un’emozione o una sensazione. Ora che ho terminato questa raccolta mi sento una persona migliore, più capace di affrontare quello che la vita mi pone davanti, più in salute emotivamente.