Incurante delle critiche di eccessivo ammorbidimento piovutegli contro dopo il precedente “.5: The Gray Chapter”, imperscrutabile anche a fronte dell’ennesimo, inaspettato split con uno dei suoi componenti storici, il gigantesco freak show che risponde al nome di Slipknot si rimette in moto per catalizzare l’attenzione dell’intero circuito heavy metal con un disco – “We Are Not Your Kind” – che ne ribadisce nuovamente il carattere e la volontà di perseguire un discorso musicale in maniera profonda e coerente. Abbiamo incontrato il numero #4 Jim Root qualche ora prima della performance all’Arena Parco Nord di Bologna, e nel tempo concessoci l’impressione avuta è stata quella di parlare con un artista lontano dall’immaginario da rock star in cui indubbiamente il suo gruppo è calato, lucido nelle analisi e con i piedi ancora piantati a terra nonostante vent’anni di carriera vissuti sempre sulla cresta dell’onda. Preso atto di alcune direttive del management (in particolare, niente domande su Chris Fehn e sull’identità del nuovo percussionista), ecco il resoconto della chiacchierata avvenuta con l’imponente chitarrista americano lo scorso 27 giugno…
PARLANDO DI “WE ARE NOT YOUR KIND”, HAI DICHIARATO: “NON ABBIAMO MAI IMPIEGATO COSÌ TANTO TEMPO PER SCRIVERE UN ALBUM E NON ABBIAMO MAI RISOLTO COSÌ TANTI PROBLEMI INSIEME”. IN CHE MODO QUESTI FATTORI HANNO ISPIRATO IL VOSTRO LAVORO? QUALI OBIETTIVI AVEVATE IN MENTE DI RAGGIUNGERE CON QUESTO DISCO?
– Credo che l’obiettivo sia sempre quello di elevare e accrescere la nostra arte, anche da un punto di vista delle venue e delle produzioni da impiegare sul palco, come quella che vedrai stasera. Nel caso specifico di “We Are Not Your Kind”, la fase di lavorazione delle demo è stato un processo molto lungo e laborioso, dettato anche dal fatto che non smettiamo mai di pensare, riscrivere o aggiungere nuovi spunti ad un brano. Inoltre, ora che non sono più coinvolto in due band, posso concentrare tutti i miei sforzi sugli Slipknot, e di sicuro questo mi rende ancora più esigente su ciò che compongo. A conti fatti, si può dire sia un percorso di apprendimento per tutti noi, su come lavorare e scrivere musica insieme. Un’evoluzione costante che, bene o male, ci accompagna dai nostri esordi.
“WE ARE NOT YOUR KIND” È DI SICURO UN TITOLO MOLTO FORTE. QUAL È IL SUO SIGNIFICATO? COME LO AVETE SCELTO?
– Corey ha scritto questa frase per un passaggio del testo di “All Out Life”, riferendosi al modo in cui gli Slipknot si sono sempre posti nei confronti dell’industria musicale, delle sue regole e alle conseguenze di certe nostre scelte. Siamo una band enorme, è vero, ma non ci siamo mai piegati a nessuno. Siamo sempre andati avanti per la nostra strada, facendo solo quello che avevamo in mente di fare. Personalmente, la visione che ho di questo titolo è un po’ diversa dalla sua, dato che essere fuori dagli schemi non significa necessariamente essere soli. Se vogliamo, è un po’ più positiva. Credo che ciò che ti rende diverso e odiato da molti sia la stessa cosa che ti fa amare da altri.
ASCOLTANDO IL DISCO, HO AVVERTITO UN FORTE INCREMENTO DELLA COMPONENTE ELETTRONICA, COME SE TUTTE LE CANZONI FACESSERO PARTE DI UNA SORTA DI SOUNDTRACK HORROR. COSA NE PENSI?
– Assolutamente sì. Questo è il nostro sesto disco, nella numerologia il sei ha sempre avuto un significato particolare, e oltre a questo è anche il numero di tuta del Clown, che come saprai è un grande appassionato di cinema. Anche se “We Are Not Your Kind” non può essere definito un concept album in senso stretto, volevamo imprimergli un certo tipo di atmosfera e di impronta, legando tra loro tutte le canzoni come se fossero parte di un unicum. Ogni brano ha la sua collocazione precisa e non si trova lì a caso. Tanti gruppi al giorno d’oggi si limitano a scrivere dodici pezzi e a metterli insieme come in una playlist casuale, ma non è mai stato quello il nostro obiettivo. Solo così si può offrire un’esperienza completa e immersiva all’ascoltatore, qualcosa che vada oltre l’impostazione fast food del mercato musicale odierno.
MI HA STUPITO L’ASSENZA DI UNA VERA E PROPRIA BALLAD. ANCHE GLI EPISODI PIÙ SOFT DEL DISCO, COME AD ESEMPIO “A LIAR’S FUNERAL” E “MY PAIN”, NON SONO ESATTAMENTE PARAGONABILI ALLE VECCHIE “VERMILION PT.2” O “SNUFF”…
– È vero, ma devi capire che al momento di scrivere un disco non pensiamo mai con esattezza a quello che ci finirà dentro. Non è un processo studiato a tavolino. “Vol.3” conteneva tre ballad, “We Are Not Your Kind” nessuna, ma in entrambi i casi non c’è stata nessuna forzatura o pianificazione. Ormai sappiamo quando concentrare i nostri sforzi su un’idea e quando invece no, quando questa si possa sposare al mood dell’album e quando invece debba essere sacrificata in favore di altro. Per le sessioni di “We Are Not…” Corey ha scritto un pezzo, “Puzzles”, definibile come una classica ballad: linee di piano, chitarre in stile Radiohead, un quartetto di archi e via dicendo, ma alla fine, per quanto buona, abbiamo deciso di scartarla.
IN UNA RECENTE INTERVISTA VI SIETE DEFINITI UNA CULTURA, NON UNA SEMPLICE BAND. A MIO AVVISO, QUESTO IMPLICA UNA RESPONSABILITÀ E UN PESO ARTISTICO DIFFERENTI. COME VIVETE TUTTO QUESTO?
– È una domanda difficile. Non lo so, personalmente non riesco a guardare in maniera oggettiva questa band, ciò che abbiamo fatto e il livello di popolarità che abbiamo raggiunto. Quando leggi di persone che si sono incontrate e sposate grazie alla tua musica o che si sono salvate grazie ad una tua canzone, quando vedi fan in ogni angolo del mondo con tatuato il tuo logo, la copertina di un tuo disco o la tua faccia sulla pelle… sono cose a cui non ci si abitua mai, e che ti fanno capire di stare facendo qualcosa di più grande.
PENSATE DI RIPORTARE IL KNOTFEST IN EUROPA DOPO L’ESPERIENZA DI QUEST’ANNO ALL’HELLFEST?
– È una cosa che senza dubbio ci piacerebbe rifare. C’è da dire che portare qui l’intera produzione del Knotfest, come ad esempio il museo, è molto costoso se pensato in ottica di data singola. In Europa la gente si sposta in massa verso un unico posto per assistere ad un festival, mentre negli Stati Uniti è più diffusa la cultura del ‘carrozzone itinerante’ che aiuta ad abbattere i costi. Per questo ci siamo appoggiati ad un evento già esistente come l’Hellfest. Se ricapiterà, penso adotteremo la stessa strategia.
SE DOVESSI PARAGONARE LA MUSICA DEGLI SLIPKNOT CON UN’ALTRA OPERA D’ARTE (UN FILM, UN LIBRO, UN QUADRO, ECC.), QUALE SCEGLIERESTI?
– Anche questa è una domanda molto difficile… “This Is Spinal Tap” può andare bene come risposta? (ride, ndR) Non saprei, in questo momento non mi vengono in mente titoli precisi. Forse la cosa che più si avvicina allo spirito della nostra musica è un libro dal finale non scritto, oppure un film o un quadro incompleto. Qualcosa ancora in divenire.
IL 2019 SEGNA IL VENTESIMO ANNIVERSARIO DEL VOSTRO ESORDIO. CHE RICORDI HAI DI QUEL PERIODO? ERAVATE COSCIENTI DEL POTENZIALE DI QUEL DISCO?
– All’epoca sembrava di stare sulle montagne russe, tutto accadeva alla velocità della luce. Entrammo in studio, registrammo tre canzoni e salimmo a bordo dell’Ozzfest, senza neanche realizzare la portata di quello che ci stava capitando. Tempo pochissimo e tutto il mondo parlava di noi, una cosa folle per dei musicisti dell’Iowa. Anche per questo dico che mi è difficile riflettere oggettivamente sulla carriera degli Slipknot. A quel disco assocerò sempre sedici persone, tra noi e la crew, pigiate dentro un tour bus, in giro per il mondo, intente a dividersi docce e camere di albergo. In quegli anni abbiamo lavorato duro, spesso in condizioni precarie, senza mai fermarci. Forse, la prima volta che ci siamo guardati alle spalle per contare i nostri passi è stato per “All Hope Is Gone”. Da quel momento in poi abbiamo cominciato a raccogliere i frutti di tutta la passione e l’impegno seminati.
AVETE IN MENTE QUALCHE CELEBRAZIONE SPECIALE SULLA SCIA DI QUANTO FATTO PER “IOWA”?
– No, non credo. La priorità adesso è il nuovo disco.
VI CAPITA MAI DI RIFLETTERE SUL PESO CHE AVETE AVUTO NELL’ESPORTAZIONE MAINSTREAM DI UN CERTO TIPO DI METAL ESTREMO?
– Sì e no. Non ci siamo mai posti limiti su dove spingere la nostra musica e su quali elementi introdurvi. Combinare un riff death metal in stile Morbid Angel con uno scratch di DJ? Va benissimo. Tutto sta nell’onestà e nell’organicità del risultato finale. Fin dai tempi di “Slipknot”, siamo stati accusati di ‘infangare’ un certo tipo di musica estrema, ma ce ne siamo sempre fregati. La nostra proposta si nutre di tutto ciò che ci ispira, a prescindere dai generi e dalle etichette preconfezionate.
DOPO TUTTI QUESTI ANNI, CHE SIGNIFICATO HA PER TE SUONARE NEGLI SLIPKNOT?
– Gli Slipknot sono la mia vita e la mia famiglia. La risposta a tutte le cose successe e provate negli ultimi vent’anni. Se hai un fratello o una sorella capirai quello che sto dicendo: anche se capita di azzuffarsi come tra cani e gatti, alla fine ci si ama davvero e ci si guarda sempre le spalle. Questo è ciò che conta.