Steve Hackett non è uno di quegli artisti abituati a vivere della gloria del passato. L’ex Genesis ha ancora il massimo rispetto di quel materiale leggendario che ha costruito la sua fortuna, tanto da riproporlo abitualmente dal vivo, ma al tempo stesso la sua priorità rimane quella di comporre sempre nuova musica, provando a raccontare le sue esperienze fatte di viaggi, popoli lontani e culture millenarie. Ne abbiamo avuto prova ancora una volta con “Surrender Of Silence”, un bellissimo viaggio che travalica confini e barriere grazie alla capacità della musica di descrivere luoghi sconosciuti eppure stranamente familiari. Con molto piacere, quindi, abbiamo fatto una chiacchierata con il chitarrista, che ci ha raccontato nel dettaglio il suo continuo desiderio di esplorare nuove soluzioni, arricchito giorno dopo giorno dall’amicizia di artisti e musicisti sparsi in ogni angolo del globo.
STEVE, ANCORA UNA VOLTA ABBIAMO TRA LE MANI UN LAVORO CHE E’ UN MERAVIGLIOSO VIAGGIO INTORNO AL MONDO. QUESTA ATTENZIONE ALLE MUSICHE E ALLE CULTURE PROVENIENTI DAGLI ALTRI PAESI STA DIVENDANDO UN PUNTO CENTRALE DELLA TUA PRODUZIONE.
– Si tratta della conseguenza di aver fatto amicizia con persone provenienti da tutto il mondo, ho fatto diversi viaggi e, anzi, posso dire ormai di aver visitato una buona parte del pianeta. Di conseguenza sono stato influenzato dalle culture e dalla musica di questi luoghi. Ad esempio qualche anno fa ho avuto modo di suonare in Russia, a Mosca e a San Pietroburgo: ho sempre amato la musica russa e mi affascinano molte delle storie che raccontano quello che è successo nella storia di quel Paese. Ne ho parlato con mia moglie Jo ed è stata lei a suggerirmi di fare qualcosa che potesse richiamare quello stile. E’ nata così “Natalia”, mia moglie ha abbozzato la storia e penso che sia una delle migliori canzoni dell’intero album. L’abbiamo orchestrata ispirandoci a Prokofiev, con dei riferimenti ad altri famosi compositori russi, come Tchaikovsky e Stravinsky: non è un brano rock per come lo intendiamo abitualmente, ma è musica che racconta una storia. Poi abbiamo “Wingbeats”, che invece è una celebrazione dell’Africa. Ancora una volta è un brano che nasce da un viaggio, questa volta in Etiopia, in cui abbiamo passato del tempo assieme alle tribù locali, immersi nei più meravigliosi paesaggi naturali che si possano immaginare. Ci sono delle grosse differenze tra le diverse culture tribali, che cambiano da regione a regione, ma fin dal primo momento, quando ascolti questa canzone, capisci di avere a che fare con un sound proveniente dall’Africa. Oppure prendiamo “From Shangai To Samarkand”, un altro brano che racconta una storia, ispirato da uno strumento di origini vietnamite, un viaggio che attraversa tutto l’Oriente.
QUEST’ULTIMA E’ SENZA DUBBIO UNA DELLE COMPOSIZIONI CHE ABBIAMO APPREZZATO MAGGIORMENTE. SI SENTE COME LE MELODIE E GLI ARRANGIAMENTI SI TRASFORMINO, ACCOMPAGNANDOCI PROPRIO NEL VIAGGIO DA SHANGAI A SAMARCANDA. COME E’ NATA QUESTA COMPOSIZIONE?
– Il suggerimento della melodia principale arriva ancora una volta da Jo e anche da Roger (King, il tastierista della band di Hackett ndR). C’era questa melodia iniziale che io volevo fosse suonata dallo strumento vietnamita di cui ti parlavo, che si chiama đàn nhị, e che ha un suono accomunabile a quello della viola. Così abbiamo affidato questa melodia a Christine Townsend, che l’ha suonato meravigliosamente alla viola con questo stile orientale. Poi c’è Rob Townsend che invece suona il dizi, un flauto proveniente dalla Cina. La somma di tutti questi elementi finisce per dipingere una sorta di quadro.
INVECE PER “NATALIA”, DI CUI ABBIAMO GIA’ DETTO MOLTE COSE, COME HAI LAVORATO PER GLI ARRANGIAMENTI ORCHESTRALI? E’ UNA PARTE SU CUI LAVORI DIRETTAMENTE O TI AFFIDI AL TUO TASTIERISTA, ROGER KING, PER COSTRUIRE GLI ARRANGIAMENTI?
– Una grossa fetta del lavoro viene fatta da me con il supporto di Jo, dopodiché con l’aiuto di Roger arriviamo ad una prima orchestrazione. Per “Natalia” volevo che i riferimenti ai compositori russi fossero palesi, volevo che le persone cogliessero immediatamente questa vicinanza, perché poi mi interessava utilizzare queste influenze per raccontare una storia. Ad esempio Prokofiev è stato un grande esploratore dell’armonia, Tchaikovsky è stato un grande orchestratore, molto romantico e capace di emozionare, mentre Stravinsky ha un approccio più ritmico, spontaneo. Tre stili molto diversi che volevo fossero evidenti all’ascoltatore, anche a costo di sembrare un po’ ovvi.
UN ALTRO BRANO MOLTO IMPORTANTE PER L’ALBUM E’ “SCORCHED EARTH”. GIORNO DOPO GIORNO APPARE PIU’ EVIDENTE COME IL MONDO SIA MOLTO VICINO AL COSIDDETTO PUNTO DI NON RITORNO E POTREBBE ESSERE GIA’ TROPPO TARDI PER RIUSCIRE A RIMEDIARE.
– Assolutamente. Abbiamo già girato dei video per accompagnare l’uscita dell’album e credo che ne faremo uno anche per “Scorched Earth”. Ne abbiamo fatti per “Fox’s Tango”, “Natalia”, “Wingbeats”. “Scorched Earth” ha un testo importante, perché è proprio così: la Terra ha raggiunto il suo punto di non ritorno. Basta guardare i telegiornali per averne continuamente una prova: incendi, inondazioni, stiamo pagando un prezzo altissimo e la classe politica non rende onore alla propria professione, dato che semplicemente se ne disinteressa. Sono seriamente convinto che la razza umana non sia destinata a sopravvivere, la nostra avidità ci porterà all’estinzione. Mi piacerebbe poter essere più ottimista, ma proprio non ci riesco.
EPPURE L’ALBUM SI CONCLUDE CON “ESPERANZA”. SIGNIFICA CHE C’E’ ANCORA SPERANZA PER IL MONDO?
– Non lo so, forse sì, o forse la speranza non sarà di questo mondo ma una condizione spirituale. Non so se è ancora possibile tornare indietro, quello che so è che siamo in pericolo. Stiamo bruciando il nostro pianeta. Ci consideriamo esseri intelligenti, quindi presumibilmente capaci di imparare e i nostri governanti dovrebbero prendersi cura delle persone: invece quello a cui assistiamo è solo l’insorgere sempre più preoccupante del nazionalismo. E’ la cosa più semplice e ha sempre funzionato: le persone continueranno a livellarsi con il comune denominatore più basso. Il pregiudizio è insito nella nostra natura e non sembra volerci abbandonare. Alla gente non frega più niente… “Esperanza” è un bel momento musicale, influenzato soprattutto da Chopin: quello che Chopin avrebbe suonato al piano io cerco di suonarlo con la chitarra. Avrei voluto trasformarlo in un brano più lungo, ma alla fine è rimasto così com’è, una breve coda ottimistica per chiudere l’album.
RECENTEMENTE HAI ANCHE PUBBLICATO UN ALBUM, “UNDER A MEDITERRANEAN SKY”, CHE INVECE E’ UN VIAGGIO NEL BACINO DEL MEDITERRANEO E PARLA DI LUOGHI CHE NOI ITALIANI CONOSCIAMO BENE. IMMAGINIAMO CHE CI SIANO DELLE DIFFERENZE DI METODO QUANDO DEVI COMPORRE DEL MATERIALE ACUSTICO RISPETTO A QUELLO ELETTRICO.
– Sì, ci sono sicuramente delle differenze. Suono e ‘sogno’ in maniera differente. Anche per questo disco ho lavorato assieme a Jo, che mi ha suggerito diverse melodie: ad esempio abbiamo scelto il titolo “The Memory Of Myth” per questa composizione che volevamo avesse delle influenze radicate nell’Antica Grecia. Jo ha suggerito la melodia iniziale, che poi è stata suonata al violino da Christine. Poi è arrivato il turno di Rob, che ha preso questa melodia e ci ha costruito intorno un arrangiamento di archi. Il mio ruolo, in questo caso, è stato fare da filo condutture all’interno del brano con il mio stile che, spesso, è basato sull’improvvisazione. All’interno della canzone c’è anche un piccolo strumento a corde peruviano, che ha un suono a metà strada tra un mandolino e un bouzouki. Anche in questo caso il paragone che mi viene più facile è quello con la pittura, dove ti trovi a guardare la tela e a dire ‘potrei aggiungere un po’ di questo e un po’ di quello’. Non si tratta di una sequenza ordinata, a volte un’idea sull’introduzione per una canzone ti può venire in un secondo momento. Si lavora per spezzoni, che poi vengono combinati assieme, cercando di armonizzarli nel migliore dei modi. E’ un metodo di lavoro molto flessibile.
L’ALBUM VEDE LA PRESENZA DI NUMEROSI MUSICISTI ED OSPITI, SENZA CONTARE OVVIAMENTE LA TUA BAND. NELLA SCRITTURA DELLE COMPOSIZIONI, LASCI SPAZIO AL CONTRIBUTO DEI TUOI COLLABORATORI O TENDENZIALMENTE SEI TU A DEFINIRE OGNI ASPETTO DELL’ARRANGIAMENTO?
– Sì, c’è sempre uno spazio in cui gli altri possono intervenire e cambiare le cose e il nostro lavoro sta proprio nell’incorporare la loro performance. Ad esempio, ho lavorato con Arsen Petrosyan, che ha suonato il duduk (strumento musicale a fiato, di origine armena, ndR) nell’album sul Mediterraneo: gli abbiamo dato un’idea di quello che avevamo in mente, ma per noi sarebbe stato difficile scrivere una melodia per il duduk, perché molto dipende dal musicista che lo suona. Lui quindi ci ha dato il suo contributo e noi abbiamo suonato qualcosa che potesse armonizzarsi con la sua performance. Lo stesso è accaduto con Malik Mansurov: lui viene dall’Azerbaijan e ha suonato su entrambi gli ultimi album. E’ un musicista eccezionale, molto dotato e capace di suonare in modo estremamente veloce. Questo rende la sua performance molto interessante e in questo caso sta a me trovare delle note che possano ben accompagnarsi a quello che lui sta facendo. Ci sono occasioni in cui non c’è uno strumento a percussione nel brano e il ruolo di accompagnamento ritmico viene svolto dagli strumenti acustici. Nell’album c’è un musicista proveniente dal Tajikistan, Sodirkhon Ubaidulloev, che suona il dutar, un altro strumento a corde, e lui mi è stato raccomandato da Malik. Sono tutti strumenti che gravitano nell’orbita delle chitarre, il tar, il dutar, il sitar, che ho usato in un album precedente. Amo molto suonare con altri musicisti che usano strumenti simili al mio, così come adoro quello che sono in grado di fare le orchestre e ovviamente anche il rock puro e semplice. Se è fatto bene e ti dà una carica di energia, mi piace molto. Mi piace l’umorismo, il non prendermi troppo sul serio, e al tempo stesso mi piace quando le canzoni sono in grado di fare da commento ad una situazione sociale rilevante.
NEI TUOI ALBUM OVVIAMENTE LA CHITARRA HA UN RUOLO FONDAMENTALE, MA NON SEMPRE DA PROTAGONISTA ASSOLUTO: UNA VOLTA E’ L’ORCHESTRA, A VOLTE IL PIANOFORTE, O UN FLAUTO. QUAL E’ IL RUOLO DELLA CHITARRA COME STRUMENTO IN QUESTA FASE DELLA TUA CARRIERA?
– A volte uso la chitarra semplicemente per illustrare le note che vorrei che venissero suonate. E’ lo strumento che suono con maggiore fluidità, ovviamente, ma non è detto che la composizione si evolva intorno alla chitarra. Ad esempio un brano come “Natalia” non è stato minimamente pensato per la chitarra: pensavo ad un’orchestra, al coro dell’Armata Rossa, qualcosa di militaresco. La chitarra arriva molto più in là in questo brano. Il mio approccio è più simile a quello di un compositore classico: se pensiamo a Tchaikosky, sicuramente sarà stato molto più abile e a suo agio con un pianoforte, ma spesso e volentieri si sarà trovato a comporre una parte non considerando il piano, ma in termini orchestrali. Quando sei il solista in un’orchestra vai a creare un dialogo e devi integrarti in esso. A volte questo significa che, per creare qualcosa di interessante, bisogna anche smettere di suonare il proprio strumento e lasciare spazio agli altri, perché possano dare colore alla tua tela.
QUESTO E’ IL SECONDO ALBUM CHE HAI REALIZZATO DURANTE LA PANDEMIA. LA TUA MUSICA E’ L’ESATTO OPPORTO DEL CONCETTO DI LOCKDOWN, UNA MUSICA CHE FAVORISCE L’INCONTRO CON LE ALTRE CULTURE, CHE SI NUTRE DI VIAGGI E CHE VIVE ALL’ARIA APERTA. COME HAI VISSUTO QUESTI MESI IN CUI CI SIAMO RITROVATI CHIUSI IN CASA?
– Visto che non era possibile viaggiare, ho riempito il mio tempo facendo (e registrando) un sacco di cose. Abbiamo terminato di lavorare su un live album, ho completato la mia autobiografia e abbiamo registrato questi due dischi. Queste lunghe sessioni di registrazione sono state molto produttive, quindi da un certo punto di vista si è trattata di qualcosa di frustrante, ma al tempo stesso anche pieno di ispirazione. E’ stata un’occasione per guardare dentro di noi e lasciare che fosse la musica a portarci là dove una volta ci avrebbero portato i nostri passi.
QUANTO E COME SEI CAMBIATO COME MUSICISTA E ARTISTA RISPETTO AI TUOI ESORDI DA SOLISTA NEGLI ANNI SETTANTA?
-Posso dirti quello che non è cambiato di sicuro: anche se è passato tanto tempo il mio approccio alla musica è rimasto lo stesso, per me si tratta ancora di un’avventura. Da questo punto di vista mi sento molto simile a quello che ero da giovane. Al tempo stesso oggi riesco a suonare cose che all’epoca non sarei riuscito a suonare: quando lavori e sperimenti, con la tecnica inevitabilmente ti trovi a cambiare, ma quello che rimane immutato è lo spirito. Per me il viaggio musicale resta ancora la cosa più importante e continuo a volermi mettere alla prova.
TU AMI MOLTO VIAGGIARE E CHI TI SEGUE SUI SOCIAL SA CHE HAI VISITATO DAVVERO GRAN PARTE DEL MONDO. C’E’ UN POSTO DOVE NON SEI ANCORA STATO E CHE VORRESTI TANTO VISITARE?
– Uhm, vediamo… Non sono stato sulla cima dell’Everest! Mi piacerebbe andarci, o comunque visitare l’Himalaya. Non sono mai stato in Nepal, mentre mia moglie sì e mi ha raccontato quanto sia meraviglioso. Mi piacerebbe visitare il Tibet, ma non è ancora successo. In un certo senso “From Shangai To Samarkand” è il modo per vivere questo viaggio ideale.
L’ITALIA E’ SEMPRE STATO UN PAESE MOLTO VICINO AI GENESIS, FIN DAGLI ESORDI, QUANDO ANCORA ERAVATE SCONOSCIUTI AI PIU’. C’E’ UN LEGAME AFFETTIVO PARTICOLARE NEI VOSTRI CONFRONTI.
– Ho sempre dei ricordi bellissimi dell’Italia: è un Paese meraviglioso e avete tanto di cui essere orgogliosi. Ho la sensazione che tutti i miei viaggi in Italia si uniscano in un’unica grande esperienza. Penso che, tra tutti i paesi mediterranei, sia quello in cui mi sento più a casa. Mi manca tantissimo tornare in Italia, perché è uno dei Paesi che non manca mai nei miei tour e dove torniamo anche 2-3 volte all’anno. E’ un posto speciale e straordinario per tante ragioni.
UN’ULTIMA DOMANDA, STEVE, A PROPOSITO DEI GENESIS. I TUOI VECCHI COMPAGNI, POCO PRIMA DELLA PANDEMIA, HANNO ANNUNCIATO UN NUOVO TOUR, MA ANCHE QUESTA VOLTA LA SCELTA E’ CADUTA SULLA FORMAZIONE A TRE. TU COSA NE PENSI? CREDI CHE CI SIA ANCORA SPERANZA DI VEDERTI SUL PALCO ASSIEME ALLA TUA VECCHIA BAND?
– La mia porta è sempre aperta per loro, ma è necessario che ci sia la volontà di tutti per provare a fare qualcosa del genere. Fino ad ora non è successo, ma è comunque un bel sogno.