STEVE VAI – La luce nelle dita

Pubblicato il 10/12/2012 da

Ritorna Steve Vai, immenso artista che ha saputo letteralmente trasformare il concetto di guitar hero, con un lavoro a tratti interlocutorio, intitolato “The Story Of Light”, dopo sette anni dal precedente capitolo della trilogia. L’album presenta sicuramente elementi di spicco, ma nel complesso tradisce una certa stanchezza di fondo; cosa che assolutamente non si può dire dei suoi live, ancora energici e frizzanti, dove il buon Steve dimostra di avere un’attitudine notevole. Metalitalia.com l’ha incontrato per una breve chiacchierata nel backstage dell’Alcatraz di Milano, dove un’ora dopo avrebbe deliziato le orecchie dei fan con tre ore indimenticabili di concerto.

POCHI MINUTI FA, IN OCCASIONE DEL SOUNDCHECK RISERVATO AI FAN CHE HANNO ACQUISTATO IL VIP PASS, ABBIAMO ASSISTITO AD UNA PROPOSTA DI MATRIMONIO SULLE NOTE DI “THE MOON AND I” TRA DUE TUOI AMMIRATORI. TI ABBIAMO VISTO COMMOSSO, COSA HAI SENTITO?
“E’ stato molto emozionante, non trovi? Il mio manager mi aveva detto che durante il soundcheck ci sarebbe stata questa cosa, e io avevo proposto di farla direttamente nel concerto, ma il ragazzo aveva vergogna a fare la sua dichiarazione davanti a tutta la gente accorsa all’Alcatraz. Abbiamo iniziato a suonare ‘The Moon And I’, e ho pensato che quello fosse il momento migliore; ho detto alla band di continuare a suonare ed ho chiesto loro di salire sul palco. La ragazza non sapeva nulla, ovviamente, ed era incredula. Il ragazzo con mia grande sorpresa le ha cantato il pezzo, ed io mi sono commosso, perché è bello poter rappresentare un’opportunità per una dichiarazione così importante. E’ stato uno dei momenti più emozionanti di tutta la mia vita, e credo che non lo dimenticherò mai”.

SONO PASSATI SETTE ANNI DALLA PRIMA PARTE DEL CONCEPT CHE CONTINUA CON “THE STORY OF LIGHT”. TI SEI PRESO MOLTO TEMPO…
“Il mio problema, se così si può definire, è che mi interesso a moltissime cose, mi piace tenermi sempre occupato. Dopo ‘Real Illusions: Reflections’ sono partito per un tour di un anno, ho composto due ore di musica orchestrale per la Metropole Orchestra in Olanda, poi ho preparato il DVD chiamato ‘Where The Wild Things Are’, il tributo a Hendrix, il tributo a Frank Zappa, il G3, il masterclass ‘Alien Guitar Secrets’, ed ho scritto due sinfonie. Solo quest’ultima esperienza ha assorbito tutte le mie energie per sei mesi, perché mi sono dovuto concentrare davvero molto. Alla fine di tutto ho realizzato per l’ennesima volta che la cosa che mi riesce meglio è suonare dal vivo, sentire il calore dei miei fan. Questa è la cosa più importante per me”.

IL TUO STILE E’ MOLTO PERSONALE, SIA DAL PUNTO DI VISTA COMPOSITIVO CHE ESECUTIVO. CI BASTANO UN PAIO DI NOTE (A QUALCUNO NE BASTA UNA SOLA) PER CAPIRE CHE STIAMO ASCOLTANDO STEVE VAI. SEI ANCORA IN GRADO DI STUPIRE E SORPRENDERE TE STESSO QUANDO PRENDI IN MANO LO STRUMENTO?
“Sì, succede sempre in realtà. Io so che siamo tutti in grado di creare qualcosa che sia completamente al di fuori del nostro ‘radar’, qualcosa a cui non stiamo pensando al momento e che a volte non pensiamo neanche di essere in grado di realizzare. Quando questo avviene, la cosa è davvero eccitante. E lo facciamo tutti secondo me. A volte viene fuori qualcosa che ho deciso a priori, a volte invece l’idea prende vita da sola e si sviluppa in modi imprevedibili”.

UNO DEI PEZZI PIU’ INTERESSANTI DELL’ALBUM E’ “GRAVITY STORM”, CON QUEL SUO RIFFING ‘APPESANTITO’, PROPRIO A RICHIAMARE LA GRAVITA’. QUESTO E’ UN ESEMPIO DI COME LA MUSICA, SE PENSATA CON CRITERIO, POSSA ESSERE UNO STRUMENTO ESPRESSIVO UNIVERSALE…
“Hai perfettamente ragione. Il pezzo è nato da alcune idee che ho registrato estemporaneamente sul mio iPhone. Stavo suonando questo riff ricco di ‘bending’, ed ho pensato come avrebbe potuto suonare su un pezzo intero. Da lì mi è venuta in mente l’idea della pesantezza, della gravità, ed ho applicato quell’idea alla composizione di ‘Gravity Storm’. E’ diverso dall’accordare la chitarra come i gruppi djent, qui si parla di una pesantezza più concettuale. E’ molto divertente da suonare, te lo assicuro, e anche molto difficile, perché l’effetto è ottenuto esclusivamente dalle dita della mia mano sinistra, niente whammy né chitarra fretless”.

HAI ACCENNATO AL GENERE DEFINITO COME DJENT, DOVE LE CHITARRE A 8 CORDE SONO QUASI UN MUST. RICORDIAMO CHE TU HAI INTRODOTTO LA CHITARRA 7 CORDE: COSA NE PENSI DI QUESTO GENERE IN ASCESA E DI QUESTE CHITARRE ‘ESTREME’?
“Mi piace vedere come la musica si evolve, ed in tutti i generi c’è un’evoluzione. Ci sono alcune cose che trovo davvero eccitanti, e in alcune sottoculture del metal la 7 corde è diventata un must. Ora che sono spuntate queste nuove chitarre le cose si sono complicate, ma io guardo l’attitudine di una band, il suono, l’energia, le melodie, l’originalità. C’è un mondo di musica da scoprire, e quello che conosciamo noi è solo una minuscola parte”.

C’E’ QUALCHE COSA IN PARTICOLARE CHE RICORDI DELLA REALIZZAZIONE DI “THE STORY OF LIGHT” E CHE CI VUOI RACCONTARE?
“Tutti i pezzi hanno qualche difficoltà, qualcuno di più e qualcuno di meno. Per esempio la title track nella sua parte finale mi ha portato via un sacco di tempo perché non si tratta semplicemente di un assolo, ma di un’orchestrazione di melodie, pianoforte, chitarra, basso, batteria, ed il tutto ovviamente dev’essere realizzato con estrema precisione. Anche ‘Mullach a’ tSí’ è stato un’impresa, perché volevo uscirmene con un fraseggio che non avevo mai provato prima. Per ‘John The Revelator’ il difficile è stato mettere insieme tutti gli elementi e le voci del coro. ‘Weeping China Doll’ invece è stata facilissima da comporre e registrare, è venuta fuori con estrema disinvoltura. Come ti dicevo ‘Gravity Storm’ è stata difficile da suonare perché volevo che suonasse naturale, non forzata”.

HO AVUTO MODO DI CHIEDERE A DEVIN TOWNSEND COSA RICORDA DEL PERIODO PASSATO CON TE PER L’ALBUM “SEX & RELIGION”. ORA VORREI SAPERE DA TE COME HAI PASSATO IL TUO TEMPO CON UN ARTISTA DI TALE CARATURA, CHE AI TEMPI ERA SOLO UN RAGAZZINO DI BUONE SPERANZE…
“Avevo appena realizzato ‘Passion & Warfare’, che aveva avuto un grande successo. A quel punto non sapevo come affrontare un tour, e mi piaceva l’idea di avere un frontman, pocihé amo la musica cantata. Un mio amico mi ha mandato una cassetta di questo teenager, e mi ha colpito da subito per la sua incredibile voce. L’ho incontrato, ed era giovane e selvaggio. Ma sapevo che aveva un grande talento, almeno dal punto di vista vocale. Non avevo ancora capito quanto fosse bravo anche a livello musicale, perché nella mia band non c’è una democrazia. E’ il mio progetto, è la mia musica, e lui doveva cantare come volevo io. Ci sono un paio di pezzi, ovvero ‘Pig’ e ‘Just Cartilage’, dove ci siamo messi a scrivere io e lui, e ti devo dire che sono forse le canzoni che preferisco di quel disco. Ma una volta andati in tour, e una volta conosciutolo, ho capito che aveva una grande ed intensa energia creativa, e che con me era come un uccello in gabbia, perché non poteva esprimersi come voleva. Dopo quell’esperienza volevo riprendere con la musica strumentale, ed essere completamente indipendente. Quando ha cominciato la sua carriera solista ho avuto la prova di quanto fosse talentuoso. Io credo davvero che sia un genio, uno degli artisti più determinati che io conosca. Quando ha in mente una cosa, non metterti sul suo cammino: niente e nessuno può fermarlo. E’ uno degli artisti di cui porto tutta la musica sul mio iPhone, ed ascolto la sua musica spessissimo perché è qualcosa di potente, di elettrizzante per me”.

HAI PARTECIPATO AL SUO RETINAL CIRCUS COME OSPITE, VERO?
“Sì, ho fatto la voce narrante, ed è stato molto divertente. Mi ha contattato, dicendomi che mi era grato perché l’avevo introdotto nel music businness. Gli ho risposto che avrebbe avuto successo in ogni caso, perché la sua determinazione e la sua genialità sono cose che non gli ho insegnato io”.

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