STEVE VON TILL – Di come mormorano gli dèi antichi

Pubblicato il 27/09/2020 da

E se per un attimo si lasciasse da parte la distorsione, il noise, le chitarre, il metal e tutte quelle categorie che tante volte pesano ad una certa libertà espressiva? E se da un personaggio come Steve Von Till si cercasse di assaporare le tonalità più semplici, minimali, ambient? Se poi gli si chiedesse come mai abbia rilasciato un disco con delle armonie così ‘abusate’, come mai sia uscita improvvisamente una raccolta delle sue poesie e delle sue ‘collected lyrics’, come e dove sia finito il vecchio post-metal, cosa esso rappresentasse e se mai ci sia stato per davvero…
Abbiamo provato a parlare con uno dei più grandi personaggi che si sono affacciati alle porte del metal nell’ultimo trentennio, plasmandone le stesse forme e divenendo – coi Neurosis – emblema del binomio musica pesante/pensante e abbiamo tirato fuori questa intervista telefonica. Cosa ci riserva “No Wilderness Deep Enough”, “Harvestman: 23 Untitled Poems & Collected Lyrics” e il futuro degli stessi Neurosis: dagli ettari del podere in Idaho, mentre i latrati bonari dei suoi cani accompagnano il silenzio della natura, la voce baritonale del cantautore californiano riecheggia come quella di un dio antico. 

CIAO STEVE, VOLEVO INIZIARE CHIEDENDOTI QUALCOSA SULLA POESIA. LE PAROLE NON SEMBRANO MAI STATE COSÌ IMPORTANTI COME SONO OGGI NELLA TUA ARTE. VOGLIO DIRE: TI SARESTI MAI ASPETTATO DI PUBBLICARE UNA RACCOLTA DI POESIE?
– Effettivamente ho scritto poesie per tutta la vita, ma non ho mai avuto alcuna intenzione di pubblicarne nessuna. Ho sempre riempito i miei quaderni e i miei diari di poesie. E al momento di dover scrivere dei testi per le mie canzoni esse diventavano un serbatoio in cui poter scavare e da cui poter recuperare alcuni versi, delle parti, che potessero funzionare insieme alle musiche e al resto del testo. Per i Neurosis o per i miei album solisti, dipendeva dall’occasione, ma quelle parole erano sempre lì. Credo che le liriche e le poesie – nonostante possano sembrare simili – servano scopi diversi.  Le liriche devono servire la musica. La musica, certo, per me, è sempre venuta prima, in termini della mia espressività, quindi, in questo senso, le parole che utilizzavo avrebbero probabilmente dovuto entrare sulla musica. Dovevano funzionare in quel senso specifico: in termini di cadenza, ritmo, melodia. Quale vocale scegliere su cui dare l’accento, come tradurre la musica in immagini, quali parole potevano rappresentare meglio i suoni, e lì allora recuperare cinque o sei versi da quello che avevo scritto nei quaderni diventava importante: fare un collage che potesse essere utile ai fini della canzone.  Ma in questo ambito specifico, sempre al servizio della musica. Per quanto riguarda le poesie, invece, è un’altra storia. Dire tutto quello che l’emozione necessita senza la musica, senza i suoni. Le parole diventano le uniche strutture su cui basarsi. La poesia ha il suo territorio nel pezzo di carta, reclamando il suo completo spazio. I testi per le canzoni, se ci pensi, possono anche essere dimenticati in favore del resto, almeno qualche volta. Con la poesia ti bastano solo le parole, è tutto lì.

SO CHE SEI SEMPRE STATO UN GRANDE FAN DEI CANTAUTORI COME TOWNES VAN ZANDT, BOB DYLAN, PATTI SMITH, LEONARD COHEN… MA HAI QUALCHE GRANDE POETA PREFERITO CHE – DICIAMO – POSSA ESSERE CONSIDERATO UNA TUA GRANDE ISPIRAZIONE? E POI, LEGGI MOLTA POESIA?
– Assolutamente, quelli che hai nominato sono nomi importantissimi per me. Ma sicuramente di poeti – intesi nel vero senso della parola, come credo intenda tu stesso – ce ne sono moltissimi che leggo, che ammiro e che sono stati – e continuano ad essere – fonte d’ispirazione. Direi quasi essenziali. Penso che uno dei meno conosciuti, ma anche dei più importanti per me, sia stato John Trudell, poeta ed attivista nativo americano. E’ stato importante per tutto il movimento dei nativi americani, quello che ha parlato per loro, ma era anche un cercatore, un visionario. Ha scritto poesie molte belle, spesso ha inciso album di spoken word, legati anche ad una tradizione percussiva e musicale tradizionale indiana. Adoro anche Seamus Heaney, poeta irlandese, anche se non lo definirei una delle più importanti ispirazioni, mi piace solo leggerlo. E poi tutta la poesia trascendentale americana, come Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman: tra le prime voci che hanno parlato della nostra disconnessione tra anima e natura nell’età dell’industrializzazione. Infine, tutti i grandi classici, immortali, come William Blake, Tennyson, Robert Service. Mio nonno adorava Service, c’è anche una registrazione sua, infatti, che legge una poesia di Service in una delle mie canzoni. Si chiama “The Harpy”. Ti direi anche Sylvia Plath, molto importante per me come influenza. E Ted Hughes, hai presente, che ha scritto con lei, me lo ricordo sin dai tempi del college. Ma è solo recentemente – e per recentemente intendo cinque o sei anni fa – che ho letto “Crow”, un libro oscuro, meraviglioso che lega Hughes alla Plath. Ma non voglio annoiarti oltre…

WOW. AVRESTI DOVUTO FARE IL POETA MOLTO PRIMA!
– Beh, sono stato troppo impegnato ad evitarlo.

QUESTA BELLEZZA RURALE CHE TU SEMBRI RISCOPRIRE NEL DISCO NUOVO, IN TUTTE LE SUE FORME, CREDO SIA STATA RESA FONDAMENTALE IN QUESTE CANZONI E IN QUESTE POESIE. VOGLIO DIRE, RISPETTO ALL’OSCURITA’ INDUSTRIALE E CITTADINA…
– In effetti penso di aver sempre scritto di qualcosa, in qualche modo, legato alla natura. Anche se, però, questo immaginario di paesaggio naturale è constante, non penso però di scrivere della Natura in sé. Non so se mi spiego. Credo che queste visioni, queste immagini, queste canzoni siano metafore per panorami interiori, della nostra arte, della mente, e dell’anima. Quando ero più giovane e vivevo in città ricercavo molto uno spazio naturale, un contatto recondito con la bellezza delle cose che vivono davvero, lontane dal cemento, dall’asfalto, dal rumore urbano. Ero molto triste in città per questo: il fatto che l’umanità si sia allontanata dalla natura. Sai, anche perché ad un certo punto ti rendi conto che siamo fatti della stessa sostanza dei sassi, degli alberi, dei campi, dei fiumi, dei laghi. La lontananza dell’umanità con queste cose, il tentativo di dominarle a tutti i costi, il rifiuto di quel tipo di atteggiamento ha portato ad allontanarsi dalla bellezza pura. La morte di tutto ciò che c’è di bello. Questa volontà di ritornare alla natura, queste metafore, questa tristezza o felicità interiore è quella natura di cui parlo. Negli ultimi quindici anni ho vissuto in questi dodici acri di foresta qui, ora sono qui in contatto con le stagioni, col tempo, e sono sempre impegnato, come insegnante, come membro di una famiglia, padre, marito, ho una stalla anche, e non ho tutto quel tempo creativo che magari vorrei avere. Se mi pensassi in città non potrei avere neanche questo contatto con la natura. Mi mancherebbe inesorabilmente. Devo viverlo, se non non arriverei a fine giornata. In quindici minuti sono su una montagna, in cinque minuti sono di fianco ad un lago, devo respirare questa aria per trovare la mia pace. La mia serenità è tutta nell’aria che respiro.

PARLIAMO DELLA GENESI DELL’ALBUM, INFATTI. HO LETTO CHE E’ STATO CONCEPITO IN GERMANIA: MINIMALISMO, ESSENZIALITA’, POI RANDALL DUNN TI HA DETTO CHE AVRESTI DOVUTO METTERCI SOPRA DEI TESTI, LA VOCE, E COSI’ VIA… ANCHE SE L’HAI RIPETUTO TANTE VOLTE, TI VA DI RACCONTARCI COME E’ ANDATA?
– Ok, ora penso come dirlo in maniera diversa. L’ho ripetuto fin troppe volte che adesso è necessario aggiungerci qualcosa di differente (ride, ndr). Si, comunque, è come hai detto tu. L’intero processo di questo album, dall’inizio alla fine, è stato accidentale. Mia moglie è tedesca, la sua famiglia vive a mezz’ora da Bremen, in una fattoria con cinquecento anni di storia. Viaggio spesso in Europa, mi piace molto, e di solito non ho mai avuto problemi. Ma quella volta ho avuto un jet-lag terribile per quella intera settimana. E dunque, per non disturbare, me ne stavo fuori sul porticato per i fatti miei la notte, tanto non riuscivo a dormire. E’ una casa che ha moltissimi anni, è stata eretta e ricostruita nello stesso posto per cinquecento anni. Sai, l’Europa si poggia su cose antiche come questa, lo sai bene; noi americani vediamo questa cosa come speciale, ma credo la viviate anche voi allo stesso modo. L’Europa ha una storia propria che dura da molto. Anche l’America, in realtà, perché c’erano i nativi, però l’assetto europeo in America è decisamente recente e quindi molto spesso non si possono avere queste sensazioni speciali che i secoli portano con sè. Questo aspetto di storia porta infatti con sé i suoi spettri, i suoi Dei antichi – ti parlo in maniera poetica, non certo inquietante. Restano lì e affollano quei silenzi. Le piante che hanno secoli, le montagne nate pian piano dal terreno, ci sono siti megalitici, la gente ha lavorato quei campi per anni, tutte queste cose non possono non fluire, non restare in quelle stesse cose. E lo stato allucinatorio dal non dormire ha fatto sì che questi spiriti, non so, potessero fluire anche dentro di me in quei momenti. Al posto di stare a letto, avevo un laptop, delle cuffie, e una tastiera e cercavo di ascoltare quello che c’era intorno, in maniera del tutto semplice e naturale. Guardavo il cielo e facevo accordi molto semplici, quasi banali. Se fossi stato completamente conscio, in un altro stato, non sarebbero stati fatti in questa maniera. Non sono un pianista, ovviamente, ma avrei suonato altre cose. Ho aggiunto giusto il mellotron, i suoni del corno francese, qualche violino e qualche arrangiamento al computer. Poi son tornato in studio qualche settimana dopo e ho messo un po’ di effetti, ho aggiunto e arrangiato, ho dato una forma a quelle cose. Ed è diventato più o meno quello che senti oggi. Sapevo che mettere le chitarre sarebbe stato un errore. Poi, dopo un po’ di tempo, sono andato da Randall Dunn e gli ho detto “Ehi, mi  sa che sto facendo ambient adesso!”.  Non so, pensai che magari potevamo inserire un piano vero, un corno francese vero, qualcuno che quei timbri li avrebbe suonati veramente. Lui mi disse che avrebbe dovuto essere assolutamente un mio album solista ma io non volevo rovinare con la mia voce cupa quelle cose bellissime. Passò un po’ di tempo e in un periodo in cui mia moglie era via, e io dovevo stare coi miei cani al podere, allora ho messo un microfono nella stanza, il mio taccuino, ho acceso il camino per qualche giorno e ho provato a metterci sopra le parole. Ho chiamato Randall Dunn e gli ho detto che forse aveva ragione. Allora eravamo troppo occupati, abbiamo aspettato Giugno 2019, e a New York in tre giorni abbiamo finito tutto. Sono davvero contento e non credo ancora oggi che stavo effettivamente lavorando ad una cosa del genere, nata in questo modo e che è effettivamente diventata quello che oggi puoi ascoltare. Sono davvero fiero di questo, del fatto di aver accettato una sfida. Ma soprattutto che le cose siano andate naturalmente.

DA ASCOLTATORE POSSO DIRTI CHE C’E’ SÌ UN AMBIENT ALBUM CON LA TUA VOCE, MA SI SENTE UNA BELLEZZA ETEREA CHE E’ DIVERSA DA QUANTO TU ABBIA FATTO IN PRECEDENZA, PUR RIMANENDO PERFETTAMENTE NEL TUO AMBIENTE…
– Esatto. Anche per me è totalmente diverso. A differenza delle altre cose che ho fatto, la musica non è stata scritta per tenere una voce. Non ci sono chitarre. Imparare ad arrendersi alla corrente, all’imprevedibile, accettandolo, è qualcosa che sto imparando. Imparare ad uscire da se stessi, dai propri schemi. Ho compiuto un altro passo verso l’allontanarmi da quello che conosco. La stessa cosa è avvenuta col libro di poesie. Sai come succede nella musica estrema… C’è sempre quel punk dentro di te, e negli altri, che ti dice: “Chi ti credi di essere per pubblicare un libro di poesie?”, “Chi ti credi di essere per fare un album del genere?”.

PARLANDO DI METAFORE, VOLEVO CHIEDERTI QUALE PUÒ ESSERE L’ESSENZA PROFONDA DEL SELVAGGIO, VISTO CHE “NO WILDERNESS DEEP ENOUGH”…
– Difficile. Credo l’infinità del cosmo. Ma stiamo parlando in strani termini filosofici. Credo che perdersi fino in fondo sia una questione mentale, non spaziale. Alcuni ce la fanno in molti modi, con altre tecniche, meditazione, consapevolezza, stati allucinatori, sono sicuro ci siano molti monaci ben addestrati che riuscirebbero a perdersi e ad unificarsi nelle e con le cose e col niente intorno, anche in una metro, sul treno, anche nel caos cittadino. Per me non funziona così. Ho bisogno della musica, della natura per farlo. Non sarei capace altrimenti. Sei su una montagna, ti siedi al tramonto, all’alba e contempli, cerchi di ascoltare le cose intorno, cerchi di allontanarti da te, da quello che conosci. Ma ci vuole concentrazione. Non è certo semplice. La mia mente in qualche modo interferisce sempre e comunque io son fatto così: torno subito ai miei piani, schemi, preoccupazioni. C’è la musica, però, quella si. Quella permette di perdersi e unificarsi col resto.

OK, SIAMO STATI LONTANI DAL METAL FINORA. MA DEVO CHIEDERTELO: COME TI SENTI TU, ORA, RISPETTO A QUESTO MONDO? PENSI CHE LE DISTORSIONI, L’ASPETTO PUNK, LA RABBIA E QUELLE COSE CHE SONO STATE AFFRONTATE UN TEMPO RIFLETTANO ANCORA CHI TU SEI? E RIGUARDO ALLA TUA MUSICA, COME SENTI QUESTE COSE? TI SENTI CAMBIATO, IN QUESTO SENSO?
– Non sono cambiato. Resto lo stesso di sempre. Certo, sono cresciuto e ho imparato qualcosa. Quando ero un teenager nella scena indipendente heavy, sai, ho scoperto la musica ascoltata a casa, avevo scoperto l’hi-fi, l’heavy metal dal vivo, l’ideale del punk, una scena dove non dovevi essere un virtuoso ma dovevi solo avere passione, il riuscire a trovare una strada tua, quella libertà. Insomma, quelle cose non scompariranno mai. Non puoi togliere i Motorhead fuori dal mio sangue. E’ quello che sono. La musica e l’arte che c’è in te tra i sette e i ventuno: in quei quattordici anni che hanno formato chi sono, beh, sono quelle che resteranno per sempre. Non si possono togliere, sono il mio DNA. Non ascolto oggi ancora molta roba heavy, devo essere sincero, e quando lo ascolto sono tutte cose piuttosto nostalgiche. Ma ascolto un sacco di cose nuove, invece, veramente di tutto. Non so, per quanto riguarda le etichette, non ci credo: insomma, tendiamo a etichettare sempre, mettere in cassetti, compartimenti stagni, queste cose come se fossero idee separate e differenti. Folk, ambient, metal, insegnante, scuola, libro di poesia. Non c’è niente di strano, sono io quello. Tutto questo, insieme. E non ci trovo niente di sbagliato.

MA SI, CERTO, FORSE NON SONO IN MOLTI OGGI CHE RITENGONO SI POSSA TRANQUILLAMENTE MISCHIARE I MOTORHEAD CON RALPH WALDO EMERSON ED ESSERE ANCORA PUNK… MA QUINDI TI CHIEDO, A PROPOSITO DI COMPARTIMENTI STAGNI, COSA E’ PER TE IL POST-METAL, VISTO CHE, FORSE NON A TORTO, TI SI POTREBBE CONSIDERARE UNO DEI PADRINI?
– Penso che tutti quei termini sembrano ridicoli. Non so neanche cosa significhi. Capisco che si debba catagorizzare le cose, tu lo sai bene, essendo un giornalista, non voglio mancare di rispetto a nessuno. Lo si fa per far capire meglio, per aiutare a inquadrare un ambito, dare delle referenze per capire di cosa si sta parlando, ma, sai, io non ci credo. Voglio dire, io sono un metallaro o, ancora meglio, sono un punk. Ho un tatuaggio dei Motorhead e sono cresciuto con l’heavy metal. Ora abbiamo una scena indipendente propriamente metal ma allora non era per forza così netta la differenza. Considero ancora i Neurosis come un gruppo punk psichedelico, anche se capisco sia un’altra categoria orribile. Non ci sono soli di chitarra, riff galoppanti e quelle cose li. Sì, ci sono i suoni delle chitarre pesanti, quello sì, e mi sento sicuramente più vicino ai Sabbath, ovviamente, ma in modo uguale anche ai Black Flag, ai Joy Division, ai Throbbing Gristle e anche ai Pink Floyd. Trovo che queste codificazioni un tempo non ci fossero. Negli anni Ottanta quando eravamo punk per davvero quello significava fare quel cazzo che volevamo. Ma credo che le cose siano oggi diventate limiti, proprio grazie a queste etichette. Preferisco intense music, independent music, underground music e cose così, ma non posso certo categorizzare la mia musica in un certo modo specifico. Avvicino le cose non per stile ma per emozione per originalità, per intensità. Per me i Throbbling Gristle, o i dischi dei Deaf Kids, sono di fianco a quelli dei Pink Floyd.

COME INSEGNANTE, QUALE CREDI POSSA ESSERE LA LEZIONE PIU’ IMPORTANTE DA TRASMETTERE ALLE NUOVE GENERAZIONI? A PARTE IL PASSARE I TUOI DISCHI E QUELLI DEI NEUROSIS, OVVIAMENTE.
– (Ride, ndr) Ho scritto su un pezzo di carta una cosa che tengo sempre sul banco per ricordarmi il perché lo faccio. Il perché sono lì. Ispirare. Questo è l’importante. Aiutare i ragazzi a pensare criticamente, capire che il mondo è più grande del limitato universo del loro spazio, cercare sviluppare la curiosità e la passione verso qualcosa in cui credere in cui non lasciare andare.

STEVE, QUALE E’ LA CANZONE PER CUI DESIDERESTI ESSERE RICORDATO?
– Spero di non averla ancora scritta. Ci spero davvero. Mi piace pensare che il meglio debba ancora venire.

L’ULTIMA DOMANDA, QUASI D’OBBLIGO: NEUROSIS, COSA ACCADRÀ?
– Per ora stiamo un po’ calmi. Ci stiamo riprendendo dal tour e il mondo sta cambiando, sai, non abbiamo piani per ora. Non è un lavoro a tempo pieno e dobbiamo impegnarci ed immergerci in questo solo quando ci sentiamo pronti.

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