SUFFER YOURSELF – Un mare di pazzia

Pubblicato il 23/09/2021 da

Autori di un disco funeral doom piuttosto anomalo per questioni di durata – poco più di mezz’ora – i Suffer Yourself si distinguono anche per un’esplorazione di sonorità plumbee per nulla avaro in termini di varietà e profondità. Infatti, con la loro musica partono da istanze care a Evoken, Mournful Congregation e scenari death-doom anglosassoni, per contaminarsi di abbondanti dosi di drone, industrial, ambient. Una miscela intrigante, che porta a uno spiccato camaleontismo e a poca prevedibilità la musica dei quattro, esponente di quel doom underground che non si accontenta di omaggiare la tradizione, vuole andare oltre, creare un proprio universo sonoro e sensoriale. E non possiamo che constatare il raggiungimento di tale obiettivo, per i Suffer Yourelf. Incontriamo allora i pensieri del suo fondatore, leader e principale compositore, Stanislav Govorukha, che ci descrive nel dettaglio la storia recente della sua creatura.

“RIP TIDE”, IL VOSTRO NUOVO ALBUM, ARRIVA A CINQUE ANNI DA “ECTOPLASM”, UN’USCITA CHE AVEVA CONQUISTATO UNA CERTA ATTENZIONE DA PARTE DEI FAN DEL FUNERAL DOOM. DOPO UN ALBUM CHE AVEVA OTTENUTO COSÌ BUONI RESPONSI, QUALI ERANO LE VOSTRE SENSAZIONI AL MOMENTO DI COMINCIARE A LAVORARE SUL SUO SUCCESSORE?
– Non è stato facile ripartire. Soprattutto perché ero abbastanza esausto per tutti gli sforzi profusi in “Ectoplasm”, che si sono a loro volta sovrapposti al nostro trasferimento in Svezia. Quindi mi ci è voluto del tempo per mettere insieme le cose e ricominciare a scrivere. Il pensiero più importante riguardo al nuovo disco era quello di non ripetermi, quindi per me è stato importante ‘sfogliare’ le idee che mi venivano in mente e scegliere solo quelle che potessero rivelarsi fresche e in qualche modo nuove per noi.

“RIP TIDE” È DIVISO IN TRE PARTI MOLTO DIFFERENTI L’UNA DALL’ALTRA: UNA LUNGA, COMPLESSA SUITE; UNA TRACCIA QUASI STRUMENTALE, MOLTO ATMOSFERICA; INFINE, UNA COMPOSIZIONE DARK AMBIENT. TUTTO QUESTO PER SOLI TRENTADUE MINUTI. QUAL È LA STORIA RACCONTATA NEL DISCO E PERCHÉ PENSI CHE ANDASSE STRUTTURATO IN QUESTO MODO, SENZA INCLUDERE ALTRO?
– In effetti, la struttura dell’album è abbastanza ponderata. Nonostante la lunghezza relativamente breve, siamo stati in grado di esprimere pienamente il concept di partenza. La traccia principale, “Spit In The Chasm”, descrive la storia nella sua essenza. Racconta i sentimenti di una persona sull’orlo del collasso mentale, i cui inutili tentativi di far fronte alla realtà/non-realtà si concludono con l’assunzione di psicofarmaci molto pesanti. L’intero processo di sopportazione e tentativo di guarigione dalla malattia mette il personaggio principale su delle orribili montagne russe emotive, in preda a visioni e paure, che di tanto in tanto si intervallano a momenti di calma o, peggio, di apatia. Tutto questo si riflette nella struttura musicale del brano. Alla fine, il personaggio non riesce a tornare alla realtà e viene trascinato via da un’ondata di follia. Il brano successivo, “Désir De Trépas Maritime (Au Bord De La Mer Je Veux Mourir)” è progettato per continuare la storia, senza più il personaggio principale coinvolto, proseguendo la narrazione ponendo in un parallelo metaforico la follia e il mare, quando vi è tempesta e le acque sfogano la loro devastante potenza. È un pezzo meno aggressivo, volevamo infondere una sensazione di calma, lasciando dissolvere poco per volta la percezione della forza distruttiva del mare. In chiusura, la pura oscurità di “Ugasanie . Submerging” crea l’ambientazione finale, immergendo l’ascoltatore in un’atmosfera scomoda e inquietante, dove l’oscurità ha preso tutta la luce e la speranza rimanenti.

LA MUSICA DEL NUOVO DISCO PRENDE ORIGINE DA UNA COMPOSIZIONE DRONE DELL’ARTISTA BIELORUSSO UGASANIE, CHE È DIVENTATA IL PUNTO D’INIZIO PER QUANTO POSSIAMO UDIRE IN “RIP TIDE”. COME VI HA INFLUENZATO IL LAVORO DI UGASANIE E COME POSSIAMO PERCEPIRE CHE IL SUO DRONE SIA LA BASE PER QUANTO DA VOI SUONATO?
– Sicuramente ci ha dato una spinta notevole per comporre “Rip Tide”. Ho contattato Pavel di Ugasanie per avere l’opportunità di lavorare insieme e, dopo che lui ha accettato, mi ha inviato i suoi lavori sui drone derivati da field recordings. Ho cominciato a lavorare su quelli, ed è stato un processo lungo. Ho dovuto scrivere e riscrivere le cose molte volte, ma alla fine ho trovato il giusto equilibrio, ottenuto il flusso perfetto in cui il drone e il funeral doom si fondono assieme. All’inizio avevo pensato che la collaborazione potesse funzionare come uno split album, ma alla fine abbiamo preferito far coesistere le due tipologie di musica. Ho specificamente evidenziato l’ultima traccia, “Submerging”, come appartenente a Ugasanie, poiché su quella non ho fatto assolutamente nulla – è puramente un’idea di Ugasanie.

IN “RIP TIDE” CI SONO MOLTEPLICI INFLUENZE, DERIVATE DA DRONE, MUSICA CLASSICA, INDUSTRIAL, SE PARLIAMO DELL’ULTIMA TRACCIA. QUALI SONO GLI ARTISTI CHE HANNO PERMESSO ALLA VOSTRA MUSICA DI ESSERE COSÌ DIVERSIFICATA?
– Ce ne sono moltissimi, di artisti che ci hanno influenzato. Tra i miei ascolti non vi è soltanto tantissimo death e doom degli anni ’90, ma anche molta elettronica, lavori di musica classica d’avanguardia, dark-ambient, la cosiddetta “Schwarze Szene” e la darkwave in generale. È un grande piacere, ogni volta, assemblare questi spunti in un enorme puzzle, aprendoci così – si spera – a qualcosa di nuovo e inusuale.

RICOLLEGANDOMI AL MARE, AI SUOI MOVIMENTI, I SUOI PERICOLI, PUOI DIRCI COSA RAPPRESENTA PER VOI QUESTO ELEMENTO, COME SI CONNETTE A UNA MUSICA COME QUELLA DI SUFFER YOURSELF?
– In “Rip Tide” tocchiamo per la prima volta nella nostra storia soggetti nautici. Come ho affermato poco sopra, il mare mi offre un certo tipo di concept metaforico di alcuni aspetti dell’esistenza, mi ha fatto partire per un’esplorazione e un’elaborazione più ampia di alcune tematiche. Anche se non potrei dire che siamo così ‘ancorati’ a temi marini come potrebbe essere, ad esempio, per una band come gli Ahab.

INIZIALMENTE, I SUFFERI YOURSELF ERANO UNA ONE-MAN BAND, SOLO DOPO ALCUNI ANNI SONO DIVENUTI UNA BAND VERA E PROPRIA, CHE ORA CONSTA DI QUATTRO ELEMENTI. COME È CAMBIATA NEL FRATTEMPO LA TUA VISIONE DELLA MUSICA, IN CONSEGUENZA DELL’AMPLIAMENTO DELLA LINE-UP? PERCHÉ, A UN CERTO PUNTO, HAI COMPRESO CHE LA DIMENSIONE SOLITARIA DI SUFFER YOURSELF TI STAVA STRETTA?
– Ad un certo punto, il desiderio di eseguire il materiale di Suffer Yourself con una line-up completa è diventato pressante. L’intera band si è formata subito dopo aver composto l’album “Inner Sanctum” nella sua interezza. Ad oggi, compongo ancora tutto io in prima persona, ma gli altri membri hanno libertà di portare le loro idee, il loro gusto, proporre degli arrangiamenti. Sicuramente, esibirsi come un vero gruppo ti fa vedere quello che devi suonare sotto una diversa prospettiva, sia per quanto riguarda il come suonano i singoli strumenti, sia per come questi si intrecciano e danno vita alla configurazione sonora definitiva. Alcune cose devono essere riorganizzate e ripensate, a volte, per essere fattibili dal punto di vista sonoro e tecnico. È un mondo completamente diverso dal puro lavoro in studio e dalla composizione. Inoltre, provare e suonare dal vivo porta un ulteriore stimolo, la capacità di trasmettere emozioni sempre più profonde e, in generale, ulteriore ispirazione per il progetto, perché possa andare avanti e non perdere energia.

IL FUNERAL DOOM È LA MUSICA DELLA SOFFERENZA, DELLA MALINCONIA, DEI PENSIERI UGGIOSI. PERCHÉ È COSÌ IMPORTANTE PER VOI ESPRIMERE QUESTE EMOZIONI? HA IL FUNERAL DOOM CHE SUONATE UNA FUNZIONE DI CATARSI, QUANDO SCRIVETE E SUONATE IL MATERIALE DEI SUFFER YOURSELF?
– Penso che le emozioni cupe siano quelle più sincere. Abbiamo una visione filosofica di questo tipo di sensazioni, esploriamo l’intero spettro delle emozioni negative; cerchiamo di sperimentarle mentre suoniamo, di essere sommersi da esse. Quando gli ascoltatori rimangono da soli dinnanzi a tali emozioni, diventano più esposti ad esse, le accolgono completamente nudi; non hanno in quel momento alcuna barriera che li separa dalle cose assolutamente spiacevoli nascoste dentro di sé o provenienti dall’esterno. Cose del genere richiedono coraggio, forza d’animo e volontà per essere sfidate. Una funzione di catarsi in quello che facciamo? Sì, in parte sì, anche se non è un’attività che associo immediatamente alla nostra musica.

TORNANDO A “ECTOPLASM”, RIASCOLTANDOLO ADESSO DOPO CINQUE ANNI, QUALI PENSO CHE SIANO LE SUE QUALITÀ MIGLIORI? C’È QUALCOSA CHE OGGI CAMBIERESTI?
– Penso ancora che sia un gran disco! Ha un ottimo concept e scorre benissimo. Non credo che cambierei nulla di quell’album, mi piace come è stato realizzato. Più in generale, non giudico pesantemente nessuno dei nostri lavori passati, sono figli del momento in cui sono stati creati. Non credo che gli autori dovrebbero ‘punire’ se stessi perché sono scontenti di qualcosa del loro passato.Ho visto tante volte dagli altri artisti fare mea culpa per scelte del passato che non condividevano più. Sono caduto pure io in questa trappola una volta, quando è stata presa la decisione di registrare nuovamente il materiale di “Inner Sanctum”. Intendiamoci, il risultato finale è stato buono, ma invece di dedicare tempo e sforzi a quel progetto, avrei potuto scrivere un altro album! Ora credo fermamente nel concetto opposto: lascia stare il passato, fai qualcosa di nuovo, cerca di migliorare te stesso, questo è un modo di pensare molto più produttivo.

PENSO VI SIA UNA CERTA ATMOSFERA TUTTA SUA NEL FUNERAL DOOM IN ARRIVO DALL’EST EUROPA: UN SENSO DI GRIGIORE, UNA DESOLAZIONE METROPOLITANA CHE È QUASI IMPOSSIBILE DA RICREARE DA UN GRUPPO DELL’EUROPA OCCIDENTALE O AMERICANA. CONCORDI CON QUEST’IDEA? CHE COSA PROVOCA LA PARTICOLARE TRISTEZZA CHE LE FUNERAL DOOM BAND ESTEUROPEE SEMBRANO POSSEDERE?
– Quello che dici ha un suo fondamento, ma non è detto che influisca così tanto. Sonorità funeral e death-doom hanno i propri sottogeneri, se così possiamo dire, con un’ampia gamma di suoni ed emozioni tipici di ognuno di loro. Posso assolutamente confermare che la sensazione generale di come si vive nell’Europa dell’Est può facilmente portare a uno stato mentale piuttosto oscuro, quindi non c’è da sorprendersi che le persone sfoghino il loro dolore sotto forma di musica, e che questa musica non possa propriamente definirsi allegra. Ma, per quelle che sono le mie osservazioni, ho opinioni contraddittorie rispetto a quanto prodotto da artisti dell’Europa Orientale, e solo in limitati casi ho apprezzato il loro operato. In molti casi quanto suonato è piuttosto monotono, delle nenie lamentose che non portano da nessuna parte: spesso, sono solo una versione malamente copia-incollata delle parti più scadenti di ciò che le band occidentali hanno inventato e perfezionato. Ci sono eccezioni, ma sono estremamente rare. Non ho mai considerato questa parte della scena estrema come una mia influenza e continuo tutt’ora a starne alla larga. Parlando invece di band occidentali, direi che i lavori usciti dalla scena doom metal inglese, finlandese, europea occidentale in generale e da alcune compagini americane, rappresentano i miei modelli. In tutto ciò ho trovato innumerevoli esempi di profonda riflessione, sperimentazione e punti di vista significativi sulla musica.

AL DI FUORI DEL METAL ESTREMO, QUALI SONO LE FORMI MUSICALI CHE TI DANNO LE EMOZIONI PIÙ INTENSE?
– Fuori dal death metal in tutte le sue forme, che rimane e probabilmente rimarrà lo stile musica a cui sono più affezionato, mi piace esplorare il post-punk e la darkwave, i due generi di mio maggiore interesse quando ascolto cose non metal.

COME MUSICISTA, QUALI SONO GLI ARTISTI CHE MAGGIORMENTE HANNO INFLUENZATO IL TUO MODO DI CANTARE E SUONARE?
– Ai miei inizi, ero affascinato dai primi Amorphis (specialmente per i growl), e i primi lavori della ‘Trinità inglese’ formata da Paradise Lost, Anathema e My Dying Bride. Inoltre, mi piacevano le gothic-doom band norvegesi. Poi ho espanso le mie ricerche, guardando all’underground death e doom di vari paesi, diversi periodi e nazioni. La lista diventerebbe lunghissima…

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