SUICIDE SILENCE – Il deathcore siamo noi

Pubblicato il 13/03/2023 da

In questo periodo in cui il deathcore è sulla bocca di tutti non può mancare una nuova uscita di una delle formazioni fondamentali del genere: polarizzanti, poster boy, traditori ed evangelisti; non si può parlare di deathcore senza tirare in mezzo i Suicide Silence. Una band che sarà sempre ricordata per “The Cleansing” e sempre infamata per il grottesco self-titled, ma nel mezzo è sempre restata in qualche modo rilevante, mantenendo un certo status nei piani alti di questo chiacchierato sottogenere. Il loro settimo disco in studio, “Remember… You Must Die”, è un lavoro solido che va a ricercare coscientemente l’essenza del sound del gruppo, un po’ a rimarcare che nonostante gli anni e nonostante le nuove leve questa merda i Suicide Silence la sanno fare, e la sanno fare bene. Ne parliamo con il chitarrista storico Mark Heylmun, che ci risponde con tutta l’onestà del mondo, con la sua solita barba lunghissima, l’aria da hippy e un poster di “…And Justice For All” attaccato alla parete. 

ASCOLTANDO IL DISCO PER LA PRIMA VOLTA POSSO CONFERMARE CHE… E’ DAVVERO ROBA PESANTE! E’ STATO UN VOSTRO OBIETTIVO IN FASE DI SCRITTURA ABBANDONARE LA SPERIMENTAZIONE E PUNTARE DRITTO AL SUONO ‘CORE’ DEI SUICIDE SILENCE?
– Direi di sì, è stato intenzionale. In passato è capitato che ci lasciassimo andare seguendo l’ispirazione, facendo uscire qualsiasi cosa ci paresse buona. Stavolta abbiamo avuto un obiettivo comune: fare le cose quanto più heavy possibile. Gli abbiamo anche dato un nome, H. A. P. (“Heavy As Possible”) intitolando così anche la nostra chat di gruppo. Durante il processo compositivo ci siamo chiesti in continuazione cosa potesse richiedere una certa parte, perché abbiamo scritto quest’altra, è il riff giusto o c’è di meglio? E’ stato tutto curato con attenzione e con uno scopo in mente, mi sento di dire che è stato un disco che abbiamo messo insieme in maniera differente rispetto a tutto quello che abbiamo fatto in passato.

PENSI SIA STATO FACILE METTERLO INSIEME?
– Non è mai ‘facile’. E’ come quando fai un puzzle, in cui all’improvviso ti capita sottomano il pezzo giusto. Ci vuole tempo e pazienza. A questo giro ci ha aiutato il fatto che nessuno era a corto di idee nel momento di entrare in studio. Idee, obiettivi ed intenzioni comuni possono fare tanto. Diciamo che, riguardo il fattore tempo, il periodo Covid ci ha dato una mano, senza tour e impedimenti personali siamo stati più liberi di sederci in casa a suonare per conto nostro. Penso resterà un album unico per questo motivo!

MI E’ PIACIUTA LA PRODUZIONE, MOLTO ASCIUTTA, LIVE E CATTIVA SENZA ESSERE SPORCA. COME AVETE LAVORATO DA QUESTO PUNTO DI VISTA?
– Ecco, quello che cerchiamo di fare sempre è catturare toni realistici, utilizzando vere testate veri amplificatori, veri microfoni… Ma anche sessioni reali senza troppe sovraincisioni. Abbiamo registrato la batteria dal vivo, senza click. Per il resto lavorare con Taylor Young, il produttore che ha fatto anche da ingegnere del suono e ha masterizzato il disco è stato facile: lui fa solo roba pesante, quindi l’intesa è stata molto più rapida. E’ un maestro nella produzione di musica estrema e siamo arrivati al punto davvero in fretta, in maniera naturale. Il nostro obiettivo è sempre quello, cambia il produttore a volte quindi cambia la lente attraverso la quale cerchiamo il risultato, per il resto è lo stesso.

TAYLOR E’ UN GRANDE PRODUTTORE: COME SIETE ENTRATI IN CONTATTO CON LUI E COSA PENSI ABBIA PORTATO AI SUICIDE SILENCE?
– Io ed Eddie (Hermida, cantante dal 2013, ndr) abbiamo proposto Taylor da un sacco di tempo, da quando Eddie è entrato nel gruppo. Non ci conoscevamo di persona ma i Twitching Tongues sono una delle mie band preferite in assoluto negli ultimi tempi. Ad essere sincero non sono un assiduo ascoltatore di Nails e Xibalba (Taylor Young è stato batterista dei Nails e ha lavorato in studio con gli Xibalba, ndr), ma adoro le influenze anni ’90, Type O Negative, Life Of Agony, roba che non dovrebbe essere heavy come effettivamente è. Io ed Eddie siamo superfan di quella roba, abbiamo portato sul tavolo il nome di Taylor e, facendola breve, cercando nuovi producer con cui lavorare ci siamo incontrati con lui e gli abbiamo detto che lo volevamo come produttore, ma avevamo in mente qualcun altro per la fase di mixaggio e masterizzazione. Lui è stato chiaro, o si occupava di tutto o non se ne faceva nulla. Abbiamo registrato una canzone come test ed è venuta fuori veramente bene. Abbiamo quindi accettato, stabilito una relazione, abbiamo scoperto che quel ragazzo spacca ed oggi è parte della famiglia. Sono allibito da quanto ha funzionato. Ci ha riportato ai vecchi tempi, a situazioni in cui volevamo tornare e non sapevamo come. Lui ha la nostra stessa età, probabilmente è un fattore che gioca a favore di entrambi.

E’ SCATTATA SUBITO LA MAGIA O C’E’ VOLUTO UN RODAGGIO?
– Anche nelle prime conversazioni più o meno conoscitive, prima che iniziassimo veramente a lavorare sulla musica, ci siamo trovati a parlare per ore senza nemmeno accorgercene. Quando abbiamo lasciato lo studio la band era al settimo cielo, sentivamo che era la scelta giusta. Sapevamo che sarebbe stato un buon disco. E’ stato assolutamente immediato. Quando poi abbiamo iniziato realmente a lavorare sulla musica è stata la persona con cui ci siamo trovati più facilmente, anche se non ascoltiamo la stessa roba parliamo davvero lo stesso linguaggio. Io non ho mai ascoltato troppo l’hardcore, in gioventù mi è proprio volato sopra la testa, lui mi ha consigliato di ascoltare i Merauder e io gli ho passato qualche mia influenza… E’ andata così, come trovare un nuovo amico che ha gusti leggermente diversi dai tuoi.

COME VI HA COLPITO LA DECISIONE DI ALEX (LOPEZ, BATTERISTA DAL 2006) DI LASCIARE IL GRUPPO?
– Da un certo punto di vista è stato molto difficile. Penso però che ci siano lati positivi nell’avere un nuovo batterista molto talentuoso, per esempio suoniamo come una versione aggiornata e migliorata. Ci sono più lati positivi che negativi. Era ovvio che noi ed Alex stavamo maturando in direzioni diverse, quindi è stata una cosa necessaria. Da un punto di vista strettamente strumentale posso dire che ora la batteria suona molto meglio, senza togliere nulla ad Alex che è continuerà ad essere un batterista coi controcazzi. Nel disco precedente chiedevamo ad Ernie di suonare più come Alex, in questo disco l’abbiamo spinto a metterci del suo, ad essere se stesso, ed onestamente mi sembra di sentire un passo avanti. Paradossalmente suona più Suicide Silence di prima. 

VISTO CHE NON ABBIAMO MAI PARLATO CON TE DIRETTAMENTE, HAI VOGLIA DI PARLARE BREVEMETE DELLA TUA PAUSA DAL GRUPPO?
– Mio padre stava morendo. Non sapevamo per quanto tempo sarebbe stato tra noi, e in quella situazione non potevo davvero stare in tour ed essere felice. Non potevo dedicarmi seriamente al gruppo. Mio padre seguiva la band e leggeva le notizie, quindi non mi andava nemmeno di dichiarare apertamente che mi prendevo una pausa per la sua malattia, sapevo non sarebbe stato d’accordo. L’ho fatto a modo mio di conseguenza. Ci ha lasciato nel 2019. Tornai a suonare prima che morisse, mi chiesero di scrivere “Become The Hunter” in quel periodo. E’ stato un periodo complesso, cercavo di prendere la miglior decisione possibile per la mia vita personale senza perdere del tutto quella che è la passione della vita ed il lavoro. E’ stata una decisione difficile ma ho dovuto prenderla. 

LE MIE CONDOGLIANZE.
“THE BLACK CROWN” NON E’ STATO ACCETTATO SUBITO DA UNA PARTE DEI VOSTRI FAN. SECONDO TE E’ POSSIBILE CHE VENGA RIVALUTATO ANCHE IL VOSTRO SELF-TITLED? SOPRATTUTTO, TE NE FREGA QUALCOSA CHE SIA RIVALUTATO?
– “The Black Crown” è stato il nostro più grande successo in termini di vendite. C’è una differenza tra gente che ascolta la musica e gente che fa parte della scena deathcore. Le persone della scena deathcore hanno spesso i paraocchi, forse solo una parte delle persone in quella scena non hanno apprezzato “The Black Crown” perché è palese che in generale sia stato ben ricevuto. Tra l’altro ai tempi abbiamo raggiunto l’apice come popolarità, un sacco di gente è venuta a nostra conoscenza ed è stato anche strano per noi perché eravamo quasi nel mainstream. Parlando del self-titled non sta a me giudicare o tentare di farlo rivalutare. E’ stato un periodo unico e verrà comunque ricordato, sia dal pubblico che dalle persone nella band. Tra cinque o dieci anni sentiremo parlare di persone che hanno scoperto i Suicide Silence con l’album omonimo e diranno che a loro piace, mentre non riusciranno ad apprezzare il resto della discografia. Conoscerai di sicuro gente che ha iniziato ad ascoltare i Metallica con “St. Anger”… In ogni caso da parte nostra non ci sono rimpianti. Il modo in cui verrà percepito nel lungo periodo è più importante di come è stato recepito al momento della pubblicazione.

CONSIDERI I SUICIDE SILENCE PARTE DELLA SCENA DEATHCORE AL MOMENTO?
– C’è una seconda ondata di deathcore di questi tempi, penso comunque che non si possa non citare i Suicide Silence se si parla di deathcore. Siamo una band polarizzante nella scena, ci amano o ci odiano. E’ stato così da sempre, lo è ancora oggi.

AVETE LA “ULTIMATE EDITION” DEL VOSTRO CLASSICO “THE CLEANSING” IN USCITA QUEST’ANNO. COSA PROVI SE GUARDI INDIETRO A QUEGLI ANNI? PENSI CHE I SUICIDE SILENCE SIANO UNA BAND MOLTO DIVERSA OGGI?
– Siamo una band molto diversa da quella che ha scritto “The Cleansing”. Guardando indietro eravamo molto giovani, la band iniziava ad andare bene, la gente voleva venire a vederci, avevamo un sacco di cose da dire e volevamo dirle tutte, dal punto di vista sociale era tutto molto vivo. Ora non è che non abbiamo più niente da dimostrare, di sicuro siamo molto più attenti a quello che diciamo e a come vogliamo essere percepiti. Abbiamo molta strada dietro di noi, abbiamo fatto e visto molte cose, abbiamo raggiunto tante vette e siamo caduti anche in basso più di una volta. Abbiamo perso delle persone. In ogni caso oggi posso sentire come sia l’inizio di un nuovo libro. Il vecchio libro è lì, nessuno può toglierci ciò che abbiamo raggiunto in carriera. C’è però un libro nuovo da scrivere quasi per intero. Stiamo ancora scrivendo la nostra storia.

PARLANDO DI COSE UN PO’ PIÙ’ LEGGERE: HO UN RICORDO DIVERTENTE DI TE, LA PARTECIPAZIONE AL FORMAT “THE SMOKE BOX” CON B-REAL DEI CYPRESS HILL. E’ STATO TROPPO ANCHE PER UN FUMATORE ESPERTO COME TE?
– Oh no, ero solo un po’ fatto! Non sei il primo che me lo dice, è diventato un po’ un meme. Non a tutti piace l’ ‘hotbox’ (la pratica di fumare cannabis e assorbire il fumo anche in maniera passiva in uno spazio stretto, chiuso e poco ventilato, di solito in una macchina come nel programma di B-Real, ndr), io fumo in continuazione e non dico che mi dia fastidio, ma non mi sono mai messo chiuso in una macchina a fumare quattro canne. Mi piace prendere un bong, fumare un po’ e raggiungere un certo livello. Quando siamo andati a filmare abbiamo fumato per un’ora, abbiamo fatto un po’ di dabbing (inalare un concentrato di cannabis vaporizzato, ndr) e dopo ci siamo spostati in macchina! Prima di entrare lì dentro eravamo già strafatti! Mi ritengo un intenditore di erba più che uno che ne abusa, mi piace la roba buona, il rosin, le pepite di prima scelta… Da B-Real mi hanno messo in mano un intero joint e me l’hanno fatto fumare fino alla fine, ovvio che mi sono spaccato (ride, ndr)!

HAI MAI SENTITO PARLARE DI “DRINK CHAMPS”? E’ UN PO’ LA STESSA COSA, UN’INTERVISTA DOVE OVVIAMENTE C’E’ PARECCHIO ALCOOL SUL TAVOLO.
– Parteciperei anche a quella, è roba divertente. Guardo sempre “Hot Ones”, dove si mangiano le alette di pollo con salse piccantissime, l’episodio con ospite Will Ferrell è il mio preferito di sempre. Roba forte!

ULTIMA DOMANDA: COSA C’E’ NEL PROSSIMO FUTURO DEI SUICIDE SILENCE?
– “Remember… You Must Die” il 10 marzo ovviamente (l’intervista è stata fatta prima della data di uscita, ndr), partiremo subito per un tour negli Stati Uniti e ci aspettiamo di chiudere altri tour a ruota in tutto il resto del mondo. Tenete gli occhi aperti, arriveremo presto in una città vicina a voi. 

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