Le settimane che hanno condotto alla pubblicazione di “When I Die, Will I Get Better?”, il nuovo album degli Svalbard, non sono state delle più semplici: mentre il gruppo britannico si trovava già nel pieno della promozione del lavoro, il fondatore della Holy Roar Records è stato accusato di stupro e abusi sessuali. La post-metal band di Bristol – formazione da sempre in prima linea nell’affrontare temi complessi come emergenze sociali, abusi e bullismo – ha quindi deciso di rescindere il contratto che la legava all’etichetta e di pubblicare il disco su Church Road Records, nuova entità discografica gestita da alcuni ex dipendenti della stessa Holy Roar. Un cambio improvviso e doloroso, che tuttavia non ha compromesso l’uscita e il successo dell’opera, la quale sembra già destinata a diventare l’album di maggior successo del terzetto.
La cantante/chitarrista Serena Cherry, contattata via mail attorno alla data di uscita di “When I Die…”, ci parla di quanto avvenuto in seno al gruppo nel corso di questo periodo difficile e di come il disco segni più che mai un nuovo inizio per lei e i suoi compagni.
CHE COSA TI PASSA PER LA MENTE QUANDO RIASCOLTI “WHEN I DIE, WILL I GET BETTER?”. IN CHE STATO D’ANIMO TI TROVAVI QUANDO LO STAVI REGISTRANDO E COME LO VEDI ORA?
– Stavo facendo i conti con una crisi depressiva mentre stavamo componendo e registrando il disco. Oggi lo vedo come una cartolina da uno dei momenti più bui e difficili della mia vita. Lo considero il mio album preferito nella nostra discografia e sono piacevolmente sorpresa dal responso che sta ottenendo. Ho insomma pensieri contrastanti nei suoi riguardi. Si tratta di un disco davvero personale per me.
ARRIVATE DA ALCUNE SETTIMANE MOLTO FRENETICHE IN SEGUITO ALLO SCANDALO CHE HA COINVOLTO IL PROPRIETARIO DELLA HOLY ROAR RECORDS. QUANTO AVETE IMPIEGATO A PRENDERE LA DECISIONE DI LASCIARE L’ETICHETTA? E’ STATO DIFFICILE GIUNGERE A QUESTA CONCLUSIONE?
– Abbiamo deciso immediatamente che fosse il caso di lasciare la Holy Roar Records, mentre ci sono voluti alcuni giorni per definire effettivamente come farlo, prendendo in considerazione sia l’aspetto legale della questione che l’effettiva pubblicazione dell’album. Per fortuna la Church Road Records è intervenuta: non era la nostra unica opzione, ma era la soluzione che ci ispirava maggiormente. Abbiamo un ottimo rapporto con Justine e Sammy, i gestori della label; inoltre si tratta di un’etichetta nuova e il tutto è molto eccitante. Abbiamo grande entusiasmo per portare avanti questa avventura.
COME E’ STATA ACCOLTA QUESTA DECISIONE DA PARTE DEI FAN E DELLA STAMPA? AVETE RICEVUTO QUALCHE CRITICA?
– Non ho percepito alcun tipo di ostilità, per fortuna. La gente ha capito il nostro punto di vista e ha mostrato piena comprensione.
A PARTE IL CAMBIO DI ETICHETTA ‘LAST MINUTE’, VIVIAMO IN UN PERIODO MOLTO DIFFICILE E GLI ARTISTI STANNO SOFFRENDO PARECCHIO IL FATTO DI NON POTERE ESIBIRSI DAL VIVO…
– Sicuramente è strano pubblicare un album e non essere in grado di tenere un release show: è quando suoni i nuovi brani dal vivo e vedi la reazione del pubblico che davvero senti di avere portato a termine la missione. Non è piacevole scendere a patti con questa pandemia, ma nel complesso sono felice del responso che il disco sta ottenendo online. Mi sembra che oggigiorno le persone abbiano più tempo per ascoltare musica, quindi cerco di concentrarmi su questo aspetto positivo.
“WHEN I DIE…” A LIVELLO MUSICALE SUONA PIU’ MELODICO DEL DISCO PRECEDENTE. I TITOLI DELLE CANZONI SUGGERISCONO TUTTAVIA UN MESSAGGIO NON ALTRETTANTO SERENO. PENSI CHE VIVERE UN MOMENTO DIFFICILE NEL PRIVATO AIUTI A COMPORRE MUSICA DEL VOSTRO GENERE?
– No, non credo che esista un momento ideale, sia esso positivo o negativo, per creare musica. Non credo nel mito dell’artista tormentato che compone musica geniale. Al contrario, essere depressa ha reso le cose difficili per me: ho faticato a comporre musica e infatti non ho idea di come siamo riusciti a completare il disco e a raggiungere un simile risultato!
IL TITOLO, “WHEN I DIE, WILL I GET BETTER?”, A COSA SI RIFERISCE?
– Il titolo proviene da un libro che ho visto al Museum of Curiosities di Londra. Le parole mi hanno colpito tanto: trovo che sia una domanda estremamente intelligente e filosofica. Per me il titolo rappresenta essenzialmente tre cose: prima di tutto, la sensazione che la morte porterà una sorta di sollievo a una persona che soffre di disturbi mentali; la sensazione che morire sia un modo per uscire dalla depressione. In secondo luogo, l’idea religiosa del paradiso: la credenza che quando muori finirai in un luogo migliore. Infine, si tratta di una riflessione sulla glorificazione di certe cosiddette celebrità: quando una di esse muore, si tende a guardarle con maggiore benevolenza; vengono poste su un piedistallo e si perde ogni senso critico nei loro confronti.
LA VOSTRA MUSICA ABBRACCIA VARI GENERI, MA VI E’ QUALCOSA CHE NON SUONERESTE MAI A NOME SVALBARD? VI CAPITA DI SCARTARE MUSICA?
– Certo, scartiamo molta della musica che componiamo. Questo è anche il motivo per cui impieghiamo molto tempo per completare un disco. Abbiamo una idea generale di come vogliamo che la musica degli Svalbard suoni, poi la accettiamo solo quando tutti nella band sono convinti della sua bontà. Abbiamo tantissimo materiale inutilizzato nei nostri archivi.
COME VEDETE LA DEFINIZIONE ‘POST-METAL’?
– Personalmente la apprezzo perchè si presta a varie interpretazioni. Può significare di tutto, dai Cult of Luna agli Alcest. Quando pensi al ‘post-metal’ non hai un’idea precisa di cosa esso rappresenti e ciò è un bene per noi, visto che siamo un gruppo difficile da inserire in un solo filone.
COME DESCRIVERESTI LA VOSTRA EVOLUZIONE COME MUSICISTI E ARTISTI? QUANDO HAI SENTITO CHE STAVATE TROVANDO UN VOSTRO STILE?
– Come chitarrista sono autodidatta, non ho mai preso una lezione e ancora oggi non so esattamente cosa stia facendo. Seguo il mio istinto. Credo di essere migliorata a livello di picking e penso che i miei assoli e le mie parti di chitarra si siano fatti più complessi con il passare del tempo, anche se ovviamente la complessità non è sempre sinonimo di qualità. Come cantante, la cosa che più mi ha aiutato è nuotare regolarmente. Il nuoto mi ha insegnato a controllare la mia respirazione e a gestire meglio la mia voce. Parlando di stile musicale, forse non essere in grado di capire cosa i musicisti che ascolto stiano facendo esattamente mi ha aiutato a trovare una mia nicchia. Sono piuttosto ignorante a livello tecnico, quindi mi verrebbe difficile imitare qualcuno!
PER CONCLUDERE, QUALI SONO GLI ALBUM CHE HAI ASCOLTATO MAGGIORMENTE QUEST’ANNO?
– Mi sono piaciuti particolarmente il nuovo album degli Anaal Nathrakh, “Endarkenment”, e l’ultimo lavoro dei Nightwish, “Human Nature”. Sto apprezzando anche il nuovo Lorna Shore, “Immortal”: mi piace che abbiano aggiunto una vena orchestrale alla loro proposta.