Festeggiare il trentesimo anniversario di attività non è impresa così comune, e ancora meno è farlo con un disco che suoni ‘fresco’ nonostante gli anni, a maggior se nel contesto di una carriera i cui contorni sono ormai ben codificati da decenni. E’ questo tuttavia il caso di “West End”, nuova fatica discografica di cui il frontman Jirky 69 è evidentemente soddisfatto, anche se l’intervista diventa un’occasione per ripercorrere la carriera della band in una lunga chiacchierata con uno degli interlocutori più loquaci di cui abbiamo memoria, evidentemente innamorato anche del nostro paese…
JYRKI, SO CHE PARLI UN PO’ DI ITALIANO…COME MAI?
– Amo profondamente l’Italia! All’inizio degli anni ’90 ho vissuto un periodo a Roma, lavorando in un golf club, attratto dalle belle ragazze. Anche da un punto di vista musicale l’Italia ha un posto speciale nei nostri cuori: all’epoca i The 69 Eyes erano una delle poche band glam/goth in mezzo all’ondata prima grunge e poi nu-metal, e l’Italia era uno dei pochi paesi dove avevamo un seguito fedele di fan e in cui radio e stampa si curavano di noi, tanto è vero che uno dei primi concerti fuori dalla Finlandia è stato proprio con i Jolly Power a Clusone, una cittadina non lontana da Milano. L’Italia mi ha sempre fornito ispirazione anche nel songrwiting: ad esempio “Gothic Girl” e “Wasting The Down” sono state influenzate dallo stile gotico di Roma, così come in tempi più recenti “Dolce Vita” è ovviamente dedicata all’Italia. In generale tutto ciò che è bello è per me fonte d’ispirazione, e da questo punto di vista ovviamente il vostro paese è ricco di spunti.
GUARDANDO INDIETRO, COSA TI HA SPINTO 30 ANNI FA A FORMARE UNA BAND?
– Abbiamo cominciato nell’89, quindi due anni dopo ‘Appetite For Destruction’, quando ancora band come Guns n’Roses, Motley Crue, The Cult, Sisters Of Mercy e Ramones erano all’apice della loro fama. Inoltre essendo finlandesi eravamo cresciuti con il mito degli Hanoi Rocks e di un’altra band chiamata Smack, che avevano un loro modo di vestire: oggi potrebbe ricordare il Rocky Horror Picture Show, ma all’epoca le rockstar facevano impazzire le ragazze. Poi sono uscite band come i Faster Pussycats o gli L.A. Guns che venivano tutte da Hollywoood ed erano sulla copertina di Kerrang ma sembravano vestiti come noi a Helsinki, oltre al fatto che ai nostri occhi erano influenzati dagli Hanoi Rocks. All’epoca il modo di vestirsi ti faceva sentire parte di una scena (glamster, punk, metalhead), per cui quando avevo diciotto anni e andavo nei club tutti mi chiedevano in che band suonassi dato che ero vestito come una rockstar, così ho trovato dei ragazzi che cercavano un cantante in prova e ho cominciato come rimpiazzo mentre stampavo volantini per la band…e trent’anni dopo sono ancora qui, come cantante temporaneo (risate, ndR).
SENTENDOTI PARLARE, SI CAPISCE CHE ANCORA OGGI E’ LA STESSA PASSIONE CHE TI FA ANDARE AVANTI…
– Sì, come dicevo è tutto è cominciato per caso, per poter rimorchiare le ragazze dicendo “Hey, suono nei The 69 Eyes, se vuoi venire stasera ti metto in guestlist”: siamo sempre stati una gang e lo siamo ancora oggi, quando sono un rocker cinquantenne che suona con la stessa band da trent’anni. Molte cose sono cambiate, e purtroppo nel mondo non tutte in meglio, ma le nostre passioni (incontrare belle ragazze, vedere nuove città, conoscere musicisti) sono rimaste le stesse di quando avevo venti anni. Non abbiamo mai inteso la band come un lavoro, per cui ci siamo sempre rifiutati di lavorare come una catena di montaggio (disco-tour-disco-etc.), ma abbiamo sempre voluto seguire quello che ci diceva il cuore, anche se così facendo magari abbiamo perso qualche opportunità.
UN PAIO DI ANNI FA E’ USCITO IL TUO DISCO SOLISTA: PENSI QUESTO ABBIA INFLUITO IN QUALCHE MODO SULL’ULTIMO ALBUM?
– Con i The 69 Eyes avevamo ormai uno stile abbastanza definito e avevo voglia di qualcosa di nuovo, così come sentivo l’esigenza di suonare un po’ negli States ‘da solo’, per cui ho reclutato dei musicisti di Los Angeles e iniziato a suonare con loro, così come ho messo in piedi un progetto rockabilly chiamato The 69 Cats, con cui ho suonato in posti come Nashville. Insieme al nostro producer storico Johnny Lee Michaels poi ci siamo trovati per registrare il mio solo album, in cui sono confluite un sacco di sue idee: lui infatti è un poli-strumentista ma soprattutto un ottimo tastierista, ma in genere nei nostri lavori non ha modo di inserire molte tastiere perchè sarebbero poco rock, quindi in questo modo ci siamo sfogati entrambi, raccogliendo idee che avevamo tenuto nel cassetto per anni, il che ci ha poi permesso di tornare ai The 69 Eyes con la mente più libera.
TORNANDO AGLI ANNI ’90, COME E’ AVVENUTO IL VOSTRO CAMBIAMENTO DAL GLAM AL GOTH?
– Eravamo legati al glam ma più alla versione Helsinki-sleaze degli Hanoi Rocks più che all’Hollywood-glam, e ho sempre avuto una passione per le tematiche horror così come per il garage rock. All’epoca poi volevamo suonare in modo un po’ diverso – oggi diremmo lo-fi, anche per i budget limitati che avevamo -, e al tempo stesso eravamo influenzati da tutto quello che succedeva intorno a noi, da “Life Is Peachy” dei Korn agli ZZ Top. Le sorgenti d’ispirazione alla fine erano abbastanza semplici (b-movie, fumetti, ragazze) e sono rimaste le stesse negli anni, ma il vero punto di svolta è stato quando abbiamo registrato “Gothic Girl” con Johnny Lee Michaels, la canzone ispirata ai gothic-club di Roma che ci ha aperto le porte di un successo che fortunatamente dura da venti anni.
A PROPOSITO DI HORROR, LA COPERTINA HA QUALCOSA A CHE FARE CON IT?
– Me lo stanno chiedendo tutti, ma in realtà non era voluto. Tutto è nato da un mio amico punk-rocker che è anche scultore, per cui gli ho commissionato un’opera che in realtà è una scultura di alluminio a grandezza uomo, in cui ogni palloncino rappresenta un membro della band. E’ quindi una coincidenza, ma detto questo non vedo l’ora di vedere il nuovo “IT”!
OLTRE ALL’ULTIMA CASA A SINISTRA, CITATA ANCHE NELL’ALBUM, QUAL E’ IL TUO PREFERITO?
– Ce ne sono veramente tanti, partendo dagli horror italiani, di cui sono un grande fan. Non saprei dire qual è il mio preferito: tra i recenti mi è piaciuto molto “Hereditary”, mentre tra i classici degli anni ’60-70 direi “Curse Of The Crimson Altar” (“Le Messe Nere” in italiano, ndR) e “The Blood on Satan’s Claw” (“La Pelle di Satana”, ndR). Un altro film che mi ha ispirato l’ultima traccia dell’album è “Satan’s Sadists” (la cui canzone dei titoli di coda è stata coverizzata da Glenn Danzig), da cui ho ripreso l’idea per “Hell Has No Mercy”. Non è propriamente un film horror, ma è comunque un biker movie molto forte.
IMMAGINO LA PASSIONE PER L’HORROR ABBIA FAVORITO LA COLLABORAZIONE CON DANI FILTH E WEDNSDAY 13…
– Siamo amici con entrambi da metà anni ’90, e abbiamo anche fatto dei tour insieme. Per una decina d’anni ci siamo un po’ persi di vista, ma poi ci siamo ritrovati in Hollywood e mi è venuto naturale chiedere di suonare nel nuovo album: ad ogni concerto vedo gente con la maglietta dell’uno o dell’altro, quindi non vedo l’ora di vedere la reazione della gente quando li sentirà.
SAPRAI CHE DANI HA COLLABORATO ANCHE CON I BRING ME THE HORIZON, QUINDI ORA AVETE QUALCOSA IN COMUNE…
– Sì, spero di fare anche solo la metà delle loro visualizzazioni su Youtube (risate, ndR)!
PER LE VOSTRE TRENTA CANDELINE AVETE IN PROGRAMMA QUALCOSA DI SPECIALE, COME AD ESEMPIO UN DVD LIVE?
– In realtà no, non abbiamo grossi piani per i festeggiamenti, se non un documentario sulla storia della band nell’edizione speciale del disco, ammesso e non concesso che qualcuno compri ancora i dischi fisici!