Timothy Pope, mastermind e addetto all’effettistica degli australiani The Amenta, è una persona entusiasta e un musicista completamente ‘dentro’ la propria arte. Vi basterà scorrere la nostra intervista – tenutasi a ridosso della pubblicazione dell’ottimo comeback “Revelator” – per avere un’idea approssimativa dell’uomo che, da ormai vent’anni, guida quello che può essere considerato uno dei progetti più ambiziosi mai partoriti dall’Oceanian extreme metal, motivo per cui preferiamo non dilungarci troppo nella presentazione di questa lunga e appassionante chiacchierata… buona lettura!
BENTORNATI SULLE PAGINE DI METALITALIA.COM. SONO TRASCORSI OTTO ANNI DALLA NOSTRA ULTIMA CHIACCHIERATA, UN LASSO DI TEMPO ENORME DURANTE IL QUALE VI SIETE QUASI ECLISSATI DALLE SCENE… COS’È SUCCESSO NEL FRATTEMPO? QUALI SONO STATE LE RAGIONI DELLA VOSTRA PAUSA?
– Grazie per averci ricontattato dopo così tanto tempo! Subito dopo la pubblicazione del nostro ultimo album, “Flesh Is Heir” del 2013, partimmo in tour tenendo moltissimi show in Europa e in Australia. Alla fine dell’iter di promozione eravamo davvero esausti, e quando ti esaurisci in quel modo è facile perdere l’ispirazione. Ripensando ai tre album pubblicati su Listenable Records – “Occasus”, “n0n” e “Flesh Is Heir” – capimmo che formavano una trilogia perfetta, che a sua volta immortalava un certo capitolo della band. Se ci fossimo messi subito a scrivere musica, anche senza sentirci ispirati, avremmo finito per rimaneggiare quello che avevamo già fatto. Aggiungere un altro tassello a quella trilogia al solo scopo di pubblicare qualcosa e andare in tour sarebbe stato disastroso. Non ci eravamo mai ripetuti prima e non volevamo iniziare in quel momento. Era importante fare un passo indietro e permettere a noi stessi di recuperare la scintilla creativa, a prescindere dal tempo richiesto. Decidemmo quindi di mettere la band in pausa per toglierci ogni pressione e permettere che tutto accadesse naturalmente. Poco dopo iniziammo a scrivere musica piuttosto velocemente, non per i The Amenta ma per un altro progetto. Col senno di poi, credo che inconsciamente stavamo ingannando noi stessi. Non passò molto tempo prima che riattivassimo i The Amenta e abbandonassimo l’idea del nuovo gruppo. Fortunatamente, in quello stesso periodo trovammo nuovi spunti che riuscimmo poi a trasferire (con qualche piccola rielaborazione) nel nostro sound. Quelle tracce divennero il seme e la base di partenza di “Revelator”, il nostro nuovo album.
TROVO CHE “REVELATOR” SUONI COME UNA SORTA DI ROTTURA COL PASSATO. GLI ELEMENTI CHE VI HANNO RESI RICONOSCIBILI CI SONO ANCORA, MA ASSEMBLATI IN MANIERA DIFFERENTE E FILTRATI DA ATMOSFERE CHE NON MI SAREI MAI ASPETTATO DI ASSOCIARE AL VOSTRO NOME… SEMBRA CHE NON ABBIATE VOLUTO PERCORRERE LA STRADA DELL’ESTREMISMO E DELLA PESANTEZZA A TUTTI I COSTI. SIETE D’ACCORDO? COME VI SIETE MOSSI IN QUESTA DIREZIONE E DA DOVE HA AVUTO ORIGINE QUESTA SCELTA?
– Penso sia vero, almeno in una certa misura. Niente di ciò che facciamo è premeditato. Non ci sforziamo mai di scrivere un album in un certo modo, e cerchiamo sempre di lasciare che il processo creativo guidi noi piuttosto che il contrario. Tutti i nostri dischi, tutte le nostre canzoni, sono una reazione a quanto fatto in passato, ma non in maniera consapevole. Quando scriviamo nuova musica, la nostra sola motivazione è che quest’ultima ci entusiasmi. Come la maggior parte delle persone, siamo eccitati dalle nuove idee. Se abbiamo un’idea simile a qualcosa di già scritto o registrato, allora la scartiamo prima ancora di farla diventare un brano. Dev’esserci qualcosa di nuovo e unico nell’idea affinché possa innescare la giusta eccitazione, e penso sia questo il motivo principale per cui tutti i nostri album, incluso “Revelator”, suonino in maniera diversa l’uno dall’altro. Mentre lo scrivevamo, le idee che sembravano entusiasmarci di più erano quelle relative all’atmosfera e non alla forza bruta. Ovviamente, ci sono ancora quantità significative di aggressività nella nostra musica, ma è stata l’intuizione di rallentare e dare maggior respiro ai brani a farci drizzare i capelli sulla nuca. Penso che a volte la gente travisi i nostri vecchi lavori vedendoli come dei blocchi di blast beat ed estremismi, senza poi avere la pazienza di scavare e scoprire tutte le sottigliezze nascoste sotto la coltre di rumore. Questa volta volevo permettere a quei momenti di risplendere un po’ di più.
IN MOLTI PARLERANNO DELLA PERFORMANCE AL MICROFONO DI CAIN… QUANTO È IMPORTANTE PER VOI AVERE UN FRONTMAN CHE SIA UN INTERPRETE, PRIMA ANCORA CHE UN CANTANTE?
– Da quando si è unito a noi nel 2009, Cain è diventato parte integrante del lato creativo dei The Amenta più di qualsiasi altro ex cantante della band. Ci riteniamo fortunati ad aver lavorato con ragazzi dalle voci fantastiche, molto capaci e sempre disposti a sperimentare cose nuove, ma Cain ha portato tutto a un livello superiore. Sono molto felice di sentirti riferire a lui come un interprete, penso sia un ottimo modo di esprimere il concetto. Soprattutto per questo album, Cain ha preso i testi e la musica e li ha interpretati insieme, permettendo alle idee e al subconscio di presentare le canzoni in un modo che fosse naturale a lui e alla sua voce. Di conseguenza, abbiamo ottenuto una vasta gamma di suoni, voci e melodie che esaltano davvero le tracce. Penso che la differenza tra un cantante e un interprete sia forse una questione di ego. Volendo generalizzare al massimo, si può dire che un cantante sia una persona che ha uno strumento da suonare e che si assicura di essere ascoltato mentre lo suona. Un interprete è molto più empatico nei confronti della canzone stessa; trova le cose giuste da dire nel momento e nel modo più adatti. Per una band come la nostra, questo approccio è la chiave. Tutti noi cerchiamo di tenere l’ego completamente fuori dal processo di scrittura e di registrazione delle canzoni. Ciò che conta è l’opera d’arte, non la tecnica. Se per la chitarra funziona meglio un blocco di accordi distorti piuttosto che un esibizionismo tortuoso e funambolico, allora si va in quella direzione. Le tastiere non sono usate per generare un fiorire di note classiche, ma per creare tensione e costruire l’atmosfera di un brano. Le voci, nella nostra musica, funzionano allo stesso modo. Cain interpreta le tematiche e la musica e le presenta in una maniera che sia innanzitutto funzionale per le canzoni.
DA UN PUNTO DI VISTA LIRICO, SU QUALI TEMI SI CONCENTRA IL NUOVO ALBUM? L’ARTWORK E IL TITOLO SONO IN QUALCHE MODO CORRELATI AL RACCONTO DI POE?
– È interessante, presumo tu ti riferisca a “Il cuore rivelatore”, giusto? Non c’è una connessione cosciente o diretta con Poe, ma mi piace molto che ti sia venuto in mente. L’intento principale dell’album – dal punto di vista dei testi e delle immagini che lo circondano – è presentare una tela opaca di idee sovrapposte, come un collage surrealista, che inneschi associazioni e idee nella mente dell’ascoltatore, in modo che possa prendere le proprie decisioni in merito al disco, ai suoi significati e alle sue tematiche. La tua interpretazione dell’album in relazione a Poe è perfetta, perché rientra in questa idea. Mi piacerebbe sapere se, leggendo i testi con questo in mente, fossi in grado di trovare altre associazioni che supportino la tua teoria. Spero tu lo faccia, poichè è questo lo scopo della struttura di “Revelator”. In passato, quando scrivevo i testi, lavoravo su un tema e utilizzavo i versi per esplorarlo, consentendo poi al mio subconscio di suggerire altre idee o connessioni. Col tempo però mi sono reso conto che, al momento di parlare dei testi nelle interviste, tutti quei sottotesti erano come morti e appassiti. Parlando del significato delle liriche, potevo solo descriverne la storia. Per “Revelator” volevo cercare di proteggere quel mistero, per me stesso e – si spera – anche per gli altri. Invece di affrontare un determinato argomento, ho appuntato frasi, modi di dire e altri giochi di parole in un piccolo quadernetto che ho portato con me per anni. Quelle frasi rappresentavano qualcosa di molto specifico e riflettevano ciò che mi ossessionava in quel preciso momento. Le ho annotate e poi ne ho deliberatamente dimenticato il significato originale. Quando è arrivato il momento di scrivere i testi per il disco, ho letto attentamente quel libro per trovare tutte quelle che sembrassero collegate inconsciamente fra loro. Poco per volta, partendo appunto da queste frasi, ho assemblato i testi con un significato ‘macro’ in mente, ma nascoste in essi si annidano ancora quelle ossessioni. Spero che questo approccio funzioni e che le persone possano dare la loro personale interpretazione ai contenuti dell’opera. Ovviamente i testi hanno un significato per me, ma sono più interessato all’interpretazione di chi ascolta, quindi non lo condividerò. Mi piacerebbe che ognuno trovasse il proprio.
LA PRODUZIONE È SENZA DUBBIO UNO DEI PUNTI DI FORZA DEL DISCO; CREDO SIA LA PIÙ ORGANICA E DETTAGLIATA DI TUTTA LA VOSTRA CARRIERA. POTRESTE RACCONTARCI QUALCOSA DI PIÙ SUL SUO PROCESSO?
– Penso che il mixing e il mastering di “Revelator” siano di gran lunga i migliori su cui abbiamo mai potuto contare. Concordo anche sul fatto che sia il nostro lavoro più organico, un obiettivo che ci ha guidati durante l’intero processo. Per qualche oscura ragione, finora non eravamo riusciti a scrollarci di dosso il tag ‘industrial’, nonostante solo uno dei nostri album (“n0n”) si inserisse effettivamente in quel filone; questa volta per noi era davvero importante prendere le distanze da quel sound ‘clinico’ e consentire al lato organico di risplendere maggiormente. L’album è stato mixato da Erik Miehs (il nostro chitarrista), che ha svolto un lavoro fenomenale. Si è occupato di tutti i nostri mixing da “V01D” del 2011 in poi, riuscendo a migliorarsi ogni volta, e con “Revelator” ha toccato il suo apice. Mi dispiace per Erik perché, come al solito, c’erano così tante tracce da dissezionare e così tanti suoni diversi a cui assegnare un posto… ma alla fine ci è riuscito. Stavolta una delle sue tecniche (che penso abbia avuto un ruolo chiave nella resa finale del disco) è stata quella di utilizzare una grande pedaliera per chitarra come attrezzatura per gli effetti esterni. Non erano solo le chitarre a passare attraverso questi pedali, ma anche il basso, la batteria, le tastiere e la voce. Tutto è stato trattato come una potenziale sorgente sonora e di effetti, come in una traccia dub. Di conseguenza, c’è una quantità folle di dettagli e di suoni nell’album. Erik ha lavorato duramente per settimane per ottenere un bilanciamento del suono perfetto, inviando i suoi progressi a me e a Cain per avere un feedback, ma fondamentalmente si può dire che si sia isolato fino al termine del processo. Nel bel mezzo del lavoro si è anche spostato in diversi paesi, da Londra all’Australia, eppure è comunque riuscito a mantenere tutto coerente e a farlo suonare in modo incredibile. L’album è stato poi masterizzato da Maor Appelbaum, che ha svolto un lavoro straordinario con alcuni grandi nomi come Faith No More, Mr Bungle e Yes (fra gli altri). Anche adesso, a molti anni dall’inizio di questa guerra rumorosa che è il metal, è molto raro ottenere un album che suoni grande e attuale pur preservando tutte le sue dinamiche. Volevamo evitare uno di quei mastering compressi e monolitici, ce ne sono troppi. Maor ha preso il nostro album e ha fornito quella brillantezza in più che lo ha davvero esaltato. Il disco è dinamico e chiaro, non potremmo essere più contenti del suo lavoro e lo consigliamo vivamente a chiunque.
COME PENSI CHE VERRÀ ACCOLTO “REVELATOR” DALL’AUDIENCE DEATH E BLACK METAL? IN MOLTI PROBABILMENTE RESTERANNO DISORIENTATI DI FRONTE A CERTI BRANI E PASSAGGI…
– Spero sinceramente che siano disorientati. Personalmente, gli album che amo di più sono quelli che inizialmente mi confondono. Amo i dischi intriganti ma fuori dalla mia comfort zone. Quelli che ascolti e non sei sicuro che ti piacciano, ma che ti attraggono ancora e ancora fino a quando non ti penetrano sottopelle diventando i tuoi preferiti. Questo è ciò che spero faccia “Revelator”. So che ci sono persone dalla mentalità chiusa che hanno paura delle novità, ma penso che gli ascoltatori di musica estrema odierni siano ricettivi nei confronti delle idee interessanti. Tutti noi abbiamo sentito un milione di cloni dei Darkthrone e ci entusiasmiamo quando qualcuno introduce nuovi stimoli. Puoi stancarti del solito vecchio rumore, o almeno… io di sicuro. Voglio essere messo alla prova. Penso che “Revelator” sia un album forte perché contiene aspetti che sfideranno le persone, sapendo però presentarli anche in maniera piuttosto semplice. Ci sono ancora passaggi brutali, ci sono blastbeat e ci sono stili vocali tipici del death e del black metal… e mi auguro che i punti da cui ce ne discostiamo suonino in modo naturale. Non ci sono stati imposti, ma si sono presentati nella nostra scrittura spontaneamente; per noi hanno un loro senso logico e mi auguro che gli ascoltatori di mente aperta siano in grado di seguire e apprezzare il viaggio. Se altri sono troppo chiusi per questo, allora non ci interessa averli nel nostro pubblico. Per quelle persone esistono un sacco di album fatti con lo stampino… insomma, ognuno per la sua strada!
QUAL È LA STORIA DELLE MASCHERE CHE INDOSSATE NELLE FOTO PROMOZIONALI E NEI VIDEO? NEGLI ULTIMI ANNI SEMBRANO ESSERE DIVENTATE UNA VERA E PROPRIA MODA… NON PENSATE CHE QUALCUNO LA POSSA REPUTARE UNA MOSSA CALCOLATA?
– Non possiamo controllare ciò che pensano le persone, quindi se credono che sia calcolato non c’è problema. Anche se vorrei chiedere a coloro che potrebbero pensarla così: cosa abbiamo da guadagnarci? Questa è musica estrema, perché inseguire una tendenza? Non paga il mutuo di nessuno. Sono così fuori dal giro di ciò che è ‘cool’ nel metal estremo che non sapevo neppure fosse diventata una tendenza. Non capisco comunque quale sia la differenza con il corpse paint o con le foto con le silhouette nere della band stagliate sullo sfondo. Sono tutte cose già fatte in passato, ma esistono modi per esprimere la personalità senza rendere approssimativa l’atmosfera estetica dell’album. Per la nostra musica, ci concentriamo su tutti i più piccoli dettagli per presentare un’atmosfera ottimale. Ci focalizziamo quindi sulla copertina e sulle immagini della band per garantire che quell’atmosfera continui e si sviluppi, nello stesso modo in cui mostri un dipinto al meglio scegliendo una cornice che ne integri la colorazione. Non sarebbe stato giusto presentarci come siamo ogni giorno, nei nostri abiti da lavoro. Dev’esserci distanza tra l’arte e gli artisti, pur continuando a rappresentarli insieme. Le maschere consentono una personificazione senza un’identificazione completa. In origine, le maschere erano nate come idea per la copertina. Cain si era immaginato un uomo con addosso la maschera del proprio volto, attraverso cui però si poteva intravedere la sua vera faccia. Sviluppando questo concept, Cain ha lavorato con alcuni professionisti per creare più maschere del suo viso, e parlandone tra noi abbiamo capito che l’idea si sposava tematicamente con alcune delle canzoni. Con questo in mente abbiamo iniziato a lavorare sui videoclip e sulle immagini promozionali della band. Non ho dubbi sul fatto che in futuro adotteremo immagini senza maschere, ma per questo album e per le sensazioni che volevamo presentare all’ascoltatore, erano il miglior modo possibile di raggiungere lo scopo.
VI CONSIDERATE ANCORA UNA BAND DEATH METAL? UN TEMPO ERAVATE SOLITI ANDARE IN TOUR CON GRUPPI COME VADER, OBITUARY E DEICIDE, MA CREDETE CHE QUESTO POSSA ACCADERE ANCHE OGGI?
– Ci reputo una band extreme metal. Non siamo mai stati puramente death o black. Ci siamo sempre limitati a creare la nostra musica senza preoccuparci di classificarla. Quello è il compito di un recensore, non il nostro. Abbiamo avuto – e abbiamo ancora – elementi death metal, e in fin dei conti non credo che “Revelator” esca troppo dal seminato del filone. Penso che i generi attraversino fasi in cui si espandono e si contraggono. A metà degli anni ’90, il black e il death si espansero, e ciò che poteva essere classificato come uno dei due era molto più misto e fluido. Poi si sono contratti di nuovo negli ultimi dieci anni. Probabilmente si espanderanno di nuovo in futuro. Per noi, non c’è assolutamente alcuna differenza nel processo e nell’ideologia della musica che abbiamo registrato nel 2004 per “Occasus” e in quella che stiamo facendo ora. Siamo fondamentalmente le stesse persone dell’epoca, che cercano di produrre musica il più spregevole possibile con gli strumenti a disposizione. Vedo una forte continuità nella band. Quindi, se ci consideravi death metal allora, siamo death metal anche adesso. È lo stesso processo, anche se ci sono cambiamenti estetici a livello superficiale. Non ho dubbi sul fatto che potremmo (e faremo) tour con gruppi come Vader, Obituary e Deicide. Siamo ancora una live band aggressiva, bastarda e veloce, e possiamo tenere testa a qualsiasi palco. Ma, come sempre, saremmo altrettanto felici di suonare con realtà noise o industrial. Ci sono così tante sfaccettature in quello che facciamo che penso ci siano collegamenti con varie scene. Tuttavia, non ho idea se l’audience potrà apprezzare. Ma non credo che questo sia un nostro problema.
CHE VALORE ATTRIBUITE ALL’ORIGINALITÀ? VI CONSIDERATE TALI?
– Penso che l’originalità (a patto che sia naturale) sia la chiave per un’arte di successo. L’arte che non è originale è una pausa tra momenti artistici realmente importanti. Che ok, vanno bene per farti andare avanti, ma non sono quelli che ricorderai negli anni a venire. Tutti gli artisti hanno qualcosa di individuale da dire, o almeno credo. Ogni persona ha una serie completamente unica di gusti, idee e una sua visione del mondo. Se fosse possibile presentarla in maniera non diluita, ogni opera d’arte sarebbe in qualche modo speciale. Tuttavia, ci sono in gioco forze che riducono la vista e smussano i bordi fino a farli suonare tutti stesso modo. Gli artisti che nutrono preoccupazioni circa la natura commerciale della loro visione, o al genere a cui appartengono, e poi cambiano (consapevolmente o meno) la loro musica per alleviare queste preoccupazioni, stanno strappando originalità alla loro visione per presentarla in modo ‘liscio’ e regolare agli ascoltatori. Penso che in una certa misura tutti lo facciano… il trucco è cercare di essere il più protettivi possibile verso l’arte, in modo che ciò che è originale non sia adulterato. L’originalità è l’ideale. È come la perfezione; in realtà potrebbe non essere possibile raggiungerla al 100%, ma è qualcosa verso cui tendere. Ma deve essere naturale. Non c’è niente di peggio di una band che usa elementi che non gli appartengono per presentare uno stile di musica folle e selvaggio. Questo è solo il rovescio della medaglia dell’appiattimento che dicevo. Credo che i The Amenta possano essere considerati originali. Il nostro metodo, il nostro approccio alla melodia e all’armonia sono solo nostri. La strumentazione che utilizziamo è unica. Usiamo letteralmente il nostro ambiente per generare suoni. La voce di Cain suona come la sua, e basta. Siamo consapevoli delle stranezze e delle gamma espressiva della sua voce, tanto da vederla come l’anima del progetto e da presentarla nel modo più chiaro possibile, senza appianare le note in modo che suoni come quella di chiunque altro. La nostra musica si muove tra i generi perché stiamo scoprendo naturalmente un’area che è unicamente nostra.
PENSATE CHE VIVERE IN AUSTRALIA ABBIA IN QUALCHE MODO INFLUENZATO IL VOSTRO MODO DI COMPORRE E VEDERE LA MUSICA? I GRUPPI AUSTRALIANI E NEOZELANDESI SONO DA SEMPRE PIUTTOSTO OSTILI, MUSICALMENTE PARLANDO…
– Sì, penso che l’Australia abbia influenzato la nostra musica. Come potrebbe non farlo l’ambiente in cui viviamo? Per certi versi siamo stati fortunati, perché per anni siamo stati lontanissimi dai tradizionali ‘centri metal’ del mondo. Prima di Internet eravamo completamente isolati. Sentivamo parlare di nuova musica proveniente dall’Europa e dagli Stati Uniti, ma non potevamo ascoltarla prima che fossero passati mesi. Le nostre band potevano avere un enorme successo a livello locale, ma nullo all’estero. Non c’era modo di commercializzare la nostra musica con tour o release internazionali. Di conseguenza, penso che i musicisti australiani (e neozelandesi) siano stati costretti a creare un ecosistema che non avesse alcuna relazione con ciò che stava avendo successo in altri paesi. Ad esempio, quando sul finire degli anni ’90 ebbi modo di sentire i passaggi melodici in stile Iron Maiden di molte band death/black americane ed europee, mi sembrò tutto molto strano e alieno. Quei gruppi furono senza dubbio ricompensati dal cambiamento con il successo, ma non c’era niente del genere in Australia. Più la musica era spregevole e ostile, più era probabile che la gente si presentasse ai tuoi concerti. Questo è stato. E anche se decidevi di suonare musica più ‘sicura’, non esisteva un mercato più ampio dove venderla. Sarebbero comunque state le stesse cento persone per città. Quindi tanto valeva suonare nella maniera più sporca e inquietante possibile. Dal momento che Internet ha avvicinato il mondo e le band australiane possono pubblicare facilmente musica all’estero, tutto questo ovviamente è cambiato, ma penso che ormai l’attitudine del ‘vaffanculo tutto’ sia così radicata nella nostra cultura che non verrà mai completamente rimossa.
COSA DIFFERENZIA LA BUONA DALLA CATTIVA MUSICA, A VOSTRO AVVISO?
– Fondamentalmente, è solo l’opinione che differenzia la musica buona da quella cattiva. Come per tutta l’estetica, è una questione soggettiva. Ci sono band che ascolto e amo che altre persone odieranno fottutamente, e viceversa. Come puoi quantificare il bene e il male? Per me, la musica buona è quella che trovo interessante. Se sta dicendo qualcosa che non ho sentito prima, o in un modo nuovo, o ricorrendo a scelte di produzione insolite, allora è probabile che mi intrighi. Sono più interessato a questi concetti che alla ‘qualità’. Preferirei ascoltare la registrazione approssimativa di una grande idea piuttosto che una registrazione perfetta di un qualcosa di trito e ritrito. Sono le idee che fanno arte, non qualsiasi altra merda. Chi se ne frega della velocità a cui può suonare un batterista o un chitarrista. Quella merda è noiosa. Non potrei rimanerne ammaliato neppure dandole un giorno intero per convincermi. Preferisco ascoltare un chitarrista come Derek Bailey, che ha inventato il proprio linguaggio di improvvisazione, piuttosto che un tritatutto super veloce. So che il metal è molto coinvolto nella tecnica, ma non ho assolutamente tempo per quella spazzatura. ‘Dammi una buona idea ogni giorno’, questa penso sia la chiave per la buona musica e la buona arte in generale.
COMPATIBILMENTE CON L’EVOLVERSI DELLA SITUAZIONE SUL FRONTE DELLA PANDEMIA, QUALI SONO I VOSTRI PIANI PER IL FUTURO?
– Con i tour internazionali ancora fuori dai giochi, stiamo lavorando ad alcune idee per tenerci occupati e mantenere vivo l’interesse delle persone. L’Australia sta vivendo la pandemia meglio di altri paesi, e se le cose continueranno in questo modo potremmo essere in grado di tenere dei concerti qui. Se ciò fosse possibile, faremo dei tour locali assicurandoci di registrare tutti gli show, con l’idea di farli vedere a persone di altre aree geografiche. Stiamo anche lavorando ad alcune nuove registrazioni, alcune delle quali derivano dalle sessioni di “Revelator”, e ad altre cose che cercheremo di completare in tempi brevi. Poi ci getteremo sul prossimo album… vedremo se riusciremo ad essere più veloci questa volta!