Con l’ingresso al microfono di Glenn Hughes, i The Dead Daisies paiono entrare in una nuova era di una carriera vissuta costantemente a marce elevate, per una all-star band che ha finora mantenuto le attese legate ai nomi coinvolti. “Holy Ground” si è presto rilevato essere un altro potente affresco di hard’n’blues moderno, pastoso, incendiario, frutto di menti che hanno consacrato all’hard rock la loro intera esistenza. Hughes si conferma cantante incapace di invecchiare, ancora potente ed espressivo e, grazie al suo basso funky, in grado di modificare lievemente un sound che non si è affatto ammorbidito rispetto alle squassanti trame di “Burn It Down”. Doug Aldrich è il nostro interlocutore per raccontarci questo nuovo capitolo della sua band, che successivamente a questa chiacchierata ha posticipato – purtroppo – il tour europeo al 2022, ha dovuto dire perlomeno arrivederci al batterista Deen Castronovo, fuori per problemi di schiena, e ha confidato di avere già materiale pronto per un nuovo album. Non c’è che dire, con The Dead Daisies non si sta mai fermi!
DIREI CHE IL PRIMO DATO RILEVANTE RIGUARDO AL NUOVO ALBUM È L’INGRESSO DIETRO AL MICROFONO DI GLENN HUGHES AL POSTO DI JOHN CORABI. COSA È SUCCESSO, COSA HA PORTATO JOHN A LASCIARE A FAVORE DI GLENN?
– Sostanzialmente, John aveva bisogno di più tempo libero per concentrarsi su altre attività. Io stesso, da quando sono in questa band, mi sono trovato ad essere sempre molto impegnato. Sin da quando sono entrato in line-up, nel periodo di “Revoluciòn”, questa band mi ha assorbito completamente, tra le registrazioni degli album, gli impegni promozionali e i tanti tour a cui ci siamo sottoposti. Un flusso continuo di impegni. A un certo punto, John, dopo aver lavorato come noi tantissimo in questi anni, ha sentito la necessità di dedicarsi anche ad altro. Voleva fare un tour acustico, pubblicare un disco solista, aveva bisogno di ritagliarsi spazio per queste cose. Glenn Hughes? Oh, con lui è come quando arriva il tuo amico super-figo a una festa: è spiritoso, pronto allo scherzo, pieno di energia, ogni volta è una sorpresa con lui. Quanto al suo ingresso, abbiamo seguito un suggerimento di Marco Mendoza, che ha collaborato a lungo con noi in passato. Ci ha suggerito di provare a chiedere a Glenn se volesse suonare con noi. L’idea ci piaceva, però pensavamo che non avrebbe trovato posto anche per i The Dead Daisies: invece ha accettato! Ci eravamo fatti qualche problema, credevamo fosse troppo complicato averlo con noi: ci sbagliavamo. A volte basta tentare. Considerato che eravamo di fronte a dover apportare un cambiamento, penso che abbiamo fatto bene a cambiare in modo netto. Per conto mio, in questi casi è meglio pensare a un nuovo inizio, a qualcosa di molto diverso da quello che stavi facendo prima. Per questo ritengo la scelta di Glenn come nuovo cantante dei The Dead Daisies molto opportuna.
PENSI CHE CI SIA STATO UN CAMBIAMENTO COSÌ FORTE NEL SOUND DOVUTO ALL’INGRESSO DI GLENN HUGHES?
– Certamente, il cambiamento è stato molto forte. Avere un nuovo cantante è ciò che va più a modificare il suono di un gruppo. Specialmente con uno come Glenn. Tieni conto che è anche un grande songwriter, per cui quando hai uno come lui nella band l’apporto in fase compositiva è determinante. Ho cercato di comporre andando incontro a quelle che potevano essere le sue caratteristiche e mi sono reso conto che per lui è facilissimo adattarsi al materiale che gli viene proposto, il suo processo creativo è molto fluido. Se sei vicino a lui e ti metti a strimpellare qualcosa alla chitarra, anche in modo molto disimpegnato e senza pretese, lui si metterà subito a cantare seguendo la melodia. Per lui è naturale. Quindi sì, siamo cambiati parecchio, Glenn Hughes non è solo un cantante ma un eccellente compositore, la sua impronta è forte in “Holy Ground”.
RIUSCITE A CANALIZZARE LA VOSTRA IDENTITÀ HARD ROCK E BLUES IN UN SUONO MOLTO POTENTE E METALLICO, CON CHITARRE MODERNE E COMPRESSE. È DIFFICILE RIUSCIRE A FILTRARE IL VOSTRO BACKGROUND CLASSIC ROCK IN UN SUONO DEL GENERE?
– Non ho mai riflettuto moltissimo su questo aspetto, ad essere sincero. Penso a suonare con la massima naturalezza e a concentrarmi su quello che voglio esprimere con la mia musica. Non sono nemmeno così ‘dentro’ la produzione del disco, non sono costantemente al banco del mixer. Per il nuovo disco abbiamo scelto un nuovo produttore e questo ha sicuramente influito nel suono, che in effetti è un po’ diverso dal passato. Se sia difficile conciliare tradizione e modernità? Non direi, se non ci stai a pensare sopra e pensi, come ti accennavo prima, a suonare secondo il tuo gusto e sentimento. È importante avere un suono fresco, che ti faccia riconoscere come una band del 2021. Allo stesso tempo, le mie radici sono nel rock degli Anni ’60 e ’70, secondo l’’American Way’ di questi suoni. Sono nato negli Anni ’60, cresciuto nei Seventies e ho iniziato la mia carriera di musicista negli Anni ’80. Il rock di tutte queste decadi fa parte del mio DNA. È dentro di me.
QUAL È IL ‘SUOLO SACRO’ A CUI FATE RIFERIMENTO NEL TITOLO DEL NUOVO ALBUM? COSA C’È DI REALMENTE SACRO, PER TE, IN QUESTO MONDO?
– La mia famiglia, i miei affetti più cari, i famigliari stretti. Ci metterei anche i miei animali domestici. Appena dopo, il mio lavoro. Questa pandemia ti porta a considerare meglio ciò che è realmente importante, quindi la salute tua e delle persone a te più care. Certo, poi c’è la musica, che riveste un’importanza fondamentale nella mia vita. Ma se dovessi indicare una cosa soltanto avente un carattere ‘sacro’ nella mia vita, questa sarebbe la famiglia. Ci sono tante cose che potrebbero definite un ‘Holy Ground’: possono essere le motociclette, se ci tieni molto; una relazione amorosa; può essere una cosa o una persona, oppure un’emozione, un sentimento, qualcosa di fisico o di intangibile.
SE DOVESSI INDICARE LA MIA CANZONE PREFERITA DI “HOLY GROUND”, LA SCELTA CADREBBE SULL’ULTIMA TRACCIA, “FAR AWAY”, STILISTICAMENTE ABBASTANZA DIFFERENTE DAL RESTO DELLA TRACKLIST. PUOI RACCONTARCI QUALCOSA IN PIÙ SU COME È NATO QUESTO PEZZO E A COSA SI RIFERISCE?
– È una canzone scritta interamente da Glenn. Me l’ha proposta mettendosi alla chitarra e mostrandomi i suoi elementi essenziali, gli accordi, la struttura, la melodia… Era già tutto pronto, ci ha portato una canzone già completa. Da lì è subentrato il processo di arrangiamento, che ci ha coinvolto tutti e quattro. Ognuno di noi ha una sua idea di come debba suonare un brano e abbiamo messo assieme le nostre differenti visioni su “Far Away”. Una canzone che può interpretare un po’ come se fosse un viaggio, che avrebbe potuto essere suonata anche completamente in acustico e avrebbe avuto il suo carattere, il suo potenziale. Il feeling epico che emana in alcuni frangenti mi ricorda alcune cose del mio periodo nei Whitesnake. In quegli anni David Coverdale aveva maturato un certo gusto per quel tipo di sonorità. Noi, come The Dead Daisies, solitamente suoniamo più rock’n’roll, quelle atmosfere non le sfioriamo neanche. Mentre con “Far Away” ci immergiamo in esse. Il merito di esserci portati su sonorità simili è, anche in questo caso, di Glenn, altrimenti difficilmente ci saremmo arrivati. Abbiamo deciso che la prima parte dovesse essere piuttosto lenta e calma, per poi esplodere a un certo punto con un attacco molto forte della batteria. La lavorazione del brano è stata meticolosa e ci ha richiesto diverse prove, è lunga per i nostri standard e variegata. Ci siamo stati sopra un po’, poi finalmente siamo riusciti a suonarla in una versione che ha messo tutti d’accordo. È una pietra angolare di “Holy Ground”, in effetti è una delle canzoni più importanti della tracklist.
PER QUANTO RIGUARDA L’ARTWORK, SEMBRA RIFERIRSI ALL’UNIVERSO DEI FUMETTI, O ALMENO, QUESTA È L’IMPRESSIONE CHE SUSCITA. C’È QUALCHE PRECISA RAGIONE CHE VI HA CONDOTTO NEGLI ANNI A QUESTO TIPO DI IMPRONTA GRAFICA? CHI È L’AUTORE DELL’ARTWORK DI “HOLY GROUND”?
– Ti confesso che non siamo molto coinvolti quando si tratta di scegliere l’artwork, è un compito delegato al nostro management. Funziona che gli comunichiamo una nostra idea su quello che vorremmo per la copertina e gli aspetti della veste grafica e poi loro si occupano di trovare qualcosa di adatto alla nostra idea iniziale. Devo dire che finora sono sempre stati in grado di soddisfarmi, proponendoci ottime immagini, che ci hanno davvero sbalordito. Anche per “Holy Ground” hanno svolto un ottimo lavoro, è in linea con il passato e ci rappresenta appieno.
A LUGLIO DEL 2020 AVETE PUBBLICATO UN EP ACUSTICO, INTITOLATO “THE LOCKDOWN SESSIONS”. VOLEVO CHIEDERTI SE TI PIACCIA PARTICOLARMENTE LA DIMENSIONE ACUSTICA E QUANTO È STATO IMPORTANTE QUESTO EP PER MANTENERE STRETTI I RAPPORTI TRA VOI DELLA BAND E TRA I THE DEAD DAISIES E I PROPRI FAN.
– Come tanti altri gruppi, ci siamo trovati spiazzati da quello che stava avvenendo per via della pandemia. “Holy Ground” sarebbe dovuto uscire lo scorso anno e da lì sarebbe partita una lunga serie di concerti. Per tenere comunque connessi i nostri fan, abbiamo deciso di far uscire una canzone del nuovo disco come singolo, e abbiamo proposto “Unspoken”, per la quale è uscito anche un video. Durante il lockdown, ci è venuto in mente di registrarne una versione acustica. Da lì è seguita una nuova versione di “Righteous Days” e altre ancora, perché a quel punto la cosa ha iniziato a interessarci e, nell’interpretare altri brani del repertorio, abbiamo provato a dargli una veste acustica ma, in quel contesto, piuttosto potente. Infine, ci è venuta in mente “30 Days In The Hole”, ben diversa dalla versione presente sull’album. In un primo tempo abbiamo semplicemente messo quelle registrazioni su Youtube. Fatto questo e rilevato un certo interesse da parte di chi ci segue, il management ha pensato sarebbe stata una buona idea dare una veste ufficiale al tutto. Credo possa aver fatto piacere sentire questi brani, in un momento così difficile. È stata una buona operazione sia per noi, sia per chi ci ascolta da tempo.
IN QUESTI ANNI AVETE SUONATO IN TANTISSIMI POSTI E IN OCCASIONI PARTICOLARI, COME LO SHOW TENUTO IN UNA BASE AMERICANA IN COREA DEL SUD, LE COLLABORAZIONI CON NEW YORK YANKEES E LA NASCAR, LO SPETTACOLO PER UNA FESTA DELL’HARLEY DAVIDSON. VOLEVO CHIEDERTI QUALE È STATA LA CIRCOSTANZA CHE VI È CAPITATO DI VIVERE DURANTE I VOSTRI SHOW.
– Nel 2017 abbiamo tenuto uno show in Polonia, si chiamava Poland Freedom Festival, un festival da diverse migliaia di persone, molto popolare da quelle parti. Fummo headliner su uno dei palchi e suonammo con un’orchestra polacca di sessanta elementi. Suonare assieme a un’orchestra era una situazione completamente nuova per noi. Sfidante, sicuramente, ma molto intensa.
IN ULTIMO, VOLEVO CHIEDERTI SE HAI IN PROGRAMMA QUALCOSA DI NUOVO CON I REVOLUTION SAINTS, ASSIEME AI QUALI HAI REGISTRATO UN OTTIMO ALBUM NEL 2020, “RISE”.
– Mi spiace deluderti, al momento non abbiamo nulla di certo in programma. Si tratta essenzialmente del progetto solista di Deen Castronovo. Quanto abbiamo finora è andato molto bene e sono ancora contento dei dischi registrati assieme, ma è Deen a tenere le redini del progetto e al momento non penso abbia nulla in programma sotto questo nome. Sai, ora che i The Dead Daisies sono a pieno regime farei comunque fatica a trovare il tempo per seguire bene anche i Revolution Saints, quindi direi che per il momento su quel fronte sono in pausa. Per il futuro, vedremo cosa sarà possibile fare.