THE MAGIK WAY – Nel mondo deforme che gira gira gira

Pubblicato il 14/03/2021 da

“Il Rinato”, ultima fatica discografica di The Magik Way, ha meritatamente trovato posto in pressoché tutte le classifiche delle migliori uscite dello scorso anno; non solo di genere metal, e giustamente, dato che è un disco che travalica i confini più rigidi sia in termini musicali che tematici. Abbiamo quindi contattato Flavio, alias Nequam, compositore principale della band, per approfondire la disamina di questo disco e della visione sottesa al loro progetto. L’avvio dell’intervista si lega al rinvio del nostro primo appuntamento telefonico; abbiamo riportato quelle che erano amichevoli chiacchiere extramusicali, dato che si sono rivelate lo spunto per toccare ulteriori tematiche nel seguito.

CIAO FLAVIO, COME VA? GIORNATA PESANTE, IERI?
– Ieri molto pesante, oggi così così, ma fa parte del mio lavoro alla fine quella roba lì.

MI DICEVI CHE LAVORI IN PSICHIATRIA, MA SEI PSICHIATRA?
– No io sono educatore sanitario e lavoro in una comunità psichiatrica, sono il referente di questa comunità da sette anni. Il mio è un lavoro ricco di colpi di scena, con annessi e connessi.

CERTO MI IMMAGINO MOLTO INTENSO, A MENO CHE UNO NON LO AFFRONTI COME FARE IL COMMESSO. PARTIAMO CON UN PO’ DI DOMANDE. UN PAIO D’ANNI FA TI HO GIÀ CHIESTO UN PO’ DI COSE SULLA GENESI DELLA BAND E SUL VOSTRO SOTTOTESTO ERMETICO, PER CUI PASSO A CHIEDERTI COME È NATO QUESTO DISCO. CON TUTTE LE DIFFERENZE ALL’INTERNO DELLA STORIA DELLA BAND, CHE SAPPIAMO AVER AVUTO ANCHE UNA LUNGA FASE DI STASI ANCHE SE MI HAI SPIEGATO CHE NON ERA UNA STASI A TUTTI GLI EFFETTI, E CON TUTTE LE DIVERSITÀ ANCHE RISPETTO AL DISCO PRECEDENTE.
– Allora, il disco nasce  in realtà subito dopo “Curve Sternum”. Le prime cose scritte sono del 2016, sotto il profilo testuale, non musicale. Poi è uscito “Ananke” nel 2017, abbiamo voluto festeggiare il ventennale con il DVD, e poi c’è stato lo split con i Malvento, quindi diciamo che tutto quel materiale era stato messo momentaneamente in cantiere e poi soltanto nel 2019 abbiamo cominciato a affrontarlo veramente, a livello sia musicale che testuale. In realtà devo dire che nel 2019 non ero tanto convinto, ho chiuso l’anno con un sacco di perplessità, le bozze erano già pronte, però qualcosa non girava. Poi, come spesso accade, si allineano i pianeti e il 2020, per quanto anno nefasto, in realtà non lo è stato musicalmente, perché diciamo che da gennaio ad aprile si sono sbloccate tutte le resistenze e siamo riusciti a registrare il disco. Ormai lo zoccolo duro è fatto da me, Tlalocan al contrabbasso e Maniac Of Sacrifice alla chitarra, poi ruotano vari collaboratori. Come avrai senz’altro notato, i collaboratori si estendono anche sul piano video/visual, con l’inclusione del mondo attoriale e del mondo della danza; quindi sono molto contento e soddisfatto perché The Magik Way, fin dal 1996, hanno avuto sempre l’ambizione di allargarsi su diversi fronti. Dicevo, da gennaio ad aprile abbiamo registrato, ovviamente con tutti i problemi legati al primo lockdown. Tra l’altro io, parentesi forse poco interessante, ho avuto il Covid e quindi sono stato sessanta giorni in casa con la mia compagna. Da un lato ho anche sfruttato la situazione per chiudere i mix, mi sono portato a casa quanto più possibile per finire il disco e poi l’abbiamo consegnato a Fabio Lanciotti per il mastering; fortunatamente ho preso il virus in forma molto lieve, quindi potevo tranquillamente fare diverse cose pur essendo rinchiuso. E quindi sono forse tra i pochi che ha una visione non così terrificante di questo anno, che è stato davvero un anno di trasformazione. Come sempre accade. Passerà alla storia, almeno per me, come un anno sicuramente terribile sotto il profilo sanitario, ma anche denso di colpi di scena e di novità sotto il profilo musicale.

PROPRIO COME UNA FENICE DALLE CENERI DICIAMO, NEL VOSTRO CASO, TUTTE LE PERPLESSITÀ SI SONO RISOLTE. NELLA RECENSIONE VI HO ACCOSTATI A DIVERSE BAND ITALIANE. NON È STATA UNA SCELTA SOLO PER PATRIOTTISMO (CHE TROVO UN ATTEGGIAMENTO SBAGLIATO COME QUELLO OPPOSTO), MA PERCHÉ CI HO SENTITO VERAMENTE CERTE COSE. NELL’INTERVISTA PRECEDENTE MI CITAVI TU COME RIFERIMENTI FERRETTI E CAPOSSELA, CHE ANCORA DI PIÙ IN QUESTO DISCO, FORSE PERCHÉ COMPLETAMENTE VOSTRO, SI SENTONO MOLTO. IN CHE MODO TU VEDI QUESTO LEGAME, CHE POI SONO PIÙ SENSAZIONI CHE RICHIAMI MUSICALI? COME VEDI QUESTA EREDITÀ?
– Allora, tutto parte dalla volontà di sfruttare la lingua italiana che non è una cosa proprio scontata in un genere come il nostro.

E NON È NEANCHE SCONTATO FARLA BENE. ANCHE COME MUSICALITÀ, PERCHÉ È UN GROSSO PROBLEMA, QUANDO SI SORPASSA IL CANTAUTORATO, RIUSCIRE A RENDERE LA NOSTRA LINGUA MUSICALE.
– La lingua italiana, secondo il mio modesto parere, ha un potenziale enorme. Quando si affronta questo discorso bisogna ovviamente fare i conti appunto col cantautorato, che in Italia è fatto di grandissimi nomi. Ed è inutile elencarli, perché sono tantissimi e tutti grandissimi. Io fin da bambino ascolto musica e tantissima musica italiana. Mio padre era un batterista della beat generation, quindi venivo martellato dalla musica italiana. Poi come spesso accade ci si dedica ad altri ascolti, poi però è ritornato questo desiderio di affrontare la lingua italiana e quindi mi sono rifatto ai modelli che avevo in quel momento. Fortunatamente c’è stato un secondo tempo in Italia, parlando della tradizione della musica. Secondo tempo appunto che è prodotto da questi grandi nomi, che erano i miei idoli negli anni Novanta, tra i quali sicuramente Lindo Ferretti, per quanto mi venga sempre un capogiro quando sento questo paragone, perché per me Ferretti – al di là delle qualità o meno canore – è un grandissimo pensatore, un grandissimo poeta e quindi io non penso neanche lontanamente ad accostarmi ad una grandezza del genere. Capossela, probabilmente per il discorso musicale, è uno sperimentatore e una persona che accosta sonorità, strumenti, timbri in un certo modo e questa cosa la trovo molto interessante. Diciamo che i suoi suoni mi sono rimasti in testa e mi interessava cercare di scoprire alcuni arcani della sua musica. Poi è anche una questione di combinazioni, come ad esempio sicuramente condividere il percorso con Tlalocan che è il mio contrabbassista, che per definizione già suona uno strumento che suggerisce un certo tipo di ricerca musicale, ovviamente molto lontana dal metal. Io rivendico la mia dimensione di metallaro sempre e comunque, ma fortunatamente ho di fianco persone che invece mi aiutano a non limitare i miei orizzonti e quindi il gioco è fatto. Ho fatto un po’ di ricerca nell’ambito della vocalità e l’ho fatto anche attraverso l’osservazione delle grandi voci italiane, intendo anche attoriali, anche teatrali. Un amico, Maurizio Gambet, mi ha scritto in privato dicendomi, “ma di’ la verità che nel tuo modo di cantare c’è anche Carmelo Bene”: a parte che per me è un grandissimo complimento, sono contento che “Il Rinato” sia un disco che ha fatto riflettere sulla possibilità che in effetti la mia vocalità abbia anche una parentela col mondo del teatro, perché effettivamente è così. E quindi i miei nomi di riferimento sono sempre quelli insieme a tanti altri, sono molto contento che nonostante sia stato il primo a citare questi nomi, questi in un certo senso ritornino.

HAI CITATO DUE ELEMENTI MUSICALI, ANCHE SE DIFFERENTI, MOLTO RILEVANTI, NELL’ALBUM. IL CONTRABBASSO SI SENTE TANTISSIMO E FA PROPRIO DA SPINA DORSALE RISPETTO A UNA RIDDA DI ELEMENTI CHE SI MISCHIA, IO NELLO SCRIVERNE HO PROVATO A CITARE ANCHE DIVERSE PERCUSSIONI CHE MI SEMBRA SIANO MOLTO PRESENTI. E POI APPUNTO QUESTA VOCE TEATRALE CHE È UN ELEMENTO CHE EMERGE FORTEMENTE, ASSIEME SECONDO ME ALLA DIFFICOLTÀ DI RENDERE MUSICALE LA NOSTRA MERAVIGLIOSA LINGUA; SPESSO QUANDO SI CERCANO TONALITÀ TEATRALI C’È IL RISCHIO CHE DIVENTINO IN QUALCHE MODO GROTTESCHE, COSA CHE NON AVVIENE ASSOLUTAMENTE NE “IL RINATO”. IN QUALCHE MODO HAI DETTO COME TI SEI AVVICINATO, ANCHE PER PASSIONE, A QUESTO TIPO DI VOCALITÀ. MA COME LE AVETE MISCHIATE CON QUELLO CHE STAVATE SCRIVENDO? COS’È NATO PRIMA, DAL PUNTO DI VISTA MUSICALE E SONORO IN QUESTO DISCO?
– Io, come autore sia di tutte le musiche che di tutti i testi, parto come tantissimi altri con uno strumento, imbracciando un basso elettrico o una chitarra acustica e cominciando a scrivere delle parole su un foglio, quindi quello è l’inizio di tutto. Sono molto influenzato dal fatto che, essendo i nostri dischi concept album, so già dove vorrò andare a parare. In particolare “Il Rinato” è un disco che ha molto a che fare con l’euforia, con la schizofrenia; la storia stessa è una storia di dissociazione, per tornare al mio mestiere in ambito psichiatrico, e quindi c’era assolutamente la necessità di una voce che da un lato intonasse e dall’altro interpretasse in maniera più recitativa. La musica di The Magik Way si fonda su due principi, uno più rigoroso, cantautorale, fatto semplicemente di accordi e di una traccia cantata che deve intersecarsi, tramarsi alla musica, e una parte invece più sperimentale, più libera che penso sia udibile specialmente nei nostri brani più litanici, più ripetitivi, un po’ alla maniera degli anni Settanta; ci sono momenti nella nostra musica che devono necessariamente essere accorciati per essere contenuti in un disco. Mettiamo poi nel disco il ‘meglio di’. Il nostro è un approccio estremamente rituale, quindi potremmo andare avanti per minuti e minuti sempre con la stessa frase ossessiva, eccetera. Proprio perché siamo vicini ad una forma se vogliamo di preghiera musicale (chiamiamola così), sicuramente il concetto di ciclicità, di ripetitività anche sotto il profilo respiratorio spinge poi ad una sorta di visione catartica della musica; senza fare pipponi, comunque questa è un po’ la nostra dimensione musicale. La mia voce è il risultato anche di esercizi, ci ho proprio picchiato la testa su certe cose perché me lo insegna il mondo attoriale, che è un mondo dove la voce è estremamente importante e deve essere prodotta assolutamente in un certo modo. Capisco perfettamente che cosa intendi per grottesco, perché a volte si tende un po’ all’utilizzo di tinte troppo vivide e troppo esagerate, purtroppo è una cosa che accade. Io per quanto possibile cerco di non cadere in quel tranello, però mi rendo altrettanto conto che la nostra musica è fortemente influenzata dalla mia vocalità, che è la classica vocalità che uno può anche odiare perché è estremamente presente e intrusiva. E anche nell’arrangiamento viene lasciato tantissimo spazio alla voce proprio perché parliamo di una dimensione quasi teatrale, parlata, quindi è anche per quello che è così presente. I testi sono abbastanza lunghi, ci sono tante cose da dire e quindi inevitabilmente si prende un sacco di spazio. Questa è un po’ la sintesi.

C’È COMUNQUE UN EQUILIBRIO MIRABILE. MI COLLEGO SEMPRE AL RISCHIO DI VIAGGIARE SU UN CRINALE MUSICALE E TEATRALE ESTREMO IN QUALCHE MODO, NON IN TERMINI MUSICALI MA PROPRIO DI PERCEZIONE, PERCHÉ CI SONO MOMENTI IN CUI LA TUA VOCALITÀ È CENTRALE E SEMBRA ESSERCI QUASI SOLO LEI NELLA TRACCIA, EPPURE C’È UN’ESPLOSIONE DI SUONI. DICEVO PRIMA APPUNTO CHE SI PERCEPISCONO PERCUSSIONI, SUONI DI STRUMENTI TRADIZIONALI. QUESTI COME SONO STATI INSERITI? SONO TUTTI STRUMENTI ANALOGICI O RICREATI?
– Sono tutti strumenti analogici che provengono da quel famoso percorso di cui parlavamo qualche anno fa e da quel famoso “buco” 2000-2010 nella storia dei The Magik Way. Tra  i tanti percorsi che ho fatto personalmente e insieme alla band, c’è sicuramente quello di ricerca nel campo dei suoni e dei timbri. Ho avuto la grandissima fortuna di suonare anche con ensemble stranieri… africani, egiziani, indiani. Questa cosa mi ha aperto veramente un mondo. C’è stato un momento nella mia storia personale in cui ero estremamente interessato, e lo sono ancora, alla world music. Io inizio batterista, come forse ricorderai, e a un certo punto del mio percorso ho cominciato semplicemente a smontare la batteria e a non montarla come la vedevo montata nel negozio. Ho cominciato a prendere la grancassa mettendola in orizzontale e percuotendola con una mazza anziché con il pedale e sono entrato in questo mondo meraviglioso di suoni che ho cominciato poi a trattare negli anni. Quindi gli strumenti che tu senti ne “Il Rinato” sono quasi tutti strumenti reali, compresi gli shaker. Ci sono tamburi dell’oceano, bastoni della pioggia, strumenti con un forte connotato rituale, anche oggetti trovati (“objet trouvé” diceva Duchamp). Oggetti utilizzati anche se non sono strumenti musicali, ma questa cosa era già udibile in “Cosmocaos” nel 1999, siamo sempre stati un po’ fissati su questa cosa. Il problema nel 2020 è cercare di registrarlo con la microfonazione corretta; un’altra cosa che facciamo è non appoggiarci mai a degli studi di registrazione perché spenderemmo miliardi, siamo molto pignoli e molto lunghi nel processo. Quindi negli anni ci siamo creati delle location, strutture anche un po’ strane, abbiamo registrato dischi in qualunque contesto, e anche in questo caso abbiamo scelto delle stanze per essere microfonate a livello panoramico. Sono spazi che utilizziamo di volta in volta e che ci andiamo a cercare, com’era ad esempio l’Auditorium di via Pace a Brescia, dove è stato girato “Ananke”. Quello aveva un soffitto altissimo, quindi aveva la caratteristica di riverberi naturali enormi; è molto bello registrare gli strumenti quando si ha una mezza idea del risultato che si vuole ottenere, e noi alla fine facciamo sempre così. Siamo proprio classici, alla vecchia maniera: registriamo, diamo un colpo, ascoltiamo, poi spostiamo il microfono di cinque centimetri, lo registriamo di nuovo, quando ci piace lo lasciamo così. È un modo di fare veramente vecchia scuola, che però in un certo senso sta anche un po’ tornando. In uno studio di registrazione non sarebbe possibile fare una cosa di questo tipo perché siamo troppo lunghi, troppo pignoli e troppo poveri, soprattutto: questa è la cosa importante.

GROSSO PROBLEMA! NON VORREI ESSERE FRAINTESO RISPETTO ALLA RICERCA DI CUI MI HAI PARLATO E ALLA PIGNOLERIA, MA HAI CITATO POCO FA DUCHAMP; SE POSSO FARE UN COLLEGAMENTO, VISTO CHE MI PARLAVI DEL TUO LAVORO PRIMA, HO PENSATO ANCHE ALL’ART BRUT, COME IMMEDIATEZZA. CI PUÒ ESSERE UNA QUALCHE DIMENSIONE DEL TUO LAVORO CHE ENTRA IN THE MAGIK WAY, ALMENO A LIVELLO DI PAROSSISMO, DI IMPROVVISAZIONE, CHE NON SIGNIFICA APPUNTO SUONARE BUONA LA PRIMA, EVIDENTEMENTE, PERÒ LASCIARE SPAZIO A L’INTERIORITÀ PURA.
– Assolutamente. Intanto il mio lavoro mi pone di fronte a una presa di coscienza, e cioè che non esiste un’unica realtà; la realtà in ambito schizofrenico, o psicotico, ti pone di fronte a questa grande verità: che la realtà in realtà è una cosa molto, molto soggettiva. Sembra incredibile ma è così. Io ogni giorno vedo persone malate e sofferenti, che però in un certo senso mi regalano anche la meravigliosa opportunità di fare questa considerazione. Nella musica di The Magik Way la perdita di sé è fondamentale. C’è un momento in cui noi non siamo più noi. C’è un momento in cui io, Flavio, divento Nequam che è una sorta di alter ego, non un semplice nomignolo, o uno pseudonimo che viene da molto lontano (viene ancora dai miei trascorsi black metal). Anche in questo c’è stata poi una ricerca, ho cercato di capire chi fosse questo Nequam e ad un certo punto l’ho scoperto. Come vedi io non ho difficoltà a parlare in questo senso; diranno “questo è matto completamente”, in effetti sì, sono un po’ matto perché frequento anche certe compagnie sul lavoro, faccio il classico lavoro dove ti puoi camuffare e il matto vero sei tu. Ed è in parte vero. Comunque sì,  c’è assolutamente una zona d’ombra nei The Magik Way, nel nostro modo di scrivere e di comporre. Fra l’altro molti ci fanno i complimenti anche sulla resa degli arrangiamenti, molto mirati, molto ben fatti; stiamo leggendo delle recensioni incredibili che noi non ci aspettavamo neanche, ma la verità è che in realtà la nostra musica è anche molto ‘non completata’, è un po’ come una scultura, una… “Pietà Rondanini”.

SÌ, PENSAVO PROPRIO A QUEL MICHELANGELO, SICURAMENTE NON QUELLO PERFETTO, PLASTICO.
– Lungi da me paragonarci a tale grandezza, però l’approccio è proprio quello, anche di abbozzare; ad esempio con l’utilizzo di certi strumenti, dicevo prima la grancassa e il contrabbasso, che sono anche strumenti estremamente invadenti, che quindi vanno un po’ contenuti, ma neanche troppo… trovo la nostra musica molto sporca, potrebbe essere molto più leccata di così e invece è come se dentro ci fosse nonostante tutto il black metal, no? Dentro c’è quello schifo, quel marcio. Ne parlavo poco tempo fa con un mio carissimo amico, Davide Destro de La Colpa, una band straordinaria di Alessandria. Parlavamo di questa cosa che ormai il black metal è un sentore, non è più soltanto un genere musicale. Quindi c’è qualcosa di questo nella musica di The Magik Way secondo me, forse a partire dalla voce che sicuramente è la cosa più fastidiosa dell’intera proposta perché è molto invadente; ma questo fastidio, questo sporco, sono un po’ una caratteristica del nostro sound.

PERÒ SONO PROPRIO QUELLE ZONE D’OMBRA E LE SPIGOLATURE APPARENTEMENTE SOLO ABBOZZATE CHE IN REALTÀ EMOZIONANO E COLPISCONO. SULLA DISTANZA DAL BLACK METAL SEI STATO CHIARO ANCHE IN PASSATO, PERÒ VIENE ANCORA CITATO IN QUALCHE MODO. QUAL È IL TUO LEGAME CON L’ESTREMO? ASCOLTI ANCORA BLACK METAL, È ANCORA UN RIFERIMENTO, IN QUALCHE MODO?
– Ascolto black metal, certo. Diciamo che non è un riferimento sotto il profilo compositivo, ecco. C’è stato un momento storico in cui il black metal è diventato un po’ dogmatico, in cui mostrava il fianco al suo stesso limite. Poi invece è esploso, adesso ci sono mille sottogeneri e ognuno lo declina a suo modo, io sicuramente anche per un discorso cronologico sono molto legato al protoblack metal, quindi per me sono quelle le band di riferimento. Io sono molto legato a quelle sonorità e ricordo ovviamente l’esplosione del black metal norvegese, ma sinceramente lo ricordo come il secondo tempo di un qualcosa che già c’era, specialmente in Italia, tra l’altro. A quel punto i miei ascolti si erano già spostati e trovavo sinceramente alcune cose un po’ ripetitive. Purtroppo noi siamo colpiti da questo morbo che è il tentativo di clonazione delle band che hanno successo: parte una band che fa successo e poi per forza di cose ce ne devono essere altre tremila, e quindi si intasa tutto il sistema. Adesso ad esempio c’è il momento del revival del dark prog: questo ritorno della psichedelia, pur molto bello, non può però essere così ridondante. In quegli anni io sentivo molta ridondanza e allora ci siamo un po’ distaccati. Poi io mi sono preso anche una sbornia mica da ridere perché nei primi anni Duemila ho cominciato ad ascoltare musica d’avanguardia, sonorità estremamente diverse, quindi c’erano tutti questi suoni che venivano a solleticare la mia curiosità e io, essendo un curioso, mi sono fatto trascinare. Il black metal per me quindi ha una componente nostalgica, tornando a quel famoso protoblack metal, però lo ascolto ancora. Ci sono cose che mi piacciono, cose che trovo molto vere. Personalmente non amo il black con le chitarre ribassate e le superproduzioni, preferisco quello un po’ più sporco, un po’ più grezzo; quella sporcizia che come dicevo prima in un certo senso ritrovo anche nella volontà dei The Magik Way.

PARLAVI DI ALTRE SONORITÀ ESTREME CHE TI HANNO CONQUISTATO NEGLI ANNI. SCONTATO FARE RIFERIMENTO ALL’INDUSTRIAL, OVVIAMENTE QUELLO PRECEDENTE ALLE CHITARRE BOMBASTICHE DEI RAMMSTEIN. PENSO PIUTTOSTO AGLI EINSTURZENDE NEUBAUTEN, UNA BAND PER CUI IL COLLEGAMENTO TRA ARTI DIVERSE, IN PARTICOLARE QUELLE VISIVE E IL TEATRO, È FORTE. QUANTO CONTA PER VOI QUELLA DIMENSIONE, E – SPERANDO DI TORNARE SUI PALCHI – QUANTO INTENDETE FAR CRESCERE LA DIMENSIONE VISUALE DELLA VOSTRA MUSICA?
– Potrei rispondere “il più possibile”. Sono tanti anni che non suoniamo dal vivo se non in situazioni molto particolari, ormai abbiamo una visione di queste cose più da impresari teatrali, ragion per cui, specialmente in questi ultimi tre o quattro anni, abbiamo detto un sacco di no a molti festival: magari situazioni che ci lusingano, però dobbiamo assolutamente autolimitarci. Non siamo una band fatta per suonare mezz’ora alle tre di pomeriggio in un festival, anche se è veramente una sofferenza dire questa cosa, ma questa è la realtà e quindi dobbiamo pensare al nostro percorso e al nostro progetto. L’ambizione è quella di risalire assolutamente sul palco con uno spettacolo di musica, di teatro e di visual. In realtà i mezzi ci sono per fare questa cosa, non fosse altro che ormai da tanti anni collaboriamo anche con Alberto Malinverni: lasciamelo citare, perché è un amico e un artista veramente curioso ed entusiasta, si spende sempre tantissimo per le nostre follie. Come avete visto anche dai due video di presentazione, adesso siamo anche attorniati da professionisti nel campo della danza e della performance. Quindi capisci che tutti questi elementi messi insieme suggeriscono che ci sono le potenzialità per fare qualcosa di più serio, uno spettacolo vero e proprio. È inutile che io aggiunga la seconda parte del discorso che è quella più brutta, cioè la mancanza di spazi, la mancanza di possibilità, la mancanza di sponsor, anche. Non a caso parlavo di imprenditoria teatrale, che funziona in maniera molto diversa dal mondo della musica: bisogna fare un progetto completo a 360 gradi e poi proporlo. Devo dirti che parallelamente alla nostra attività discografica ci sono molti progetti in cantiere, già da anni, quindi la volontà c’è, ovviamente mancano determinate risorse, quelle ultime tessere del puzzle che poi renderebbero davvero possibile una cosa di questo tipo.

SPERIAMO IN BENE, DAVVERO; UNO SPETTACOLO A TUTTI GLI EFFETTI ‘VOSTRO’ SAREBBE NOTEVOLE. AVETE MAI PENSATO, O MAGARI NON È STATO PUBBLICIZZATO, DI MUSICARE SPETTACOLI TEATRALI O ADDIRITTURA FILM? NON SO SE ANCHE CON LA CINEMATOGRAFIA AVETE UN RAPPORTO APPASSIONATO, MA IMMAGINO DI SÌ, VISTA LA TUA CURIOSITÀ 360 GRADI.
– Certo, lo abbiamo fatto tantissimi anni fa con il “Dracula” del 1997 e anche “Cosmocaos” in realtà nasceva per essere la musica di un racconto, di un libro. Lo abbiamo fatto molto nel periodo 2000-2010, avevamo anche questo vizio di usare pseudonimi, proprio per complicare la storia; mi è capitato diverse volte di suonare in ensemble di musica dal vivo associati a pièce teatrali. Abbiamo fatto molte esperienze di questo tipo, anche se cinematograficamente no, devo dire la verità. Poi personalmente con Alberto Malinverni ho anche collaborato per la creazione di cortometraggi e delle loro colonne sonore, quindi è sicuramente un ambito che conosco, e ovviamente i miei compagni di merende mi aiutano nella composizione e nell’arrangiamento. Quindi per rispondere alla tua domanda, sì è un mondo che ci appartiene, sarebbe un sogno quello di musicare addirittura un film. È un po’ più complicato anche per un discorso di contatti, però non è da escludere. Adesso mi sto lanciando anche nella mia attività di voice over; quel matto di Roberto Mura di Third-I-Rex mi ha fatto fare la voce fuoricampo del documentario sul black metal italiano, quindi adesso sto diventando il Luca Ward dell’estremo.

PER IL FILM SPERIAMO IN UN ULTIMO COLPO DI CODA DI JODOROWSKY, CHE SAREBBE PERFETTO MUSICATO DA VOI.
– Eh, beh!

TI FACCIO UN’ULTIMA DOMANDA CHE È QUELLA PIÙ SCONTATA. HAI FATTO PACE CON QUELLO CHE NON TI PIACEVA INIZIALMENTE DE “IL RINATO”, AVETE PUBBLICATO UN ALBUM BELLISSIMO, VERAMENTE STRATIFICATO, CALEIDOSCOPICO, PUR NELLA SUA APPARENTE SEMPLICITÀ, CHE NON È UNA SINTESI DA POCO. COSA C’È IN CANTIERE PER IL FUTURO?
– Per il futuro, ci sono due o tre cose di cui non posso parlare, ma una cosa la posso dire perché ho visto che è stata pubblicata recentemente e ne approfitto per salutare dei cari amici. Presterò la mia voce in un brano dell’ultimo disco degli À Repit, cioè Simone Baù e Simone Delfino, che stanno uno al nord del Piemonte, l’altro in Val d’Aosta in mezzo alle montagne – li invidio tantissimo per questa cosa – e mi hanno chiesto di partecipare. Sempre nella fase di lockdown, ho registrato anche questo brano, credo che l’uscita sia tra pochissimo (il nuovo disco degli À Repit è nel frattempo uscito, ndR) e un altro paio di cose che sono davvero ancora in cantiere e quindi non posso ancora svelare.

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