Dopo averne decantato le gesta per anni (sia in studio che dal vivo), Metalitalia.com è finalmente riuscita ad intercettare il cantante/polistrumentista Alexander von Meilenwald per approfondire il discorso su quella che dai primi anni Duemila è la sua creatura principale. L’occasione ci è stata fornita da “The Thule Grimoires”, pubblicato lo scorso mese dall’affidabile Ván Records ed ennesima opera di valore all’interno di una carriera che ormai può fregiarsi del titolo di ‘esemplare’. Un album che vede il progetto The Ruins of Beverast abbandonarsi ad effluvi tenebrosi provenienti nientemeno che dalla scena dark wave e gothic rock degli anni Ottanta, e che nel segno di una spiccata ricerca melodica centra un traguardo artistico che non ci stupiremmo di vedere menzionato in molte classifiche di fine anno…
DOPO L’OTTIMO RESPONSO OTTENUTO DA “EXUVIA”, COME HAI APPROCCIATO IL SONGWRITING DEL NUOVO DISCO? CHE OBIETTIVI TI ERI PREPOSTO DI RAGGIUNGERE CON “THE THULE GRIMOIRES”?
– Non parlerei di ‘obiettivi’ legati ad un nuovo album. I The Ruins of Beverast non hanno obblighi lavorativi che prevedano ogni volta di surclassare quanto fatto in precedenza. “Exuvia” era un capitolo chiuso, motivo per cui mi sono semplicemente seduto raccogliendo tutte quelle nuove idee che avrebbero potuto rappresentare il volto della band. Questo è quanto, non c’erano altri obiettivi. “The Thule Grimoires” nasce da un processo di scrittura più tradizionale che forse è udibile nelle canzoni, ma che non era stato pianificato in anticipo. Si è svolto tutto in maniera naturale.
UNO DEI PRIMI ASPETTI A SALTARE ALL’ORECCHIO DURANTE L’ASCOLTO È L’AUMENTO DELLA MELODIA E DELLE VOCI PULITE; SEMBRA CHE PIÙ PASSANO GLI ANNI E PIÙ QUESTI ELEMENTI TROVINO UN RUOLO CENTRALE NELLA TUA MUSICA. COME TE LO SPIEGHI? IMMAGINO SI TRATTI DI UN PROCESSO SPONTANEO E NON DI QUALCOSA DI STUDIATO A TAVOLINO…
– Concordo sul fatto che “The Thule Grimoires” contenga più melodie di “Exuvia”, ma non credo si tratti di una modifica sostanziale alla musica dei The Ruins of Beverast. Ho sempre usato melodie negli strumenti e nella voce – a volte di più, a volte di meno – senza starci troppo a pensare. Immagino che nell’ultimo disco possano risultare più prominenti per via dei suoni scelti. Le voci pulite sono state prodotte in modo più naturale, mentre il suono delle chitarre è stato qualcosa a cui ho dedicato molto tempo e impegno questa volta, cosa che suppongo le faccia sembrare più elementari.
DATA LA LORO LUNGHEZZA, COME NASCONO SOLITAMENTE LE TUE CANZONI?
– Il procedimento varia a seconda del brano. La maggior parte però nasce convenzionalmente da un riff di chitarra. A volte scopro un suono o un campione vocale che possiede le qualità ritmiche e melodiche per funzionare da base per la canzone, e da lì parto con la costruzione del resto. Spesso compongo prima il finale o l’inizio di un brano, per poi lavorare sulla parte centrale. Presumo di non essere l’unico musicista a lavorare in questa maniera.
SEMPRE A PROPOSITO DI MELODIA, HO AVVERTITO MOLTI RIMANDI ALLA DARK WAVE DEGLI ANNI OTTANTA… SEI UN FAN DI QUELLA SCENA? È STATO DIFFICILE MISCELARE LE SUE CARATTERISTICHE CON IL TUO BACKGROUND BLACK/DOOM SENZA SNATURARE NESSUNA DELLE DUE COMPONENTI?
– La mia crescita musicale è iniziata con il lato oscuro degli anni Ottanta. È stato il primo tipo di musica che ho consumato in maniera assidua e sensata prima di scoprire il metal, e sono sicuro che abbia poi avuto un forte impatto sulle mie creazioni. A costo di ripetermi, ti dico che non lo sperimento coscientemente mentre scrivo, né posso controllarlo. A volte, quando ascolto un demo finito o una canzone registrata, capita che certi ricordi della mia adolescenza musicale riaffiorino, e questa è una cosa che mi piace molto. Ma non posso dire come ciò avvenga all’atto pratico. Quindi, se all’interno di The Ruins Of Beverast esiste una miscela di metal e sonorità oscure degli anni Ottanta, questa prende forma spontaneamente e inconsciamente. Non posso nemmeno dirti se è difficile combinare fra loro questi elementi. Apparentemente non lo è.
DA UN PUNTO DI VISTA LIRICO, QUAL È IL CONCEPT DEL DISCO?
– È una storia di fantasia su sette libri (che compongono i grimori del titolo e che determinano anche il numero di canzoni dell’album) ritrovati in altrettanti luoghi inabitabili per l’uomo. L’isola di Thule è sempre stata oggetto di controversia storiografica, ed è rimasta indefinita e non localizzata fino ad oggi. Questo l’ha resa una sorta di collante, di simbolo comune, per il concept del disco. I grimori contengono un linguaggio sconosciuto che sembra far riferimento all’eliminazione dell’essere umano dalla Terra, come sperimentato nei suddetti luoghi. Non si sa chi li abbia scritti o chi li abbia messi lì.
PER ANNI HAI REGISTRATO E PRODOTTO I DISCHI DEI THE RUINS OF BEVERAST DA SOLO, POI – A PARTIRE DAL 2017 – HAI INIZIATO A LAVORARE CON MICHAEL ZECH (ASCENSION, SECRETS OF THE MOON, TRIPTYKIN, ECC.). COSA TI HA SPINTO A PRENDERE QUESTA DECISIONE?
– Si è trattato fondamentalmente dello stesso tipo di decisione che mi ha spinto a coinvolgerlo nella line-up dal vivo della band. Condividiamo una visione molto simile dell’arte, della forma e del potere della musica, e Michael conosce i The Ruins of Beverast fin nelle loro viscere. E dato che parliamo di un produttore eccellente, ho colto l’occasione di averlo vicino per aggiungere elementi e colori alla musica che i miei limiti tecnici non mi avrebbero permesso di ottenere lavorando da solo. È pur vero però che se non lo avessi incontrato avrei continuato a fare tutto da solo. Non ho mai cercato attivamente uno studio professionale in cui registrare.
LO SCORSO ANNO HAI RILASCIATO DUE SPLIT IN COMPAGNIA DI MOURNING BELOVETH E ALMYRKVI. NON È LA PRIMA VOLTA CHE RICORRI A QUESTO TIPO DI FORMATO, PER CUI MI DOMANDAVO SE PER TE AVESSE UN SIGNIFICATO SPECIALE O PARTICOLARE…
– Penso si tratti di un mio retaggio dei primi anni Novanta, quando gli split testimoniavano un forte legame tra band dell’underground estremo. È un fatto positivo che i gruppi oggigiorno apprezzino ancora questo formato, anche se da un punto di vista strettamente musicale è diventata una faccenda complicata per noi. Le canzoni dei The Ruins of Beverast si estendono su minutaggi importanti e di conseguenza possono risultare troppo lunghe per uno spazio limitato. Tuttavia, Almyrkvi e Mourning Beloveth sono stati i partner di scissione perfetti in questo senso, e certamente anche a livello musicale posso dire lo stesso.
‘GOTICO’ È SPESSO SINONIMO DI CATTIVO GUSTO NELLA SCENA METAL, MA TU RIESCI SEMPRE A TRATTARLO CON MOLTA ELEGANZA E PROFONDITÀ. COSA TI AFFASCINA DI QUESTA CORRENTE ARTISTICA E QUALI SONO I TUOI PUNTI DI RIFERIMENTO (MUSICALI, LETTERARI, ECC.)?
– Non credo che i The Ruins of Beverast siano effettivamente vicini a qualcosa di ‘gotico’. Voglio dire, non ho dubbi sulla mia preferenza per Christian Death o The Sisters of Mercy, ma non vedo alcun impatto di quello che oggi è considerato uno stile musicale ‘gotico’ sulla nostra musica.
CHE TIPO DI EMOZIONI VORRESTI SUSCITARE CON LA TUA MUSICA? I THE RUINS OF BEVERAST SONO SINONIMO DI QUALCHE SENTIMENTO SPECIFICO?
– Dissolvere la luce naturale attorno all’ascoltatore e sostituirla con colori sconosciuti, calarlo in scenari di favole surreali e sconfortanti, dipingere paesaggi lugubri, evocare temporali e il rumore della natura selvaggia. Tutto ciò che riesce a fargli dimenticare di ascoltare un album o di essere di fronte a dei musicisti.
SE TI GUARDI INDIETRO, CHE IDEA AVEVI QUANDO HAI INIZIATO A PENSARE ALLA MUSICA DEI THE RUINS OF BEVERAST E ALLA DIREZIONE STILISTICA DA INTRAPRENDERE? E QUAL È LA TUA VISIONE OGGIGIORNO?
– Ai tempi del primo demo la mia visione era sicuramente diversa, dato che era ampiamente dettata dai miei ricordi dei primi anni Novanta, quando sono entrato in contatto con tutto ciò che avrebbe guidato il mio percorso musicale da quel momento in poi. Tuttavia, il mio approccio verso i The Ruins of Beverast non è cambiato drasticamente dall’era “Unlock The Shrine” ad oggi. Credo che gli orizzonti musicali e gli output, come scritto sopra, siano rimasti stabili da allora. E dato che non ho mai lavorato seguendo direttive aziendali o il soddisfacimento delle aspettative di qualcuno, ho potuto rimanere fedele a quella che era la mia idea iniziale di lavoro. E ho intenzione di continuare così, visto che sono un sostenitore di marchi musicali notevoli e distintivi.
LA LINE-UP CHE TI ACCOMPAGNA DAL VIVO È SOLIDA E STABILE DA CIRCA DIECI ANNI. HAI MAI PENSATO DI INCLUDERE UFFICIALMENTE GLI ALTRI RAGAZZI NELLA BAND?
– No. La formazione è stabile perché nel corso degli anni siamo diventati amici e condividiamo molto. Tuttavia, il volto dal vivo dei The Ruins of Beverast è separato dall’entità in studio. Primo, perché tutti i ragazzi hanno le loro band principali in cui sono già la forza creativa trainante. Secondo, sono un partner molto poco congeniale quando si tratta di scrivere canzoni. Voglio dire, è stato questo il motivo principale per cui ho lavorato da solo dopo la scissione di Nagelfar. Ho una visione lucida e un approccio molto bizzarro verso la creazione di musica, e trovo difficile accettare ulteriori posizioni in merito. E poiché viviamo a una certa distanzagli uni dagli altri, dovremmo comunque scrivere canzoni online in modo impersonale, e questa non è assolutamente un’opzione.
QUALCHE ANNO FA HAI REGISTRATO UNA COVER DI “SET THE CONTROLS FOR THE HEART OF THE SUN”, PER CUI TI CHIEDO: QUAL È IL TUO DISCO PREFERITO DEI PINK FLOYD? E PERCHÈ?
– È una domanda molto difficile. Non mi piace pensare in termini superlativi, davvero, e non so se ho un album dei Pink Floyd ‘preferito’. L’album che ascolto più frequentemente è “A Saucerful Of Secrets”: non solo perché contiene “Set The Controls …”, ma anche perchè è un mélange perfetto dello strano mondo di Syd Barrett e degli esperimenti psichedelici che seguiranno poi. Cito anche la parte in studio di “Ummagumma”, perché è un album molto coraggioso con una miriade di cose da scoprire, e “Sysyphus” di Rick Wright è sicuramente uno dei picchi della discografia dei Pink Floyd, nella mia mente.