THREESTEPSTOTHEOCEAN – Ossessioni senza voce

Pubblicato il 04/11/2020 da

Il nuovo disco “Del Fuoco” ha segnato il comeback discografico dei lombardi threestepstotheocean, formazione tra le più interessanti, e a questo punto della loro storia anche longeve, fuoriuscite dal folto sottobosco post-metal nato una quindicina di anni fa nelle lande tricolori. Con una maturità compositiva sempre più marcata ed un appeal forse divenuto più orecchiabile e accessibile, considerando che stiamo scrivendo di una band strumentale, il combo milanese si distingue dalla massa senza difficoltà, pur mantenendo ben saldi i piedi per terra, come dimostrano ampiamente le parole rilasciateci in corso di intervista da quasi tutto il quartetto al completo. Sentiamo cos’hanno da dirci Andrea, Francesco e Giacomo in merito al presente della loro creatura…

 

CIAO RAGAZZI, ECCOVI DI NUOVO OSPITI DI METALITALIA.COM! PER LA PRIMA VOLTA NELLA VOSTRA CARRIERA, È TRASCORSO UN BEL LASSO DI TEMPO, CINQUE ANNI, TRA UNA RELEASE E L’ALTRA. NON CHE ABBIATE MAI COMPOSTO COSE DI FRETTA, MA EFFETTIVAMENTE NON GIRAVA IL NOME DA UN BEL PO’. COSA AVETE FATTO IN QUESTO PERIODO E COME E QUANDO VI SIETE APPROCCIATI ALLA REALIZZAZIONE DEL NUOVO DISCO?
Andrea Sacchetti (chitarra) – Ciao Marco, come sempre è un piacere sentirti. Musicalmente siamo una band noiosamente normale, ci troviamo in sala prove una volta a settimana per preparare i live o per cercare di tirare fuori qualcosa che ci soddisfi. In questi cinque anni sono cambiate, come per tutti, le nostre vite. Di conseguenza diventa sempre più impegnativo incastrare le proprie priorità private con gli impegni musicali. Aggiungiamoci che non siamo mai stati dei fulmini a comporre e cinque anni passano in fretta.

A PARTE GLI ANNOSI PROBLEMI CON I BASSISTI, DATE L’IMPRESSIONE DA SEMPRE DI ESSERE UNA FORMAZIONE MOLTO COMPATTA E DEMOCRATICA. FORSE È COMUNE A TUTTE LE BAND STRUMENTALI, L’ASSENZA DI UN FRONTMAN ANNULLA APPARENTEMENTE, ALMENO DAL DI FUORI, LE VARIE GERARCHIE CHE POSSONO VENIRE A CREARSI IN UN GRUPPO. MA FRA DI VOI IN REALTÀ COME FUNZIONA? CHI COMPONE DI PIÙ, CHI HA PIÙ VOCE IN CAPITOLO IN DETERMINATE SCELTE?
Giacomo Rogora (basso) – Rispondo io che faccio parte della ‘categoria’. Sono nella band dal 2015 e quello che dici è vero. Tra di noi non ci sono gerarchie. Ognuno ha la sua dimensione all’interno della band, ma musicalmente funzioniamo ‘in blocco’. Non credo sia dovuto all’assenza di un frontman, se per frontman indichiamo una voce, quanto piuttosto al grande lavoro di condivisione, ascolto e confronto – anche aspro – tra di noi. Parliamo molto, ecco tutto. Dedicando molto tempo a questo prezioso confronto, succede che quando prendiamo gli strumenti lasciamo poi spazio all’istinto e ai risultati di quel discutere. Uno parte e gli altri seguono, poi un altro e così via, magari continuando a lavorare su un riff, una melodia, un ‘concetto’ o un suono particolare. Nulla di trascendentale o innovativo, come diceva Andrea: siamo noiosamente normali.

VENIAMO AL NUOVO ALBUM: A CONTI FATTI E DOPO VARI ASCOLTI, PARE PROPRIO ETICHETTABILE COME IL VOSTRO LAVORO PIÙ MATURO E, SOTTO CERTI ASPETTI, ESPRESSIVO. DEVO DIRE CHE, MAI COME IN “DEL FUOCO”, L’AMALGAMA TRA CHITARRE ED ELETTRONICA/SYNTH RISULTA ORGANICA ED INTEGRATA. C’È STATO UN APPROCCIO DIVERSO IN SEDE DI COMPOSIZIONE? OPPURE AVEVATE DEGLI OBIETTIVI PRECISI UNA VOLTA COMINCIATA LA STESURA DEI PEZZI?
Giacomo – Con il senno del poi c’è un aspetto compositivo che caratterizza particolarmente “Del Fuoco”: ci abbiamo impiegato cinque anni per generarlo. Alcuni brani ce li portiamo dietro da molto, almeno il loro nocciolo, altri sono arrivati a pochi giorni dallo studio. In questo lungo percorso non avevamo un chiaro obiettivo in mente, se non quello di continuare a sviluppare un suono sempre più personale e, per quanto possibile, non derivativo. Molto hanno fatto gli ascolti e le ricerche personali di ciascuno. In ultimo, io ho sempre pensato a “Del Fuoco” come a un lavoro ‘non creativo’, se per creativo intendiamo le soluzioni complesse, i cambi tempo, gli incastri, che ad esempio erano propri di “Migration Light” (il lavoro precedente, del 2015, ndR). É un disco più ossessivo e ridondante, dove tutto torna molto spesso uguale a se stesso, sebbene con piccoli dettagli e complessità di cui noi stessi ci siamo accorti solo una volta entrati in studio. Melodie e riffing sottolineano bene questo aspetto. Il risultato rispecchia esattamente il processo che lo ha prodotto.
Andrea – Assolutamente d’accordo con Giacomo, “Migration Light” era più ragionato. Si sente che avevamo più tempo e voglia di arricchire e studiare determinati arrangiamenti. Componendo i brani di “Del Fuoco”, invece, avevamo la necessità di stare in quel mood ossessivo, quasi – passami il termine – rituale e ridondante. Parecchio lavoro di arrangiamento ha spesso portato alla semplificazione, per mantenere inalterato questo mood, quindi sottraendo piuttosto che aggiungendo.

SIETE NOTORIAMENTE (ALMENO, PER CHI VI CONOSCE BENE) UNA FORMAZIONE CON UN SOUND DEFINITO FIN DAGLI ESORDI, MA CHE COMUNQUE SPERIMENTA MOLTO CON EFFETTISTICA, QUANDO IN STUDIO E CHE AZZARDA L’UTILIZZO DI STRUMENTI ATIPICI. COM’È ANDATA QUESTA VOLTA?
Francesco Tosi (synth/effettistica) – Come negli altri casi, è un disco molto poco ‘prodotto’. Cerchiamo sempre di arrivare in studio con le idee più chiare possibile, lasciando volutamente qualche buco per sperimentare con l’attrezzatura in loco, per non chiuderci troppo dentro un piano prestabilito. Poi si suona tutti insieme, senza metronomo, conserviamo basso e batteria, ri-suoniamo le chitarre e se necessario le tastiere. In “Del Fuoco” abbiamo aggiunto anche qualcosa di atipico, come la darbuka su “Dal Deserto” e percussioni/sonagli un po’ su tutto il disco. Credo che andremo sempre di più in quella direzione. “Canto Ai Vivi” è stata fatta completamente in studio, pur sapendo di volerla poi riproporre anche live.
Andrea – Ci piacerebbe sperimentare di più, sia con gli strumenti sia con eventuali featuring, ma ci scontriamo sempre con il nostro dogma di voler portare il disco live il più fedelmente possibile.

UN’ALTRA COSA CHE BALZA ALL’OCCHIO PIUTTOSTO IN FRETTA È L’UTILIZZO DELLA LINGUA ITALIANA PER I TITOLI DI ALBUM E CANZONI. PER UNA BAND STRUMENTALE QUESTA SCELTA È DA UNA PARTE POCO IMPATTANTE, NON ESSENDOCI POI TESTI E CANTATO, MA DALL’ALTRA POTREBBE ESSERE IN QUALCHE MODO ‘AZZARDATA’. COME AVETE DECISO? E C’È UN FIL ROUGE CHE COLLEGA I VARI BRANI A LIVELLO CONCETTUALE, COME ESISTEVA PER I DISCHI PRECEDENTI?
Giacomo – La scelta dell’italiano per i titoli e in generale per i ‘contenuti verbali’ del disco è arrivata spontanea. “Del Fuoco” è un album che sentiamo come molto personale e intimo. Per rappresentare questa idea non potevamo che usare la nostra lingua. Dal punto di vista dello storytelling, in realtà i titoli non cercano di raccontare un vero e proprio concept. Sono però legati da una sorta di vocabolario ricorrente che sentivamo emergere mano a mano che chiudevamo i brani: rituale, trasformazione, cambiamento, rottura, tensione, ossessione, fatica. Pensiamo che unendo suoni, parole e immagini, il disco possa raccontare una storia senza trama.

LA COPERTINA, AL SOLITO, È MOLTO PARTICOLARE E DEVO DIRE STUPENDA. SI APPREZZA BENE IL COLLEGAMENTO TRA LA VOLPE E IL ‘FUOCO’ DEL TITOLO, IN QUANTO QUELL’ARANCIO-ROSSO DELL’ANIMALE RICORDA IL COLORE DEL FUOCO, MA CE LA VOLETE DESCRIVERE MEGLIO?
Francesco – Tutto il concept grafico è stato gestito da Riccardo Giacomin, che è il chitarrista degli ottimi There Will Be Blood e, dettaglio non da poco, carissimo amico. Riccardo ha diverse qualità: è un vero artista, è un ascoltatore vorace e attento (di musica, ma anche di parole), e infine è un vulcano di idee. Per la copertina noi avevamo delle suggestioni di immagini in testa, qualcosa di complementare e schematico rispetto alle sensazioni e al suono del disco. E poi avevamo il titolo, “Del Fuoco”, nient’altro. E’ stato lui a proporci quella immagine, che pur essendo sgranata, apparentemente anonima…aveva dentro tutto: la volpe in un comportamento strano e sfuggente, una natura illeggibile e, sullo sfondo, il sarcofago del reattore di Chernobyl. Non c’è nessuna volontà nostra di rimando a quello specifico avvenimento, ma semplicemente in quella foto, in quello specifico ambiente e in quello specifico attimo, ci abbiamo visto una potenza pazzesca, una tensione, qualcosa di greve, misterioso, imprendibile. Ci abbiamo messo pochissimo a decidere che quella fosse la copertina di questo disco.

NELLA VOSTRA MUSICA, PUR ESSENDO, COME GIÀ RIPETUTO, ORMAI MOLTO PERSONALE E RICERCATA E ANCHE POCO ETICHETTABILE, SI SENTONO ECHI DI SVARIATE INFLUENZE TRA CUI BLACK METAL E POST-BLACK, AMERICANA, POST (CON TUTTO QUELLO CHE COMPRENDE), NOISE, PROGRESSIVE, DOOM… DOVESTE DESCRIVERE LA VOSTRA PROPOSTA AD UN LETTORE CHE NON VI CONOSCE, QUALI TERMINI DI PARAGONE USERESTE? INSOMMA, FATE UN PO’ I GIORNALISTI MUSICALI…
Francesco – Non ne abbiamo la minima idea. Rock strumentale è troppo vago?

UNA DOMANDA CHE STO FACENDO A TUTTI I GRUPPI INTERVISTATI DA CIRCA UN ANNO A QUESTA PARTE: ELENCATE I CINQUE DISCHI SENZA I QUALI I THREESTEPSTOTHEOCEAN NON SAREBBERO MAI ESISTITI E CHE PIÙ SONO ALLA BASE DEL VOSTRO PROCESSO CREATIVO…
Giacomo – Impossibile dare una risposta ‘giusta’ a questa domanda. Io posso dirti che il motivo che mi ha portato ad avvicinarmi alla musica strumentale, compresi gli stessi TSTTO, sono stati i Russian Circles del disco “Geneva”. Ancora oggi, che non ascolto più molto spesso il cosiddetto ‘post’, lo stile di Brian Cook mi ispira molto. Al contrario, recentemente ascolto tantissimo folk, nordico in particolare, e in generale musica etnica extra-occidentale, e credo sia un mix di questi approcci a caratterizzare il mio contributo nel disco. Lascio agli altri la parola.
Francesco – Senza i Deftones non credo saremmo esistiti come band.
Andrea – La vera folgorazione forse sono stati gli Isis con “Panopticon” e i Cult Of Luna con “Somewhere Along The Highway”, per anni abbiamo pensato ‘vogliamo fare una roba così’. Negli ultimi anni ognuno di noi ha sviluppato i propri gusti e i propri ascolti, a volte riusciamo ad influenzarci a vicenda, altre volte no. Ad esempio io mi sono consumato l’ultimo dei Birds In Row, e probabilmente piace solo a me.

IMPOSSIBILE NON FARVI UNA DOMANDA SU COME AVETE VISSUTO QUESTO ANNO PARTICOLARISSIMO SOTTO TUTTI I PUNTI DI VISTA, COME AVETE GESTITO IL LOCKDOWN E COME SIETE GIUNTI ALLA DECISIONE DI PUBBLICARE COMUNQUE UN DISCO IN TALE SITUAZIONE DI INCERTEZZA PERMANENTE…
Andrea – Da una parte siamo contenti di essere riusciti a registrare e mixare il disco prima del lockdown; dall’altra c’è stata parecchia frustrazione nell’essere costretti a perdere ancora del tempo prima di poter far uscire il disco e tornare a fare live (le risposte all’intervista sono giunte verso metà ottobre, quando ancora la situazione non era precipitata nuovamente, ndR). Assieme ad Antigony Records abbiamo cercato di sfruttare questo periodo per pianificare le uscite dei singoli (cosa che non abbiamo mai fatto prima e di cui eravamo anche un po’ spaventati) e tutto il lavoro di promozione. A livello personale abbiamo fatto come tutti: ci siamo chiusi in casa e abbiamo aspettato che finisse per poter rivederci e riprendere in mano gli strumenti.

CONCLUDIAMO L’INTERVISTA CHIEDENDOVI COME VI STATE ATTREZZANDO PER AFFRONTARE L’IMMINENTE FUTURO CON IL DISCO APPENA USCITO, L’ATTIVITÀ PROMOZIONALE ATIPICA DA PORTARE AVANTI E L’IMPOSSIBILITÀ AD OGGI DI PROMUOVERLO DAL VIVO…
Andrea – Come ti raccontavo sopra, siamo una band poco atipica e la composizione del disco ha come fine ultimo quello di poterlo suonare dal vivo. Al momento non abbiamo altre idee e ci ritroviamo per fare le prove e preparare i concerti. Se la situazione dovesse peggiorare ancora, forse inizieremo a pensare a qualcosa di alternativo, magari scriveremo un disco folk via Skype!

Link Bandcamp: http://threestepstotheocean.bandcamp.com/

 

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