Trevor è tornato alla carica! Non con i suoi Sadist, che intanto sono al lavoro su nuovo materiale, bensì torna a farsi sentire con un album, “Road To Nowhere” , che si pone in netto contrasto rispetto allo stile in cui siamo abituati a sentirlo. Un disco concepito con una band composta da dei musicisti, i suoi “lupi” appunto, che, oltre alle capacità tecniche, hanno dovuto dimostrare di poter rispecchiare al meglio lo stile e i contenuti di questo lavoro in cui il cantante ha voluto esprimere molto di sé, delle proprie esperienze e delle sue radici musicali e non. Abbiamo colto l’occasione per fargli qualche domanda riguardo questo nuovo progetto e questa sua nuova veste da buono… o quasi.
ARTISTICAMENTE PARLANDO “ROAD TO NOWHERE” È LA NEMESI DELLO STILE CHE CONTRADDISTINGUE I SADIST, SENTIVI IL BISOGNO DI TORNARE A ESPRIMERTI IN MANIERA PIÙ DIRETTA E PERSONALE? COME MAI?
– Sicuramente death metal e rock duro sono distanti, nonostante il death e tutti gli altri sottogeneri sono derivanti dal rock. La musica, i temi affrontati hanno di sicuro cambiato volto, anche se bisogna sempre tener conto dei precursori. Quanto alla mia storia, ho vissuto con tutta probabilità gli anni migliori dell’hard’n’heavy: gli Eighties; i miei coscritti potranno confermare. Lungi da me essere nostalgico, ma tutti noi eravamo pronti da mesi ad accogliere una nuova uscita o l’arrivo di un concerto. E’ cambiato tutto, è normale, il mondo va avanti e guardarsi dietro non ti porta lontano. Oggi chi ascolta musica lo fa diversamente, anche l’arte è stata risucchiata dalla frenesia dei giorni nostri. Tornando a “Road to Nowhere”, è un album frutto della mia curiosità, quella di fare qualcosa di alternativo a quello che già fai, non credo avrebbe avuto senso mettere in piedi il mio progetto solista e fare cose in stile Sadist. Sono cresciuto con le grandi band del passato e mi emozionava fare qualche passo indietro nella mia storia di cantante, di metalkid, di ascoltatore. Si tratta di un album diretto, genuino, dannatamente hard’n’heavy!
CI SON STATE DIFFICOLTÀ A CALARSI IN QUESTO GENERE DOPO TANTI ANNI DI SOUND DIVERSO? ANCHE A LIVELLO TECNICO, INTENDO, CANTI IN MODO DIVERSO.
– Sono un cantante death metal ormai da trent’anni, di certo non intendo provare a cantare diversamente, quello è il mio mondo e lo sarà per sempre. Tuttavia, il genere di Trevor And The Wolves richiedeva una voce leggermente più morbida: per questo motivo mi sono cimentato in altre soluzioni. Per una volta ho provato a fare il bravo bambino… o quasi.
CHI SONO I “LUPI” CHE T’ACCOMPAGNANO IN QUESTA AVVENTURA? SON STATI SCELTI PER MOTIVI PARTICOLARI, OLTRE ALLE LORO CAPACITÀ TECNICHE?
– Quando ho pensato a quest’albu,m in primis la mia intenzione era di fare il percorso con musicisti che prima di essere preparati tecnicamente fossero amici. Suonare rappresenta trascorrere molto tempo insieme, per questo motivo non potrei assolutamente pensare di condividere questa mia grande passione con persone distaccate. La scelta dei “miei Wolves” è ricaduta su grandi amici, con cui condivido buona parte del mio tempo libero. Francesco Martini è un giovane chitarrista, tecnicamente molto preparato, entusiasta di natura, sono certo che farà una grande carriera, ha la testa giusta per potersi affermare. Le stesse parole valgono per Emanuele Peccorini: la prima volta che lo vidi dietro le pelli ho pensato “lui sarà il mio batterista”. Per Alberto Laiolo e Antonio Aluigi, rispettivamente chitarra e basso, fare questo cammino insieme era doveroso, sono amici di vecchia data, musicisti che non si risparmiano, sia sopra sia sotto il palco; questo era quello che cercavo e posso ritenermi più che soddisfatto. Trevor And The Wolves è il mio progetto che ho voluto condividere con le persone a me care. Le registrazioni il mixing e il mastering sono stati curati da Tommy Talamanca: il rapporto tra me e Tommy va ben oltre l’amicizia. Le sessioni di foto da Ennio Parodi, mentre il videoclip di “Burn at Sunrise” da Matteo Siri; si tratta di grandi amici professionalmente inattaccabili, entrambi hanno fatto un grandissimo lavoro. La grafica invece è stata realizzata da Eloisa Parodi e Manuel Del Bono, due giovani talenti. Ho coronato il mio sogno, eccomi qui con grande voglia e umiltà, la stessa di sempre. Questa è la magia della nostra musica.
A PROPOSITO DI MUSICISTI: L’ALBUM È RICCO DI COLLABORAZIONI, ANCHE ECCELLENTI, COSA CI PUOI RACCONTARE A RIGUARDO? COM’È STATO LAVORARE CON LORO?
– Riguardo ai guest, ho avuto la fortuna di avere con me grandi musicisti che hanno arricchito il disco con la loro indiscutibile arte. Christian Meyer, drummer di Elio e le Storie Tese, non lo scopriamo di certo oggi: rappresenta uno dei migliori batteristi in circolazione. Ci conosciamo da diverso tempo, siamo buoni amici; giudicare Christian per la sua tecnica è superfluo, quello che posso confermare è che i grandi musicisti si distinguono soprattutto per la grande umiltà e disponibilità. Le stesse parole valgono per Stefano Cabrera dei Gnu Quartet, si tratta di uno dei migliori compositori contemporanei, un vero talento, ha stravolto positivamente il brano che ha firmato. Che dire di Paolo Bonfanti: se il blues vive ancora oggi nel nostro paese lo si deve a persone come Paolo, eclettico chitarrista che fa del suo entusiasmo il marchio di fabbrica. Vi invito poi ad ascoltare quello che ha fatto Grazia Quaranta, sempre per rimanere in tema di blues: voci come quella di Grazia non si trovano tutti i giorni, anzi sono certo che cantanti di tale levatura ce ne siano poche in giro. Avevo poi bisogno di qualche strumento tipico per il brano “Red Beer”, incentrato su una rissa all’interno di un pub sito nel porto di Glasgow: volevo una cornamusa e una ghironda, Daniele Barbarossa dei Winterage e Francesco Chinchella si sono messi a disposizione, facendo un grande lavoro. Credetemi, ognuno degli ospiti mi ha impressionato, sono tutti musicisti incredibili, è stato bellissimo lavorare fianco a loro. Professionali, geniali, semplicemente unici.
QUAL È IL BRANO DEL DISCO CHE ESPRIME MEGLIO L’ESSENZA DI QUESTO NUOVO PROGETTO?
– “Road to Nowhere” è un album omogeneo, potrei fare il nome di più brani, mi piace pensare però a due canzoni in particolare: la prima è “Burn At Sunrise”, che è anche il videoclip, dove è rappresentata una mia giornata tipo, una di quelle lontano dal lavoro musica. La seconda è “Unforgivable Mistake”, brano che chiude il disco e di fatto anche il lungo viaggio che mi ha portato in giro per il mondo, ma che una volta ancora mi ha confermato che non ci sono partenze piacevoli quanto il ritorno a casa. Non ho mai pensato a lasciare il mio piccolo paese, sarebbe un imperdonabile errore, le radici ti legano per sempre!
I TREVOR AND THE WOLVES NASCONO SOLO COME ESIGENZA MOMENTANEA? CI POSSIAMO ASPETTARE UN SEGUITO A QUESTA RELEASE?
– Non posso pensare a un progetto con regolare e breve scadenza. Sono una persona che si cala nelle realtà con tutto sé stesso. Proprio per questo motivo faccio fatica a considerare una mia creazione come un solo studio project momentaneo. E’ prematuro parlare oggi di un seguito di “Road to Nowhere”, anche perché stiamo iniziando a lavorare sul nuovo album dei Sadist e il tempo a disposizione è sempre meno. Sono certo comunque che “Road to Nowhere” non sarà un capitolo isolato. Al solo pensiero di un altro album mi emoziono, specie pensando a nuovi riff e prossime tematiche da affrontare. Dannata musica, sfuggente e desiderata.
INTANTO PER “ROAD TO NOWHERE” AVETE PIANIFICATO UN TOUR O QUALCHE DATA SPECIALE?
– Il tour è iniziato il 16 febbraio da Viareggio. Una volta che ho avuto garanzie da parte di Nadir Music e Audioglobe sulla data d’uscita ho iniziato a pensare ai live. A oggi sono stati confermati i primi dieci concerti e altri sono in fase di definizione. Faremo un bel giro: Viareggio, Milano, Firenze, Padova, Genova, Savona, Alessandria, Mantova, Pisa, Torino. Anche se per ovvi motivi la data che attendo con più emozione e trasporto è la presentazione dell’album al “Cinema Comunale” nella mia Rossiglione. Inutile dire che per il sottoscritto rappresenta portare a casa la tua musica. Sono molto legato al mio paese, suonare davanti agli amici, conterranei è bellissimo. Il proverbio dice “mai profeti in patria”: io mi sento coccolato e amato da tutti gli abitanti della mia valle e questo mi fa sentire molto bene.
NEL VIDEO DI “BURN AT SUNRISE” SEI COSTANTEMENTE IMMERSO NELLA NATURA. QUANTO CONTA PER TE IL CONTATTO CON ESSA?
– Credimi, non potrei mai pensare di abitare lontano dalla natura e dai miei boschi. Vivere a stretto contatto con questi posti significa tanto. Nei momenti più brutti della mia vita ho trovato l’ancora di salvezza nella natura, nella maestosità della montagna, nel silenzio. Per ovvi motivi di lavoro mi muovo spesso, a volte mi trovo a condividere le mie giornate in grandi città, ma una cosa è certa: non potrei mai pensare di viverci. Questo non vuole essere una sfida verso niente e nessuno, è solo il mio punto di vista. Come dico sempre: il mondo è bello perché vario. Fortunatamente ognuno di noi può decidere su come impostare la propria giornata a suo piacimento. Come detto pocanzi, “Burn at Sunrise” ha ripreso una delle mie giornate nel bosco: mi piace prendermi cura del verde che circonda la mia casa. Poi, se proprio si vuole, la motosega è una macchina che si accosta perfettamente al cinema horror di cui sono un grande appassionato.
DOPO UN ALBUM STILISTICAMENTE RIVOLTO AL PASSATO E DA FRUITORE DEL BOOM DELLA MUSICA HEAVY NEGLI ANNI OTTANTA, COME VEDI IL FUTURO DEL NOSTRO GENERE, INTESO DAL ROCK AL METAL, E DELLA MUSICA IN GENERALE? CI SARÀ QUALCHE ALTRA SCOSSA COME IL ROCK SEPPE FARE?
– Domanda cui è difficile trovare risposta. Sono in difficoltà, ci provo da buon amante delle sfide. Credo che il rock sia da sempre sinonimo di ribellione: oggi non siamo così arrabbiati per vivere questa musica appieno. La globalizzazione miete vittime e anche la nostra musica è rimasta agganciata a questo fenomeno storico; fare dietrologia porta poco lontano, ma è pur vero che gli anni migliori del rock e metal sono stati quelli dove si credeva fortemente in qualcosa, che poteva essere politica o diritti sociali. Oggi siamo disinteressati a tutto. Per tornare agli anni Settanta/Ottanta dovremmo scrollarci di dosso questa stucchevole omogeneità, cercando di mettere fuori il naso di casa e pensare di essere meno buonisti.