TRIVIUM – Nella corte del drago

Pubblicato il 08/10/2021 da

Avere la forza di ribaltare lo stallo conseguente alla pandemia e sfruttarlo al massimo è stato un grandissimo punto a favore dei Trivium, che non solo hanno avuto la lucidità di leggere velocemente la situazione, ma hanno anche avuto il coraggio di investire sui loro stessi per farsi trovare pronti quando tutto sarà tornato come prima. Ecco quindi l’acquisto di un hangar abbandonato che hanno rinnovato per farlo diventare il quartier generale del gruppo, completo di spazio per le prove, studio di registrazione, sala concerti, magazzino e chissà cos’altro. Ecco anche l’immediato impegno in studio, per dare alla luce un nuovo disco nonostante la ridotta distanza temporale dal precedente, trovando il giusto assetto mentale, sfogando rabbia e frustrazione ed esorcizzando incertezza e paura. Il risultato, titolato “In The Court Of The Dragon”, è uno dei migliori dischi della loro discografia, che va a confermare la striscia vincente della formazione e ad elevare lo status del gruppo. Ne parliamo con il bassista Paolo Gregoletto, che assieme al gruppo è da poco uscito dall’incubo senza tour a cui l’Italia è ancora costretta (i Trivium sono impegnati nel “Metal Tour Of The Year” insieme a Megadeth e Lamb Of God), andando ad approfondire il contesto in cui è nato il disco e lo stato mentale della band.

CIAO PAOLO, COME VA?
– Tutto bene! Siamo a Philadelphia, ancora impegnati nel ‘Metal Tour Of The Year’. Ce la stiamo passando alla grande qui.

PRIMA DI TUTTO TI CHIEDO DI RICORDARE IL PERIODO IN CUI E’ INIZIATA LA PANDEMIA. STAVATE PER PUBBLICARE “WHAT THE DEAD MAN SAYS” ED ERAVATE PRONTI A PARTIRE PER L’ASIA, GIUSTO?
– Sì, ricordi benissimo. E’ stato un periodo duro, per noi come per tutti immagino. E’ stato difficile realizzare che non avremmo potuto suonare per un bel po’ di tempo, ma non avrei mai immaginato ci volesse così tanto…

QUANTO TEMPO VI E’ SERVITO PER REALIZZARE LA REALE SITUAZIONE?
– Qualche mese, penso. In realtà appena ci siamo resi conto che sarebbe stato impossibile suonare abbiamo pensato immediatamente a scrivere nuova musica. Non volevamo tornare in tour senza un nuovo disco. Sapevamo di avere parecchio materiale ancora nelle nostre teste quindi abbiamo deciso di non star seduti a far nulla e abbiamo fatto fruttare al meglio quell’anno e mezzo di pausa. Ci siamo messi al lavoro e ne sono davvero felice. Il decimo album è un traguardo importante, abbiamo avuto tutto il tempo necessario per realizzarlo.

QUANTO E’ STATO DIFFICILE LAVORARE DURANTE LA PANDEMIA?
– C’erano più che altro preoccupazioni per la sicurezza di tutti. Al tempo non c’era alcun vaccino disponibile, ci siamo presi qualche rischio ma al contempo siamo stati il più attenti possibile. Abbiamo registrato alla Full Sail University di Orlando, Florida. Eravamo per conto nostro, con il nostro producer Josh Wilbur e poche altre persone, ma ovviamente dovevamo indossare sempre una mascherina, tutti i presenti erano sottoposti al controllo della temperatura eccetera. Siamo stati nella nostra bolla, con tutte le precauzioni del caso. Abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare per restare al sicuro ma al contempo continuare a lavorare. La fase di scrittura e le prove sono state effettuate nella nostra solita saletta, quella che avevamo prima di attrezzare l’hangar che è diventato il nostro quartier generale. Siamo rimasti concentrati esclusivamente su quello per tutto il tempo necessario.

IL PROCESSO DI SCRITTURA E’ STATO LO STESSO DI SEMPRE?
– Non troppo diverso dagli ultimi due dischi, ad essere sincero. Siamo un gruppo che cerca di scrivere insieme nella stessa stanza, scrivere a distanza non funziona per noi. Cerchiamo anche di perfezionare il processo ogni sessione, di conseguenza a mio parere abbiamo fatto qualche passo avanti anche stavolta.

AVETE AVUTO PIU’ TEMPO A DISPOSIZIONE, VI SIETE POSTI COMUNQUE UNA DEADLINE?
– Abbiamo avuto più tempo ma ci siamo posti comunque un limite. Ovviamente lavorando con una persona come Josh avevamo un’ottima pianificazione per quanto riguarda le sessioni in studio, il suo tempo era ovviamente limitato.

QUANDO AVETE FINITO DI REGISTRARE?
– Abbiamo iniziato a scrivere ad agosto 2020 e a dicembre abbiamo iniziato a registrare. Ci siamo presi una pausa intorno a Natale e poi abbiamo terminato le registrazioni a fine gennaio – inizio febbraio 2021.

HO AVUTO LA POSSIBILITA’ DI ASCOLTARE IL DISCO IN ANTEPRIMA (l’intervista è stata raccolta lo scorso 15 settembre, NdR), E UNO DEI PEZZI CHE MI HA COLPITO MAGGIORMENTE E’ “THE SHADOW OF THE ABATTOIR”. PENSO SIA UN BRANO CHE EMERGE, CHE ESCE DALLA VOSTRA ZONA DI COMFORT. SEI D’ACCORDO? AVETE SPINTO PER SUPERARE I VOSTRI LIMITI DI PROPOSITO?
– Davvero? Ti ringrazio. Ho portato in studio alcune delle parti della canzone su cui abbiamo poi lavorato insieme: le parti di basso all’inizio e la parte più heavy alla fine del brano. Si tratta di portare a compimento quello che hai nella testa. Non abbiamo mai avuto una canzone come quella in repertorio, ma non è nemmeno facile riuscire a farla nascere. Serve il riff giusto e le voci sono decisive. L’inizio è molto semplice a livello strumentale, quello che succede nei primi tre minuti è retto quasi per intero dalla voce. Mi piace spingere gli altri a fare cose del genere. Non conosco tanti altri gruppi che ci proverebbero, o che potrebbero provarci. Il fatto che molte persone stiano reagendo bene a quella canzone significa che abbiamo fatto qualcosa di diverso, che abbiamo sperimentato ma che siamo rimasti fedeli a quello per cui siamo conosciuti. Sono molto felice di questo.

CI SONO TRE PEZZI CHE SUPERANO I SETTE MINUTI, ANCHE…
– Si, abbiamo qualche traccia lunga su questo disco. Sono le prime su cui abbiamo lavorato. Hanno settato il tono e il ritmo per il resto dei brani. Avere più tempo a disposizione ha significato poter andare maggiormente sul dettaglio e costruire in maniera più elaborata. Siamo consapevoli che per il prossimo disco vorremo avere lo stesso tempo per avere la medesima cura.

HAI DATO IL TUO CONTRIBUTO ANCHE AI TESTI E ALLE LINEE MELODICHE?
– A volte io e Matt (Heafy – voce, NdR) abbiamo delle idee, anche per la stessa canzone. A volte Corey (Beaulieu – chitarre, NdR) ha l’idea per un titolo. Abbiamo sviluppato nel corso degli anni un approccio molto collaborativo. Anche in studio Josh Wilbur è una fantastica persona con cui lavorare, riesce a modellare un’idea e trasformarla da buona a ottima. Abbiamo un approccio davvero corale su testi e voci.

AVETE SPOSTATO IL TEMA LIRICO SULLA MITOLOGIA IN QUESTO DISCO. CHI E’ APPASSIONATO?
– Non è la prima volta che abbiamo toccato l’argomento, è già successo in passato. In queste sessioni mi sono sentito di suggerire un concept di fondo che potesse riguardare una mitologia a sé stante, una narrativa propria. Penso che questo disco possa essere visto liricamente come una singola storia, una cosa sola. Ci è sempre piaciuta questa idea, da tempo volevamo svilupparla maggiormente dedicandoci più tempo del normale. Penso che fuggire in un’altra linea temporale ci abbia ispirato ulteriormente, nessuno voleva avere a che fare con i fatti che ci circondavano. Personalmente ho tratto parecchio beneficio nell’immergermi in quest’altra realtà di cui stavamo scrivendo.

PARLIAMO BREVEMENTE DI “WHAT THE DEAD MAN SAY”. PENSI CHE QUESTO DISCO SOFFRIRA’ LA MANCANZA DI TOUR A SUPPORTO E LA VICINANZA CON “IN THE COURT OF THE DRAGON?”
– No, non penso affatto che il nostro disco precedente possa soffrire della situazione. Suoniamo ancora alcuni estratti: ne abbiamo due in scaletta in questo tour dove facciamo da apertura e quattro nei nostri concerti da headliner. Continueremo a supportare “What The Dead Man Says” e “In The Court Of The Dragon” per parecchio tempo da qui in avanti, penso inoltre che in qualche modo questi dischi siano collegati tra loro da strane e pazze circostanze come la pandemia e la totale assenza di tour. Ovviamente sono due dischi diversi, ma nella mia mente sono come il lato A e il lato B dello stesso disco. Sono simili in molti modi, ma sono diversi. Se guardi ai dati streaming, “Catastrophist” è già una delle canzoni con più ascolti nel nostro catalogo, e non l’avevamo mai suonata dal vivo prima di tre settimane fa. Quei numeri sono stati raggiunti quando eravamo lontani dal palco. Parte del motivo per cui abbiamo lavorato così duramente a questo nuovo disco è perchè pensiamo che il precedente sia tanto ben riuscito da doverlo raggiungere. Inoltre, senza tour in vista dovevamo essere sicuri di avere attenzioni esclusivamente per la musica. Ora che finalmente stiamo suonando abbiamo la possibilità di godere della musica che abbiamo creato e siamo nella strana situazione di suonare prevalentemente nuovi brani, una cosa che non era mai successa in precedenza.

FINALMENTE SIETE LA’ FUORI E STATE SUONANDO DI NUOVO CON MEGADETH E LAMB OF GOD. COME CI SI SENTE? COM’E’ IL PUBBLICO?
– Questo tour è devastante, non c’è altro modo per definirlo. Le arene sono stracolme, stiamo vendendo più biglietti di ogni altro tour in questo momento nel nostro genere musicale. Diciamo che rende giustizia al suo nome, ‘The Metal Tour Of The Year’. Siamo molto onorati di far parte di questo cartellone ed è bello vedere come le canzoni stiano funzionando con gli ascoltatori.

E’ POSSIBILE FARE TOUR IN MANIERA SICURA DI QUESTI TEMPI A TUO PARERE?
– Penso di sì. Non ci sono restrizioni particolari per questo tour, sta molto alla singola persona. Siamo tutti vaccinati sul tour bus, abbiamo tutti avuto le nostre disavventure col Covid, stiamo attenti a non correre rischi non necessari e siamo fortunati ad avere una situazione molto serena nel backstage, con spazi molto capienti dove riusciamo ad evitare affollamenti eccessivi. Siamo comunque molto contenti di poter finalmente suonare, forse l’anno prossimo si potrà tornare ad avere più interazioni nel backstage, accettare qualche ospite e via discorrendo. In ogni caso sono felice di osservare tutte queste regole pur di suonare.

QUI IN ITALIA E’ ANCORA PROIBITO SUONARE IN LOCALI A PIENA CAPIENZA.
– Siamo un po’ pazzi da queste parti, ci siamo buttati a capofitto! Sono al corrente delle maggiori restrizioni in Italia, forse è una questione di mentalità. Siamo più inclini a prenderci qualche rischio.

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