Parimenti amati e odiati dal pubblico, gli Uada vanno senza dubbio annoverati tra le formazioni in netta ascesa del panorama black metal internazionale. Musicisti determinatissimi che fin dalla pubblicazione dell’esordio “Devoid of Light”, avvenuta nel 2016, non si sono mai tirati indietro dal suonare in lungo e in largo per diffondere il loro nome, coltivando nel frattempo una proposta che, da basi polacco-svedesi, è riuscita a raggiungere con il nuovo “Djinn” una dimensione più personale e libera da vincoli stilistici. Sempre di metallo nero si parla, ma la ricchezza ritmica e chitarristica dei sei lunghi brani editi dalla tedesca Eisenwald sposta l’orizzonte del quartetto in territori ora post-punk, ora NWOBHM impensabili fino a qualche tempo fa, quando gli unici modelli di riferimento sembravano essere Mgla e Dissection. Un’opera ‘di rottura’ nell’accezione migliore del termine, figlia di una fame di traguardi che il leader maximo Jake Superchi, raggiunto da Metalitalia.com sul finire dell’estate, riporta a pieno con le sue parole…
VISTO L’OTTIMO RISULTATO DI “CULT OF A DYING SUN”, VI SIETE SENTITI SOTTO PRESSIONE QUANDO AVETE COMINCIATO A PENSARE AL SUO SUCCESSORE? QUALI OBIETTIVI VI ERAVATE PREFISSATI CON “DJINN”?
– Sì e no. Oltre metà del disco è stata scritta nel periodo in cui “Cult…” è uscito, per poi essere messa in standby a causa delle richieste di tour. Quando un album è finito e viene pubblicato, credo che il primo pensiero sia grossomodo “ok, questo è il lavoro da battere”, ma poi passano i mesi, lo riascolti e pensi “in fondo non è così ottimo, avremmo potuto fare questo invece di quello”, e così via. Quindi non sentiamo nessuna pressione per competere con noi stessi, quanto piuttosto per creare qualcosa che alla fine di tutto possa essere avvertita come parte di noi. E finora ci siamo sempre riusciti.
PIÙ PASSANO GLI ANNI E PIÙ LA VOSTRA MUSICA DIVENTA EPICA E MELODICA. È STATO UN PROCESSO SPONTANEO O QUALCOSA CHE VOLEVATE EFFETTIVAMENTE CERCARE DI RAGGIUNGERE?
– Non stiamo cercando intenzionalmente di suonare o di essere in una certa maniera. Ciò che scaturisce dagli strumenti e che sentiamo è quello che poi finisce nei nostri dischi. Ovviamente esiste una coscienza nella direzione del gruppo, ma non è qualcosa che stiamo forzando. Con “Djinn” ho pensato che potesse essere interessante comporre in un modo che non fosse né buono né cattivo, né positivo né negativo. Neanche i djinn lo sono, ed era proprio questa sensazione che volevo catturare nella nuova musica.
DA UN PUNTO DI VISTA LIRICO, QUAL È IL CONCEPT DELL’ALBUM? I DJINN SONO ESSERI SOPRANNATURALI CITATI NELLA MITOLOGIA ISLAMICA; COME LI AVETE INTEGRATI NELLA VOSTRA NARRAZIONE?
– Il disco ruota intorno al tema della possessione: fisica, metafisica, spirituale, mentale, sociale… essendo una persona molto legata al paganesimo e avendo vissuto diverse esperienze paranormali nel corso degli anni, i djinn mi hanno sempre affascinato. A volte mi domando se ho mai avuto dei contatti con loro, o se in questo momento sono qui. Sono delle muse o delle specie di guide: nella mitologia araba e islamica i djinn sono fondamentalmente le stesse entità che le altre religioni abramitiche identificano come angeli e demoni e, mentre non credo nei culti organizzati e nei loro scopi, so che ci sono degli esseri intorno a noi che interagiscono con le nostre vite. Che siano ciò che pensiamo di djinn, angeli, demoni, alieni o di tutto quanto ho appena elencato, è frutto molto probabilmente della nostra interpretazione individuale.
“DJINN” VIENE PUBBLICATO ANCORA UNA VOLTA DALLA EISENWALD. AVETE RICEVUTO QUALCHE ALTRA OFFERTA NEGLI ULTIMI ANNI? IN TUTTA ONESTÀ, ARRIVATI A QUESTO PUNTO, MI ASPETTAVO CHE AVRESTE FIRMATO PER UNA LABEL PIÙ GRANDE…
– In effetti sì, abbiamo ricevuto proposte da altre etichette, comprese alcune delle più grandi. A mio avviso però bisognerebbe aprire una parentesi sul concetto di sincerità e lealtà. Mi sembra che molte di queste label si comportino come delle aziende, pensando solo ad aggiudicarsi tutte quelle band da poter rivendere al loro pubblico. Non mi interessa essere il prodotto di qualcuno, e so che per la Eisenwald siamo molto di più che una fonte di guadagno. D’altro canto, siamo una formazione che sta aiutando un’ottima etichetta a crescere e a rafforzarsi. Non molti gruppi hanno l’opportunità di esserlo, e questo è sicuramente un fattore importante a cui non credo che le persone pensino. La maggior parte delle band là fuori sembra stia cercando di finire sotto l’ala di un grosso nome, ma sono convinto che se cominciassero a credere veramente in loro stesse e in quello che stanno facendo, si renderebbero conto che non è necessario.
GUARDANDO IN PROSPETTIVA ALLA VOSTRA CARRIERA, SIETE SORPRESI DI COME LE COSE SI SIANO MESSE PER VOI? VI SENTITE SODDISFATTI DI CIÒ CHE AVETE FATTO E OTTENUTO FINO A QUESTO MOMENTO?
– Sarebbe umile da parte mia rispondere di sì, ma non sarebbe veritiero. Conoscendo la mia tenacia, la mia determinazione e la voglia di raggiungere gli obiettivi prefissati, non sono sorpreso di come le cose si siano evolute per la band. Mette soggezione vedere che così tante persone si stiano connettendo alla nostra musica, e questo significa molto per noi. Infine, non penso troppo a quello che abbiamo ottenuto o fatto perché sono sempre concentrato sul futuro e su ciò che verrà. In questo momento nella mia vita non c’è spazio per i festeggiamenti. “Cosa abbiamo fatto veramente?” è la domanda che dobbiamo continuare a porci per non fermarci.
TUTTI VOI AVETE SUONATO IN ALTRI GRUPPI IN PASSATO. COSA VI HA SPINTO A FORMARE GLI UADA? CHE IDEA AVEVATE QUANDO AVETE COMINCIATO A PENSARE ALLA LORO MUSICA E ALLA DIREZIONE STILISTICA DA INTRAPRENDERE?
– Era solo arrivato il momento di iniziare qualcosa di nuovo. Suppongo per rompere con la continuità di fare sempre la stessa cosa. Personalmente, volevo cimentarmi in un progetto che fosse un po’ più rock’n’roll, senza però allontanarmi troppo dal mondo del black metal melodico. È stata anche la prima volta che ho suonato con un altro chitarrista, e questo ha spalancato le porte alla creazione di molti più passaggi guidati dall’armonia. Penso che sia stato il raggiungimento della maturità e della consapevolezza a farmi decidere il mio destino e la strada da intraprendere.
PENSATE CHE VIVERE IN OREGON (O PIÙ IN GENERALE NEGLI STATI UNITI) ABBIA INFLUENZATO IL VOSTRO MODO DI COMPORRE?
– Anche se la band è considerata originaria di Portland, Oregon, poiché è lì che abbiamo sempre provato e tenuto il nostro primo show, vivo appena oltre il fiume (il Willamette, ndR), nello stato di Washington. Credo che i vasti paesaggi naturali di queste zone abbiano avuto un loro ruolo nella creazione della musica degli Uada. Il clima rigido e il dolore che il mio corpo spesso accusa per via del freddo e dell’umidità si riflettono nel mood e nelle atmosfere dei brani.
QUANT’È IMPORTANTE L’ORIGINALITÀ NEL VOSTRO MODO DI SCRIVERE E GUARDARE ALLA MUSICA? UNA BAND PUÒ ESSERE GRANDE ANCHE SENZA ESSERE TROPPO ORIGINALE, SECONDO VOI?
– Ho sempre pensato che ciò che stiamo facendo abbia un significato unico, ma cos’è la vera originalità di questi tempi? Di sicuro non è qualcosa a cui penso intensamente, perchè se fossi concentrato a spingere la mia arte verso un’idea specifica, allora questa non sarebbe più onesta. Posso solo scrivere ciò che sento e che mi viene naturale grazie alle influenze che mi hanno portato qui. Se poi la musica degli Uada possa essere definita originale o meno, credo sia soggettivo e che spetti all’ascoltatore deciderlo, ma non è una mia preoccupazione. D’altronde, se pensiamo alla musica melodica (per quanto si possa fare moltissimo all’interno dei suoi confini) probabilmente è già stato tutto scritto. Penso quindi che la cosa più importante sia essere noi stessi e lasciare che la natura faccia il proprio corso.
COSA RAPPRESENTA IL BLACK METAL A QUESTO PUNTO DELLA VOSTRA VITA E DELLA VOSTRA CARRIERA MUSICALE? CHE TIPO DI EMOZIONI VORRESTE SUSCITARE CON LA VOSTRA MUSICA?
– Black metal per me ha sempre significato libertà nell’arte estrema. Libero pensiero, per fare ciò che si vuole senza rimorsi o rimpianti. È la trasposizione in forma sonora del motto ‘fai ciò che vuoi’.
VEDETE GLI UADA COME ARTE O COME INTRATTENIMENTO?
– È la nostra arte, espressione e creazione. L’arte proviene da chi la crea, l’intrattenimento è per chi la cerca.
IMMAGINO CHE NON ABBIATE ALTRE OCCUPAZIONI AL DI FUORI DELLA BAND IN QUESTO MOMENTO. QUANDO AVETE REALIZZATO CHE GLI UADA STAVANO DIVENTANO UNA COSA SERIA? QUALI SONO I PRO E I CONTRO DI QUESTO STILE DI VITA?
– Sono stati una cosa seria nel momento in cui ho deciso di fondarli, prima ancora di contattare altri musicisti per unirsi a me nel viaggio. Non lo fossero stati, non avrei investito il mio tempo e le mie energie. Non abbiamo molto tempo da perdere in questa vita, motivo per cui mi sono sempre considerato una persona da ‘o tutto o niente’. Se non potessi mettere il mio 100% qui, lo farei da un’altra parte. Esistono molti pro e contro: i vantaggi sono che posso sostenermi facendo ciò che amo e attraverso questo fare esperienze di vita, essere libero e (prima del Covid-19) avere la possibilità di viaggiare per il mondo. I contro sono che devo avere a che fare con le persone, essere sotto gli occhi del pubblico e sottoporre la cosa che per me significa di più ad un mondo che in buona parte non la capisce o non può capirla. Questa è molto di più che semplice musica, e se avessi soltanto voluto guadagnarmi da vivere facendo il musicista avrei lasciato il mondo del black metal tempo fa per suonare qualcosa di più redditizio. Il denaro non è l’obiettivo né una spinta, si tratta solo di creare arte onesta che provenga dall’anima.
NEGLI ULTIMI ANNI AVETE GIRATO LETTERALMENTE IL MONDO, SUONANDO IN PAESI MOLTO DIFFERENTI TRA LORO SIA CULTURALMENTE CHE GEOGRAFICAMENTE. IN CHE MODO QUESTE ESPERIENZE VI HANNO ARRICCHITI COME MUSICISTI?
– La cosa migliore del viaggiare per il mondo e dell’incontrare persone provenienti da così tanti paesi diversi è rendersi conto di quanto siamo tutti uguali. Una razza accomunata dal vivere una strana esistenza attraverso il vuoto. Stare lontano da casa per così tanto tempo ha probabilmente influenzato la scrittura di “Djinn” rendendola più aperta e universale, indipendentemente dal fatto che sia stata una decisione consapevole. Siamo tutti ispirati da cose che colpiscono il nostro subconscio senza che neppure ce ne accorgiamo.
PIÙ DI UNA VOLTA SIETE STATI OGGETTO DI CRITICHE. ALCUNE PERSONE VI HANNO ACCUSATO DI ESSERE FASCISTI, ALTRE DI SCARSO GIUDIZIO PER L’ORMAI CELEBRE PERFORMANCE AL MÉXICO METAL FEST… ANCHE IL RECENTE POST SU MARYLIN MANSON HA SOLLEVATO UN DISCRETO POLVERONE. COME AFFRONTATE TUTTO QUESTO?
– Ci ridiamo su. Prendiamo la nostra arte e i nostri show molto seriamente, ed essere un perfezionista è probabilmente la mia più grande imperfezione, ma di certo non sono così serioso, né dò troppo peso ai social media. Se qualcosa è controverso, allora noi ci giocheremo. Non in modo disonesto, quello no, ma ci piace alimentare il fuoco. Le persone dovrebbero capire che quando si evoca un djinn dev’esserci anche un posto in cui liberarlo. Cresciamo i nostri demoni per poterli affrontare a testa alta. E quando capisci che le persone che vivono sui social network crederanno a tutto ciò che metterai davanti ai loro occhi, il processo diventa molto facile. È anche un modo per dimostrare quanto siano corrotti e di parte i media nel nostro Paese, e come sanno di poter ottenere le reazioni che vogliono. Se noi come band possiamo pianificare queste trollate, sapendo che andranno a suscitare delle emozioni nelle persone a cui non piacciamo, allora cosa pensi che ne facciano le élite dei più ricchi? È una macchina di propaganda. Il nostro obiettivo non è raggirare le persone, anche se sappiamo perfettamente chi salterà sulla sedia leggendo il post sul colpo di calore (parla appunto dell’episodio del México Metal Fest 2019, quando la band interruppe l’esibizione per il troppo caldo, ndR) o quello su Manson, e quale sarà la sua reazione. Possiamo scrivere chiaramente qualcosa, spiegarne il significato e vederla comunque manipolata e trasformate in bugie. Stiamo tirando fuori l’odio delle persone, e su cosa? Non si tratta di attenzione, ma di reazione. Non importa quale essa sia, anche se apprezziamo l’umorismo e devo ammettere che la creatività che le persone mettono nei loro assalti ci strappa sempre una risata. Alla fine è il nostro nome che viene diffuso. Per mancanza di un paragone migliore, vedo la cosa come un flipper: carichi il colpo, lasci volare la pallina, la guardi rimbalzare, spingi la leva per farla rimbalzare di più e, non appena finito, questa scenderà nel buco. Se dovessi spiegarlo in senso magico, o diciamo anche in senso elettrico, bisogna avere entrambe le reazioni. Per ricaricare una batteria servono sia una carica positiva che una negativa. Alcuni dei miei artisti preferiti erano davvero bravi a trollare i media, e capita che anche quelli che ho visto crescere mi ispirino a fare lo stesso. Quello che la gente pensa non fa differenza per me, ma ti dirò che non c’è un solo osso nel mio corpo che sia fascista o che odi le persone in base al colore della pelle, al loro credo o al contesto da cui provengono. Le loro azioni individuali sono ciò su cui baso le mie decisioni; se qualcuno è stronzo, allora lì sì che taglierò i ponti.
IL VOSTRO SEGUITO È IN CONTINUA ESPANSIONE. PENSATE MAI AL VOSTRO SUCCESSO? QUALI SONO I VOSTRI PIANI PER IL FUTURO?
– No, non proprio. Non mi interessano le celebrazioni o accontentarmi di qualcosa del passato. Il mio sguardo è sempre rivolto al futuro e al prossimo passo. In attesa che il divieto di viaggi internazionali venga revocato all’inizio del prossimo anno, ci stiamo preparando al tour europeo di supporto al nuovo album. Con noi suoneranno i Regarde Les Hommes Tomber, i Velnias e i Solbrud. Ho anche già iniziato a scrivere il prossimo disco, ma è qualcosa di cui per il momento non posso davvero entrare nei dettagli. Come ho detto prima, guardiamo sempre avanti!