ULCERATE – Come Lars von Trier

Pubblicato il 11/06/2020 da

Una delle uscite più attese dell’anno, almeno per quanto concerne il filone estremo, era senza dubbio rappresentata dalla sesta fatica in studio degli Ulcerate. Un disco che non ha smentito le voci circolate prima della sua pubblicazione (le quali preannunciavano un cambio di approccio da parte del gruppo neozelandese) e che non a caso sta già facendo discutere parecchio la platea underground, tra chi ne ha apprezzato la vena melodica e dilatata e chi, al contrario, avrebbe preferito che l’animo aggressivo dei vecchi “Vermis” o “Everything Is Fire” non venisse ridimensionato in questa maniera. Per approfondire la genesi di un album tanto importante e per esplorare il pensiero di una delle realtà più influenti degli anni Duemila, Metalitalia.com ha quindi deciso di contattare il trio di Auckland, le cui veci – come sempre – sono state fatte dal batterista/mastermind Jamie Saint Merat.

DOPO IL SUCCESSO DI “SHRINES OF PARALYSIS”, COME VI SIETE APPROCCIATI ALLA SCRITTURA DEL NUOVO ALBUM? QUALI OBIETTIVI AVEVATE IN MENTE DI RAGGIUNGERE CON “STARE INTO DEATH AND BE STILL”?
– “Stare Into Death And Be Still” siamo noi che spostiamo la band verso un focus più melodico, prendendo quasi del tutto le distanze dalle esplorazioni dissonanti del passato. Arrivati al sesto disco abbiamo sentito la fame e la necessità di percorrere nuove strade. Abbiamo iniziato a lavorarci ad inizio 2018, dedicando i primi sei mesi ad una sperimentazione senza fine, vedendo fino a che punto potevamo spingere le cose preservando comunque le caratteristiche fondamentali del nostro sound. La maggior parte di quel materiale è stato poi scartato, ma ha aperto la strada alla direzione stilistica dell’album. Nello stesso periodo ho anche iniziato a sperimentare con la pre-produzione e il mixaggio; era fondamentale che il disco si discostasse dalla claustrofobia dei lavori precedenti, in particolar modo degli ultimi due.

L’AUMENTO DELLA MELODIA E DELLE PARTI IN MID-TEMPO È UNO DEI PRIMI ASPETTI A COLPIRE E AD EMERGERE DURANTE L’ASCOLTO DEL DISCO. COSA VI HA SPINTO IN QUESTA DIREZIONE?
– Come dicevo, è stata solo la consapevolezza di essere arrivati alla fine del percorso dissonante e caotico che ci ha accompagnato fin dagli inizi. Abbiamo detto tutto quello che potevamo dire in quel senso. Inoltre, c’è stata un’esplosione di gruppi con un sound simile che ha reso le cose… meno interessanti. La melodia è sempre stata presente nei nostri album, anche se veniva sommersa dalle ondate di sporcizia. Il principio guida di “Stare Into Death…” era trasmettere un indicibile senso di potenza e autorità, quindi attenuare i tempi è stato inevitabile. Ma si è trattato anche di lavorare il più possibile con i colori e i contrasti; nessuno di noi vuole suonare musica ‘veloce’ per il semplice gusto di farlo.

DA UN PUNTO DI VISTA LIRICO, QUAL È IL CONCEPT DELL’OPERA? HO LETTO CHE L’ALBUM AFFRONTA IL TEMA DELLA ‘REVERENZA DELLA MORTE’; VI ANDREBBE DI FAR LUCE SU QUESTO ARGOMENTO?
– La reverenza della morte riguarda la passività e l’orrore di assistere al progressivo spegnimento di una persona amata in modo completamente calmo, raccolto. Tutti e tre lo abbiamo sperimentato negli ultimi anni e ha avuto un profondo effetto su di noi.

LE VOSTRE GRAFICHE SONO SEMPRE MOLTO CURATE E ACCATTIVANTI. A QUESTO PROPOSITO, SO CHE L’ARTWORK DI “THE DESTROYERS OF ALL” PROVIENE DA UN DETTAGLIO DELLA CAPPELLA SISTINA DI ROMA; ANCHE LA SCULTURA DI “STARE INTO DEATH AND BE STILL” ESISTE DAVVERO?
– La forma base della copertina deriva da una statua reale, ma non c’è altro.

COME SIETE ENTRATI IN CONTATTO CON LA DEBEMUR MORTI? E PERCHÈ AVETE DECISO DI NON RINNOVARE IL DEAL CON LA RELAPSE?
– In realtà la Debemur Morti si era già messa in contatto con noi per l’uscita di “Vermis”, ma a quel punto avevamo firmato un accordo di due album per la Relapse. Parliamo di un’etichetta che ho sempre tenuto d’occhio, quindi quel primo contatto ha sicuramente gettato le basi per la collaborazione attuale. Una volta iniziato a scrivere questo sesto disco abbiamo dovuto riflettere sul da farsi: se rifirmare nuovamente con la Relapse, se pubblicarlo in maniera indipendente o se cercare una nuova sistemazione. La partnership con Relapse è sempre stata impeccabile, ed erano ansiosi di portarla avanti, ma credo che la Debemur Morti sia più vicina al nostro concept e alla nostra visione. Dopo i primi discorsi con Phil, il manager dell’etichetta, mi è apparso subito chiaro che questo era il tipo di collaborazione che volevo per la band.

SE DOVESTE FARE UN RAFFRONTO CON UN’ALTRA OPERA D’ARTE (UN LIBRO, UN FILM, UN QUADRO, ECC.), A COSA PARAGONERESTE “STARE INTO DEATH AND BE STILL” E – PIÙ IN GENERALE – LA VOSTRA MUSICA?
– Purtroppo è difficile rispondere quando ti trovi dal lato del musicista. In passato mi è stata fatta una domanda simile, e ricordo che risposi con un riferimento a Lars von Trier. Forse è ancora valido? Il modo in cui esplora i concetti di orrore/terrore con un’estetica grandiosa ma profondamente inquietante ha sempre avuto un forte influsso su di me.

CHE TIPO DI EMOZIONI VORRESTE SUSCITARE CON LA VOSTRA PROPOSTA? GLI ULCERATE SONO SINONIMO DI QUALCHE SENTIMENTO SPECIFICO?
– Alla base di questo album c’è un’atmosfera molto cupa, che penso si rifletta durante l’ascolto. L’obiettivo era quello di evocare un senso di orrore e di timore reverenziale, come se tutto ciò che ti circonda ti stia scivolando da sotto le dita; stai osservando, ma sei in uno stato di paralisi. Non riesci a fare nulla al riguardo. Come se veramente fossi trascinato nel vuoto successivo (qui fa riferimento al settimo brano del disco, “Drawn into the Next Void”, ndR)…

GUARDANDOVI INDIETRO, QUAL ERA LA VOSTRA IDEA QUANDO AVETE INIZIATO A PENSARE AGLI ULCERATE E ALLA DIREZIONE STILISTICA DA INTRAPRENDERE? E QUAL È OGGI LA VOSTRA VISIONE?
– L’obiettivo è sempre stato quello di creare il tipo death metal che avremmo voluto ascoltare. Ovviamente adesso la visione è molto più ampia in quanto siamo cresciuti come musicisti, ma l’etica rimane la stessa: scrivere e suonare death metal in maniera intransigente, rimanendo il più possibile DIY.

PENSATE CHE VIVERE IN NUOVA ZELANDA ABBIA IN QUALCHE MODO INFLUENZATO IL VOSTRO MODO DI COMPORRE O DI APPROCCIARVI ALLA MUSICA?
– Certo, soprattutto negli anni formativi quando Internet era ancora nella sua ‘infanzia’ (prima di YouTube, dei social network, ecc.). Dovevi combattere per farti notare, e chi copiava veniva punito molto più duramente di quanto non succeda oggi; ora è quasi la norma a causa della facilità di accesso al mondo della musica. La nostra piccola scena di tardi anni Novanta/primi Duemila era un terreno molto fertile per coltivare proposte davvero uniche; purtroppo molti di quei gruppi non sono sopravvissuti.

SE VI DICESSI CHE OGGI – PIUTTOSTO CHE AI GORGUTS O AGLI IMMOLATION – VI PARAGONEREI AI NEUROSIS, COSA RISPONDERESTE?
– Personalmente non sento di avere una connessione profonda con i Neurosis, ma se questo è ciò che ti suscita la nostra musica, nessun problema per me.

SEMPRE PIÙ GRUPPI ANNOVERANO GLI ULCERATE TRA LE LORO INFLUENZE. COSA NE PENSATE DELLA RISCOPERTA DI CERTE SONORITÀ DISSONANTI CHE VOI IN PRIMIS AVETE AIUTATO A SDOGANARE? VI SIETE MAI CONSIDERATI UNA BAND ORIGINALE?
– È umiliante, ma al tempo stesso strano. Non abbiamo un grosso ego, quindi tutta questa attenzione nei nostri confronti ci risulta scomoda. D’altronde, è pur vero che ogni band deve trovare la propria ispirazione da qualche parte, e se quella fonte dobbiamo essere noi, così sia. In termini di suono dissonante, credo che alcune delle mie risposte precedenti tocchino questo argomento. Innanzitutto, Internet ha favorito un’esplosione o comunque un eccesso di lavori-fotocopia, motivo per cui mi sono davvero stancato di questo stile, anche perchè molti vi si approcciano in maniera a dir poco rudimentale. Abbiamo fatto ricorso a questa tavolozza sonora per anni, e ce ne siamo allontanati consapevolmente, utilizzandola solo quando necessario, non come sostegno per ogni nostro passo. Per quanto riguarda l’originalità, ci stiamo assolutamente impegnando in questo senso; se la raggiungeremo o meno, è un verdetto che spetta agli altri.

IL TESTO DI UNA DELLE VOSTRE CANZONI PIÙ RAPPRESENTATIVE DICE: “COME DAWN, NO LIGHT WILL BE THROWN ON THEM / THIS VERMIN, THESE INGRATES / US OF THE EARTH / THE DESTROYERS OF ALL”. PAROLE CHE – ALLA LUCE DEI RECENTI EVENTI – SUONANO QUANTO MAI ATTUALI. QUAL È LA VOSTRA OPINIONE SUI TEMPI CHE STIAMO VIVENDO? AVETE QUALCHE PREVISIONE SU COME IL MONDO (E LA SCENA MUSICALE) CAMBIERANNO?
– In questa fase è ancora troppo presto per dirlo. E soprattutto varia da Paese a Paese: ci sono quelli che l’hanno affrontata bene e quelli che ancora non l’hanno fatto. Girare gli Stati Uniti, ad esempio, potrebbe essere un sogno irrealizzabile. A livello globale abbiamo saputo della chiusura di molti locali, così come abbiamo visto partire delle raccolte fondi per salvare le venue più piccole, che è dove la musica underground cresce e prospera. Le cose si stanno comunque evolvendo rapidamente: la Nuova Zelanda, ad esempio, è riuscita a contenere l’emergenza nel giro di poche settimane, con piani in atto per tornare alla normalità.

COMPATIBILMENTE CON LA SITUAZIONE D’EMERGENZA DELLA PANDEMIA, QUALI SONO I VOSTRI PIANI PER IL FUTURO?
– Abbiamo rifissato gli show australiani, annullato tutti quelli in Nord America e in questo momento stiamo pianificando le date europee per l’inizio del 2021. Purtroppo quest’anno a livello globale non ci sarà molto da fare, se non, appunto, cancellare i propri programmi.

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