Nel 2024, parlare degli Ulcerate significa necessariamente confrontarsi con un pilastro inamovibile di tutto ciò che è ‘evoluto’ nel vasto mondo del metal estremo contemporaneo.
Una formazione che, giunta al traguardo del settimo full-length in carriera, non ha oggettivamente più bisogno di presentazioni, e il cui stile – anche tenendo conto della recente svolta controllata e melodica – continua a sbalordire per la sua superiorità e per la sua capacità di lasciare il segno nell’underground death e black metal.
Il nuovo “Cutting the Throat of God” è fuori ormai da qualche mese, e pur risultando un album di consolidamento piuttosto che di ampliamento degli orizzonti musicali della band, limitandosi a permanere nel solco tracciato dal magnifico “Stare Into Death and Be Still”, ha ribadito come da consuetudine l’incredibile talento dei neozelandesi, apparentemente immuni da qualsiasi tipo di annebbiamento compositivo.
Un album denso, ricco, stratificato, di cui il batterista/leader Jamie Saint Merat ci ha parlato via mail a ridosso della sua pubblicazione…
PRIMA DI PARLARE DEL NUOVO ALBUM, VORREI FARE UN PASSO INDIETRO.
“STARE INTO DEATH AND BE STILL” HA SAPUTO LASCIARE UN SEGNO PROFONDO NELLA VOSTRA CARRIERA E, ANCHE SE IN RITARDO, SIETE RIUSCITI A PROMUOVERLO SIA IN EUROPA CHE NEGLI STATI UNITI. TROVO CI SIA QUALCOSA DI CURIOSO E POETICO NEL FATTO CHE QUEL DISCO – CHE PROBABILMENTE VERRÀ RICORDATO COME UNO DEI VOSTRI APICI – SIA USCITO IN UN MOMENTO DEL GENERE, SPECIE CONSIDERANDO IL SUO CONCEPT E IL SUO TITOLO. CI AVETE MAI PENSATO?
– Sì, c’è sicuramente una poesia ironica che non ci è affatto sfuggita. La pubblicazione è stata ovviamente agrodolce (se non ricordo male, la data di uscita è stata proprio nella settimana in cui gran parte del mondo è andata in lockdown, o almeno era molto, molto vicina a quel momento), ed è stato incredibilmente demoralizzante vedere i piani dei vari tour annullarsi uno dopo l’altro.
È stato come se qualcosa in cui avevamo investito tutti noi stessi – il classico ‘sangue, sudore e lacrime’ – ci venisse portato via in un attimo; i nostri lavori quotidiani sono continuati (anche se da remoto), e la vita è andata avanti in una forma muta e strana, ma la cosa che desideravamo di più fare è diventata impossibile. Persino suonare il mio strumento non mi era concesso, dato che la mia batteria si trova nello spazio del nostro studio/sala prove, che era stato chiuso. Non parlo per gli altri, ma ho dovuto fare una seria ricostruzione mentale per imparare a godermi la vita senza poter suonare musica nel modo ‘corretto’. Tempi bizzarri.
In compenso, abbiamo ricevuto molti feedback sul fatto che “Stare Into Death…” ha saputo aiutare le persone a navigare in quel periodo buio, poiché i temi dei testi si adattavano molto bene a quella sensazione di impotenza e di una graduale discesa negli inferi.
BASANDOCI SU QUESTO, “CUTTING THE THROAT OF GOD” SUONA COME LA LOGICA CONTINUAZIONE DI “STARE…”, SVILUPPANDOSI IN UN MODO ANCORA PIÙ CONTROLLATO E ARMONICO.
NELLA RECENSIONE L’HO DESCRITTO COME “UNA MEDITAZIONE SCANDITA DA UNA SERIE DI RESPIRI LENTI, PROFONDI E REGOLARI, E SOLTANTO ALL’OCCORRENZA SPEZZATA DA ANSITI PIÙ SERRATI E AFFRETTATI“.
VI RICONOSCETE IN QUESTA IMMAGINE? FINO A CHE PUNTO PENSATE DI POTER SVILUPPARE L’ASPETTO MELODICO SENZA COMPROMETTERE LA VOSTRA ESSENZA?
– È una sintesi equa. Avevamo pianificato che “Stare Into Death…” fosse una svolta per noi, l’apertura di una nuova porta sonora su cui – da lì in poi – avremmo concentrato i nostri sforzi. In termini di sviluppo di un approccio più melodico, beh… condividiamo tutti una sensibilità piuttosto simile, quindi, se non altro, sono eccitato all’idea di vedere dove e come le cose cresceranno da qui in poi. Ma prima dobbiamo lasciar sedimentare la polvere su “Cutting…”.
In altre interviste, ho affermato che mi piace quando gli artisti si concentrano davvero sull’essenza di cui parlano, dove la visione diventa cristallizzata e il prodotto finale può poi essere modellato attorno a quest’ultima. E penso che questo avvenga spesso alla musica al di fuori delle mura del metal; il metal tende ad avere un livello piuttosto alto di conservatorismo (che amo, in molti casi), ma questo è controintuitivo rispetto all’idea che ho appena esposto.
Una band come Ulver, che ha abbandonato del tutto il genere, penso rispecchi appieno il concetto: ogni loro nuovo album è una completa e totale sorpresa, ma suona sempre innegabilmente ‘Ulver’.
IL TITOLO “CUTTING THE THROAT OF GOD” EVOCA IMMAGINI E CONCETTI NIETZSCHIANI. L’UOMO CHE SI AUTOPROCLAMA DIO, FINENDO PER UCCIDERE L’ARCHETIPO DELLA DIVINITÀ.
CI SONO ANDATO VICINO? SU QUALI TEMI SI CONCENTRANO I TESTI?
– Posso cogliere il riferimento, ma non è da lì che in verità ci siamo mossi.
Nelle prime fasi del songwriting, abbiamo notato che stavamo sviluppando un’atmosfera molto specifica, una combinazione di inquietudine, tristezza e terrore che si ripeteva in gran parte del materiale. Quando è giunto il momento di iniziare a scrivere i testi e di iniziare a pensare a come visualizzare quell’atmosfera, sia io che Paul siamo arrivati in un luogo simile, una sorta di purgatorio a cui si accede dopo aver rotto significativamente il proprio codice morale interno.
La sensazione di quando un confine viene infranto (volontariamente o involontariamente), e il sentimento di rimorso o di terrore di non riuscire a ritornare allo stato precedente prende il sopravvento. Questo può manifestarsi nei modi più superficiali (una menzogna che diventa sempre più grande detta ad un amico), fino alla peggiore violenza sociopatica esterna.
Un ‘inferno auto-replicante’ era la mia sintesi, e questo ha poi trovato la sua strada in “Cutting the Throat of God”. Il titolo dell’album doveva avere un certo livello di severità e audacia, e anche se potrebbe esserci confusione intorno al nostro uso della metafora (non ci sono riferimenti alla religione abramitica), non appena lo abbiamo trovato, è stato subito chiaro che emanava il feeling giusto.
LA PRODUZIONE È LA PIÙ METICOLOSA DELLA VOSTRA CARRIERA E – OLTRE AL CONTRIBUTO DI MAGNUS LINDBERG – PENSO CHE IL TUTTO SI LEGHI ALLA TUA CRESCENTE ESPERIENZA COME INGEGNERE DEL SUONO. LE REGISTRAZIONI AVVENGONO CON UN’IDEA CHIARA IN MENTE O SPERIMENTI CON I SUONI MAN MANO CHE IL LAVORO VA AVANTI?
– Beh, grazie! Siamo d’accordo: ora siamo in grado di eseguire ciò che ‘vediamo’ come risultato finale, e il versante della produzione non è diverso.
In realtà, abbiamo fatto tre o quattro pre-produzioni durante il processo di scrittura di due anni, in cui abbiamo iniziato a restringere i suoni della batteria e i toni degli amplificatori. Direi che, quando abbiamo registrato effettivamente l’album, avevamo già una base in cui sapevamo cosa ci piaceva e cosa non ci piaceva in termini di prestazioni, toni e mix. Quindi il lavoro di finale è stato meno incentrato sulla risoluzione dei problemi e più sulla creatività e sugli elementi di produzione.
Non sono un ingegnere professionista, quindi per me la cosa funziona quando posso costruire i nostri mix lentamente, in diverse sessioni, permettendomi di lavorare con un orecchio neutro, cosa sorprendentemente difficile da fare quando si mixa la propria musica.
In termini di mastering, sì, ho lavorato per la prima volta con Magnus su “Adumbration of the Veiled Logos” dei Verberis, e sono stato molto felice della collaborazione. Ha un bel modo di non influire affatto sul mix, aggiungendo solo una qualità ‘finita’ molto nitida, ed è attento a preservare quanta più gamma dinamica possibile. Possiede anche un set di orecchie molto fidato, dopo che hai ascoltato il tuo ‘master’ ogni giorno per un mese.
ANCHE SE VI SIETE SEMPRE AFFIDATI A ETICHETTE DISCOGRAFICHE PER PUBBLICARE LA VOSTRA MUSICA, AVETE MANTENUTO UN FORTE APPROCCIO DO-IT-YOURSELF. PUNK, IN UN CERTO SENSO, DOVE GESTITE AUTONOMAMENTE LE REGISTRAZIONI E LE GRAFICHE (TRA LE ALTRE COSE).
DA DOVE DERIVA QUESTO MODO DI GESTIRE LA VOSTRA ARTE? RESTANDO IN TEMA, UNA BAND COME I MGŁA HA DIMOSTRATO COME L’AUTOGESTIONE POSSA ESSERE EFFICIENTE E REDDITIZIA…
– Assolutamente. È un ethos underground ostinato, a cui rifiutiamo di rinunciare, nel bene e nel male. Siamo fan di questo spirito punk sin dall’inizio, anche se è una cosa nata più per necessità che altro, a dirla tutta. Abbiamo iniziato in un’era di demo CD-R fatti a mano e di cassette scambiate, e abbiamo imparato a registrarci usando un registratore a nastro a quattro tracce quando eravamo al liceo. Era l’aspetto delle registrazioni che più mi affascinava, e così abbiamo continuato a farlo senza mai fermarci.
Poiché mi sono anche spostato nel territorio del design grafico con le attività lavorative diurne, è stato altrettanto naturale occuparmi di quel lato delle cose. Ovviamente, collaboriamo con parti fidate qua e là, ma l’ethos è rimasto sempre lo stesso: detenere il controllo di quanti più processi possibile. L’industria musicale è anche piena di truffatori e ciarlatani che cercano di sfruttare il tuo successo, quindi ci teniamo a tenere il tutto il più chiuso e impermeabile possibile.
PARLANDO DI MGŁA, ERO PRESENTE ALLO SHOW DI MADRID: DAVVERO UNA SERATA MEMORABILE. QUALI SONO I TUOI RICORDI DI QUEL TOUR? VI CONOSCEVATE GIÀ?
– Un tour memorabile, uno dei migliori che abbiamo mai sostenuto. Abbiamo conosciuto i ragazzi ad un paio di festival in Australia nel 2017, e prima di allora eravamo già fan dei reciproci progetti.
Il tour è stato incredibilmente ben gestito, tutte le band e la crew erano composte da persone sinceramente fantastiche, quindi ci siamo divertiti un mondo.
Tutti gli spettacoli sono andati molto molto bene, e la ricezione del pubblico è stata entusiasta. Siamo tornati sentendoci estremamente positivi riguardo a “Stare Into Death…” (è stato il primo tour dopo l’incubo del Covid menzionato poc’anzi).
TECNICA E IMPATTO EMOTIVO SONO DA SEMPRE I PILASTRI DELLA VOSTRA MUSICA. RIPENSANDO A QUANDO AVETE INIZIATO, È STATO NATURALE TROVARE IL GIUSTO EQUILIBRIO? SAPEVATE GIÀ CHE TIPO DI ESTETICA VOLEVATE ABBRACCIARE O È QUALCOSA CHE AVETE RAGGIUNTO STRADA FACENDO?
– È stata solo un’evoluzione naturale, man mano che i nostri gusti si sviluppavano e diventavamo più abili con i nostri strumenti e imparavamo a parlare con loro, piuttosto che eseguire semplicemente le nostre idee. Quando abbiamo iniziato, eravamo adolescenti che emulavano i loro idoli, niente di più, non vi erano ambizioni maggiori.
Quando però abbiamo finito di scrivere “Everything Is Fire”, sapevamo di avere per le mani qualcosa di più grande della somma delle sue parti, e la ricezione di quell’album ce lo ha davvero dimostrato. È una sensazione intangibile di connessione con un pubblico che inizi a vedere crescere, il che è molto bello.
PENSANDO ALLA MUSICA PRODOTTA IN NUOVA ZELANDA E IN AUSTRALIA, PENSO SIA POSSIBILE IDENTIFICARE UNA SORTA DI PATTERN IN TERMINI DI INTENSITÀ E OSTILITÀ. DAI PRIMI LAVORI DI SADISTIK EXECUTION E BESTIAL WARLUST FINO AD OGGI, CON GRUPPI COME VOI, ALTARS, HERESIARCH, VERBERIS, ECC. QUAL È SECONDO VOI LA RAGIONE?
– Sì, decisamente, è sempre stata una parte importante di un certo sottogruppo di band provenienti dall’Oceania. Almeno per noi, è stato dovuto all’isolamento nei nostri primi anni di attività e allo scambio con i nostri pari dell’epoca, piuttosto che a un’influenza globale più ampia.
Nei primi anni Duemila, c’era un gruppo di band molto legato qui, ed esisteva una certa competitività che ci spingeva a scrivere materiale che fosse davvero punitivo. C’era una visione chiara sul modo ‘giusto’ e ‘sbagliato’ di approcciare il metal estremo, ed eravamo tutti abbastanza rigidi in questo senso. Direi che un bel po’ di quel sentimento è arrivato fino ai giorni nostri, anche se la tavolozza sonora si è ampliata.
RICORDI COM’È AVVENUTO IL TUO IMPRINTING CON IL METAL ESTREMO E COSA LO HA INNESCATO?
– Per me, è stato spulciare e acquistare CD nei negozi di dischi (di nuovo, si parla di fine anni Novanta/inizio anni Duemila, senza Internet), spesso basandomi sulla copertina, sull’etichetta discografica o sui ringraziamenti nei crediti.
Quindi ho iniziato con Slayer, Pantera e simili, passando abbastanza rapidamente a Obituary, Bolt Thrower e poi primi Cryptopsy, Nile, Suffocation, Morbid Angel… a quel punto è iniziata l’ossessione per la musica veramente outsider e ‘aliena’. Tutto questo è successo nell’arco di circa un anno, almeno per quanto mi ricordo.
Era proprio il periodo in cui stavo imparando a suonare la batteria (tredici/quattordici anni), quindi potevo immediatamente triangolare la follia di quegli album, anche se non sempre riuscivo a mettere a terra le cose e a capirle. Il semplice meccanismo del cercare di suonare ciò che stavo ascoltando era sia scoraggiante che stimolante.
ULTIMAMENTE, DA QUALI PERIODI O STILI MUSICALI TI SENTI PIÙ ATTRATTO COME ASCOLTATORE?
– Non mi pongo limiti. Rock e pop anni Settanta e Ottanta, death e black metal degli anni Novanta, black metal contemporaneo (non molto death metal contemporaneo, a dire il vero), hardcore dei primi anni Novanta, crust/d-beat contemporaneo, jazz fusion, classica, moderna classica/elettronica (Nils Frahm, ad esempio), ambient, hip-hop (la roba più tosta).
Per me, non è tanto il genere che conta, quanto l’atmosfera che esprime, e non è un caso che mi piaccia la musica oscura, severa, triste, inquietante, contemplativa. Preferisco che la musica non sia iper-prodotta, e che abbia un tocco umano reale, motivo per cui non sopporto molto del death metal moderno.