Ride spesso, Mick Box, durante la nostra intervista, e lo fa in maniera contagiosa, visibilmente soddisfatto di come stiano andando le cose per i suoi Uriah Heep. D’altra parte, come dargli torto? Cinquant’anni di carriera, una discografia sterminata, il supporto e la stima di musicisti provenienti dai generi più disparati, dal progressive al metal. Avrebbero potuto (e meritato di) essere grandi tanto quanto Led Zeppelin, Black Sabbath e Deep Purple; invece gli Uriah Heep hanno dovuto lottare per ottenere il giusto riconoscimento. A pochi giorni dalla data italiana del tour celebrativo del cinquantennale, il prossimo 18 ottobre al Teatro Dal Verme di Milano, abbiamo avuto il piacere di fare una lunga chiacchierata con il leader a fondatore degli Uriah Heep, ripercorrendo con le sue parole, le tappe principali della storia della band.
MICK, IL VOSTRO TOUR PER IL CINQUANTENNALE E’ INIZIATO DA QUALCHE SETTIMANA, COME STA ANDANDO?
– Va molto bene, abbiamo iniziato da poco il tour e stiamo ricevendo un’ottima accoglienza sia dal pubblico che dai media. Questa sera suoniamo a Monaco. E’ un set molto lungo, che ha una parte acustica, una elettrica… E’ un appuntamento fuori dal normale anche per un fan degli Heep.
VISTA L’OCCASIONE, ALLORA, FACCIAMO UN PICCOLO VIAGGIO NELLA VOSTRA CARRIERA E PARTIAMO DALL’INIZIO. C’E’ L’ANEDDOTO, ENTRATO NELLA STORIA, DELLA RECENSIONE NEGATIVA DEL VOSTRO PRIMO ALBUM SU ROLLING STONE, IN CUI L’AUTRICE DICEVA CHE SE ANCHE LA VOSTRA BAND AVESSE AVUTO SUCCESSO, LEI SI SAREBBE SUICIDATA. COSA AVETE PENSATO NEL LEGGERE UNA COSA DEL GENERE SU UNA RIVISTA COSI’ IMPORTANTE?
– Quando uscì quella recensione ci facemmo tutti una risata e sai perché? Perché questa è una cosa inutile da dire a qualunque band: non aveva espresso una sua legittima opinione, stava dicendo semplicemente la cosa peggiore che le fosse venuta in mente. In generale, comunque, devo dire che all’inizio abbiamo avuto parecchia pubblicità negativa da parte dei giornalisti. Il nostro primo album è del 1970 e all’inizio degli anni Settanta i Deep Purple erano già una realtà solida, così come anche i Black Sabbath e i Led Zeppelin. Noi arrivammo dopo e la stampa voleva già qualcosa di diverso, un cambio di prospettiva, quindi quando noi raggiungemmo i nostri primi successi, loro si accanirono contro di noi. La cosa positiva fu che, invece, al pubblico piacemmo da subito e il nostro nome iniziò a diffondersi come un incendio: nel ’73 pubblicammo “Demons And Wizards” e da allora siamo una band di livello mondiale e nessuno ha più niente da dire al riguardo!
NEGLI ANNI SETTANTA AVETE PUBBLICATO UN NUMERO DI CAPOLAVORI FUORI DAL COMUNE. QUANDO HAI AVUTO LA SENSAZIONE DI AVER RAGGIUNTO IL SUCCESSO COME MUSICISTA?
– Credo sia stato proprio con “Demons And Wizards”: grazie a quella copertina di Roger Dean, ci siamo trovati per la prima volta con un prodotto in cui l’immagine e la musica erano strettamente collegate, e pubblicammo la nostra prima hit, “Easy Livin’”, che venne trasmessa in tutto il mondo. Oggi diremmo che diventò ‘virale’ (ride, ndR). Quel brano ci presentò ad un pubblico sempre più grande ed anche i nostri tour, di conseguenza, si allargarono sempre di più. Il risultato è oggi gli Uriah Heep suonano in sessantadue paesi. Un buon successo, no?
NEGLI ANNI OTTANTA MOLTE BAND DI SUCCESSO ANDARONO IN CRISI, NON RIUSCENDO A TROVARE UNA PROPRIA STRADA RISPETTO ALLE CORRENTI E ALLE MODE DEL NUOVO DECENNIO. TU COSA RICORDI DI QUEGLI ANNI? SE PRENDIAMO AD ESEMPIO UN ALBUM COME “ABOMINOG” VEDIAMO UNA BAND COMPLETAMENTE RICOSTRUITA.
– Quando ci separammo da David Byron e Gary Thain morì per overdose, per noi fu un momento difficilissimo: non è facile sostituire musicisti di quella caratura. Però siamo andati avanti, issando il vessillo degli Uriah Heep con nuove canzoni, nuovi membri e trovando comunque sempre il successo. Se le cose fossero andate male a quest’ora saremmo già morti e sepolti. Ogni line-up ha saputo trovare il modo per tenere alta la qualità e questo ci ha fatto stare sempre a galla anche nei decenni successivi al successo degli anni Settanta. L’arrivo di John Lawton fu provvidenziale, perché David aveva una voce unica e una presenza carismatica sul palco, ma lui riuscì a far valere il suo timbro potente e a portare il suo carisma, che non era inferiore a quello di David. In quegli anni avevamo un grande successo in Germania e John aveva una moglie tedesca, negli show in Germania parlava la loro lingua e questo ci ha dato una spinta ulteriore. Arrivando quindi alla tua domanda, agli anni Ottanta, mi trovai a riformare completamente la band per l’album “Abominog”: tornò Lee Kerslake alla batteria, arrivò Bob Daisley al basso, e John Sinclair, degli Heavy Metal Kids, alle tastiere. Sinclair era un ottimo musicista, viveva a Los Angeles e venne a stare da me a Londra per un po’. A cantare c’era Peter Goalby, ci mettemmo al lavoro e in un paio di settimane l’album era già pronto: andò bene, anche negli Stati Uniti, dove entrò in classifica e questo ci permise di continuare a sventolare la bandiera degli Uriah Heep. E’ un ciclo continuo, come vedi: come quando arrivò Bernie Shaw, ci eravamo imbarcati in un tour sfiancante, dove suonavamo sei giorni a settimana e Bernie aveva una resistenza pazzesca, la gente veniva da me dopo il concerto dicendo che finalmente avevo trovato il cantante definitivo per gli Heep.
HAI PARLATO DI MOMENTI DIFFICILI: HAI MAI PRESO IN CONSIDERAZIONE L’IDEA DI MOLLARE E DI SCIOGLIERE DEFINITIVAMENTE LA BAND?
– No, non sono uno che molla il colpo (ride, ndR). Vedi, io ho fondato questa band assieme a David Byron, per me è davvero difficile pensare di lasciare, però ricordo un momento particolarmente difficile all’indomani dell’album “Conquest”, che avevamo pubblicato con John Sloman alla voce, Chris Slade alla batteria e Trevor Bolder al basso. Una volta chiusa quella fase degli Uriah Heep, ricordo di essere tornato a casa e di essermi preso una sbronza colossale…
A VOLTE E’ LA COSA MIGLIORE…
– Esatto, ci sono momenti in cui bisogna farlo (ride, ndR)! Poi le cose sono ripartite quasi per caso: avevo chiamato Lee Kerslake per fargli gli auguri in vista dell’inizio del tour americano con Ozzy Osbourne e lui mi disse che non ci sarebbe andato, per via di alcuni problemi con Sharon. Presi la palla al balzo e gli chiesi di tornare nella band; gli dissi che avevo tutto, un contratto, la strumentazione, mi serviva ‘solo’ la band. Lui accettò, ma ad una condizione, che non fosse più coinvolto Gerry Bron, il nostro vecchio manager; gli dissi che a quello avrei pensato io e poi gli chiesi: “e Bob Daisley? Lui che sta facendo?”. Lee mi rispose che anche lui era senza lavoro e così tutto si rimise in pista. Poche settimane dopo stavamo lavorando su “Abominog”.
ARRIVIAMO QUINDI AD UN NUOVO DECENNIO. NEGLI ANNI NOVANTA HAI RECLUTATO DUE MEMBRI FONDAMENTALI COME BERNIE SHAW E PHIL LANZON, CHE HANNO DATO UNA VENTATA DI FRESCHEZZA ALLA BAND E CON I QUALI HAI REGISTRATO LAVORI ECCELLENTI. CI VUOI RACCONTARE DEL LORO INGAGGIO?
– All’epoca stavo cercando un tastierista e mi ricordavo di Phil, che avevo visto suonare al Marquee Club di Londra, quando ancora era nei Grand Prix. Pensavo che lui potesse essere la scelta migliore per noi, perché sa cantare, sa suonare benissimo, sa scrivere… Riuscii a rintracciarlo in Australia, quando lui era impegnato in un tour con gli Sweet. Pensa che riuscii a parlargli al telefono mentre era da qualche parte in Tasmania e gli dissi: “senti, non voglio farti pressione, se sei soddisfatto resta pure dove sei, ma ho bisogno di un nuovo tastierista, perché abbiamo tante idee, un sacco di materiale e tanto lavoro da fare”. Lui mi disse che con gli Sweet le cose non stavano andando per il verso giusto ed era interessato al posto. Gli dissi di prendere carta e penna e gli dettai tutta la nostra scaletta di quel periodo, gli dissi di cercare un negozio di dischi e di iniziare ad ascoltare le canzoni. All’epoca non c’erano i file, non potevo mandargli tutto sullo smartphone, al massimo c’erano i walkman. Quando finalmente tornò a Londra, scoccò subito quella scintilla: avevamo le stesse idee, la giusta chimica, sapevo che avrebbe funzionato. Lui intanto aveva studiato le canzoni e le sapeva già tutte! Per quanto riguarda Bernie, invece, ero alla ricerca di un cantante e il suo nome me l’aveva fatto il nostro tecnico del suono, che aveva lavorato con i Grand Prix. Bernie aveva cantato nei Grand Prix assieme a Phil, ma all’epoca era in un’altra band, gli Stratus, la band che aveva formato Clive Burr degli Iron Maiden. Andammo quindi a sentirli dal vivo, sempre al Marquee, e si trattava del loro ultimo show. In quell’occasione parlammo di questa opportunità e provammo addirittura alcune armonie vocali, per scoprire quanto le nostre voci si armonizzassero bene assieme. A quel punto anche Bernie venne a trovarmi a Londra, a casa mia, e dopo un bel po’ di brandy, gli proposi di trovarci per fare delle prove ufficiali due giorni dopo. Lui si presentò in sala prove e sapeva già perfettamente le canzoni: venni a sapere solo dopo che aveva una band in Canada con cui suonava già le canzoni degli Heep! Da lì tutto si mosse in fretta ed avevo di nuovo una band completa.
COSA TI PERMETTE DI CONTINUARE A MANTENERE QUESTO ENTUSIASMO DOPO TUTTI QUESTI ANNI?
– Penso che alla fine tutto si riduca ad una sola parola: passione. Se ami quello che fai, continui a farlo con energia e creatività. Ho sempre avuto questa passione per la musica e in particolare per la nostra musica. E’ questo che mi ha spronato in tutta la mia carriera: ora ho settantacinque anni e qualcuno potrebbe pensare che sia arrivato il momento per me di appendere la chitarra al chiodo. Beh, non ci penso nemmeno (ride, ndR)! Fino a quando sarò in salute, continuerò a fare quello che faccio. Non facciamo nemmeno grandi piani a lungo termine, perché ci godiamo quello che abbiamo giorno per giorno. Ora, per esempio, abbiamo già un nuovo album in saccoccia e siamo pronti a ripartire da capo per promuoverlo e farlo sentire alla gente.
RACCONTACI COME NASCE UNA CANZONE DEGLI URIAH HEEP? COMPONI DA SOLO O ASSIEME AL RESTO DELLA BAND?
– Lavoro soprattutto con Phil Lanzon. Quando lavoro ad un nuovo album mi trovo tra le mani milioni di riff, di idee, e altrettante vengono a Phil, quindi ci troviamo e iniziamo a discuterne assieme. Scriviamo molto velocemente, perché siamo un team molto affiatato. E’ diventato facile, un’esperienza veramente piacevole: ci sono artisti che faticano a creare canzoni, ma non è il nostro caso. Ci divertiamo e penso che si senta nel risultato finale. E’ stato più difficile durante la pandemia, questo sì, perché non potevamo stare fisicamente assieme e lavoravamo a distanza. Quando sei nella stessa stanza con un altro musicista, diventa tutto più immediato e veloce, invece così io davo a Phil qualcosa su cui lavorare e lui magari me la rimandava due giorni dopo, perché nel mentre doveva andare dalla sua famiglia, o a fare shopping, o a portare fuori il cane (ride, ndR)! Ci è voluto più tempo del solito, ecco. Però non abbiamo fatto tutto da soli, il nostro batterista, Russell Gilbrook ha scritto alcune canzoni con un altro chitarrista e Davey Rimmer ne ha scritta un’altra con Jeff Scott Soto, come aveva fatto anche in “Living The Dream”. Per la prima volta, quindi, siamo stati davvero tutti coinvolti nella composizione, il che è fantastico.
SE DOVESSI SCEGLIERE UN ALBUM DEGLI URIAH HEEP CHE TI SEMBRA SOTTOVALUTATO E CHE DOVREMMO RIPRENDERE IN MANO, QUALE CI CONSIGLIERESTI?
– Tutti! (ride, ndR) Tempo fa mi è stato dato un premio da un magazine inglese, il Progressive Rock Award, come fonte di ispirazione per il genere. E in effetti se pensi ad un brano come “Salisbury”, ci sono tanti elementi progressive. Ero seduto al tavolo con l’editore della rivista e lui mi ha raccontato di come all’inizio fosse sorpreso della scelta di dare il primo a noi, ma uno di suoi gli aveva risposto: ascoltati i primi tre-quattro dischi degli Uriah Heep e prova a dirmi se questo non è progressive rock. E dopo averlo fatto, l’editore era rimasto sorpreso di come non avesse mai dato il giusto peso a quegli album all’epoca. La musica è così, è senza tempo, a volte ti passa di fianco senza che tu te ne accorga e poi ritorna. Anche se un album è stato scritto nel 1970 non significa che non possa toccare un ascoltatore di oggi. Quindi se dovessi proprio sceglierne uno, forse direi proprio “Salisbury”: contiene un brano come “Bird Of Prey”, che è stato il nostro ingresso nelle armonie vocali che sono diventate un po’ un marchio di fabbrica. Le avevamo già usate in passato, se pensi ad una canzone come “Gypsy”, ma con “Bird Of Prey” lo portammo ad un livello superiore. C’è una canzone emozionante come “The Park”, con la voce in falsetto che è così pura da arrivarti diretta al cuore, c’è la suite progressive… E’ proprio bello!
GIUSTAMENTE GLI URIAH HEEP SONO RICONOSCIUTI COME UNA BAND FONDAMENTALE PER LO SVILUPPO DEL PROGRESSIVE ROCK, MA LO STESSO POSSIAMO DIRE NOI CHE CI OCCUPIAMO DI HEAVY METAL. GLI URIAH HEEP HANNO AVUTO UN’INFLUENZA IMPORTANTE SU TANTE BAND METAL.
– E’ così, abbiamo un piede nel progressive rock, uno nella musica pesante che poi è diventata il metal, nel rock, nel jazz, nel folk! Abbiamo sempre cercato di inglobare tante influenze diverse e anche il metal è una di queste: una canzone come “Gypsy” parla per sé, oppure un altro brano che abbiamo reintrodotto recentemente in scaletta, “Free ‘n’ Easy”, da “Innocent Victim”. E’ una canzone che ho scritto assieme a John Lawton e che oggi suoniamo quasi al doppio della velocità! Non potremmo essere più heavy di così!
TORNIAMO PER UN ATTIMO AL TOUR: COME AVETE SCELTO LA SCALETTA PER QUESTE DATE CELEBRATIVE?
– Devo ammettere che è un compito difficile. E’ più facile per Bernie, Russell o Davey: a loro posso dare una lista delle canzoni e loro direbbero ‘questa sì, questa no’ e via dicendo, perché quelle canzoni non hanno le stesse vibrazioni per loro, le avevano per la formazione che le ha scritte. Io devo quindi scegliere delle canzoni in cui loro possano credere al cento per cento, dobbiamo essere cinque persone che si muovono nella stessa direzione. Capita spesso che i fan ci dicano, perché non fate quella canzone? Ecco, il motivo probabilmente è questo. La selezione attuale ha il giusto equilibrio, fotografa tutto quello che sono stati gli Uriah Heep, nella musica, nei testi, nelle armonie, in acustico, in elettrico… Sono molto contento del risultato finale.
GLI URIAH HEEP HANNO SUONATO MOLTE VOLTE IN ITALIA, MA C’E’ UNA DATA CHE PER NOI DI METALITALIA.COM E’ SPECIALE: NEL 2013 SIETE STATI GLI HEADLINER DEL NOSTRO FESTIVAL! SI TRATTAVA DI UNA DI QUELLE DATE CHE HANNO VISTO JOHN LAWTON TORNARE AL MICROFONO PER SOSTITUIRE TEMPORANEAMENTE BERNIE SHAW…
– Ah sì, sono state delle date fantastiche! Una reazione fantastica dai fan e non è stato facile, perché John è dovuto intervenire all’ultimo e noi siamo stati costretti ad aggiustare la scaletta sulle sue necessità, su quello che conosceva e che poteva cantare in quel momento. La reazione dei fan è stato ciò che ha fatto la differenza, lo si vedeva sui loro volti. Ed è quello che stiamo cercando anche oggi, con questo tour, quelle stesse sensazioni: l’audience ti dà una scarica elettrica e tu la restituisci con la stessa energia, fino a che il pubblico e la band sono una cosa sola. E’ meraviglioso!
COME PROCEDONO INVECE I LAVORI SUL NUOVO ALBUM?
– Il nuovo album è finito! Manca giusto il mixaggio finale e poi l’etichetta, che si chiama Silver Lining, deciderà il momento migliore per pubblicarlo.
E COSA POSSIAMO ASPETTARCI? LE ATMOSFERE SARANNO IN LINEA CON QUANTO ASCOLTATO IN “LIVING THE DREAM”?
– Sì, le stesse atmosfere, ma credo sia complessivamente ad un livello superiore.
GUARDANDO SUL VOSTRO CANALE YOUTUBE, CI SIAMO IMBATTUTI IN UNA SERIE DI VIDEO IN CUI I FAN TI RIVOLGONO DELLE DOMANDE, SU DI TE O SULLA BAND, E TU PUBBLICHI POI DELLE RISPOSTE DIRETTE. E’ UN BEL MODO PER RIMANERE IN CONTATTO CON I FAN.
– Sì, eravamo chiusi in casa per via della pandemia e quindi bisognava trovare un modo per mantenere viva la band, in termini di visibilità, così mi sono trovato a fare un sacco di cose diverse. Video dal lockdown, la rubrica “Chiedi a Mick”, che è quella di cui parlavi ed è stata molto divertente, e poi mi sono occupato della mia fondazione a supporto della ricerca sul cancro, che raccoglie il contributo di musicisti , attori e artisti. Facciamo quelle iniziative per cui qualcuno paga per avere un video personalizzato di auguri e il ricavato va tutto in beneficenza, ovviamente. Non so proprio stare fermo a casa a girarmi i pollici (ride, ndR).
IL MUSIC BUSINESS IN QUESTI CINQUANT’ANNI E’ CAMBIATO TOTALMENTE E LO STESSO VALE PER IL PUBBLICO. OGGI E’ MENO PROBABILE CHE UN RAGAZZO MOLTO GIOVANE METTA DA PARTE I SUOI SOLDI PER COMPRARE UN BEL VINILE, PERCHE’ COMUNQUE E’ GIA’ TUTTO DISPONIBILE DAL PRIMO GIORNO DELL’USCITA GRAZIE AI SERVIZI DI STREAMING. PENSI SIA UN PROCESSO IRREVERSIBILE?
– Le cose stanno così, c’è del buono e del cattivo, come in ogni cosa. E’ un peccato vedere come la gente oggi ascolti, percepisca e fruisca della musica: con un dito. Ascoltano mezza canzone e subito ‘mi piace’, ‘non mi piace’. Noi eravamo abituati all’album nella sua interezza e dovevi avere una grande canzone di apertura, certo, ma poi quella pian piano diventava meno importante e lasciava spazio anche a tutte le altre, che prendevano vita. Era un viaggio, che adesso pochi decidono di intraprendere: chissà quanta bella musica è lì fuori che aspetta solo di essere ascoltata e nessuno lo sa. Però non credo sia irreversibile e il ritorno del vinile è un segnale importante: noi stiamo ripubblicando tutto il nostro catalogo su vinile, perché tante persone stanno riscoprendo il mondo analogico rispetto al digitale. A volte è frustrante, tu vai in studio, spendi un quantitativo enorme di soldi e tempo per arrivare al suono perfetto e poi l’acquirente riceve tutto questo pigiato a forza in un mp3. Non puoi avere la medesima esperienza di ascolto, però non ha senso opporsi, è una situazione che va abbracciata e capita, perché non andrà a sparire e anche noi artisti da una parte diciamo che non ci piace, ma poi usiamo anche noi i servizi di streaming come tutti gli altri. Anche in studio, le tecnologie digitali sono importanti e le usiamo, però cerchiamo di preservare il più possibile l’uso di strumennti analogici, perché sono quelli che portano calore ed emozioni.
BENE, MICK, GRAZIE DELLA CHIACCHIERATA. UN MESSAGGIO FINALE IN VISTA DELLA VOSTRA DATA DEL 18 OTTOBRE A MILANO?
– Venite ad ascoltarci! Non vediamo l’ora di attaccare la spina e suonare per voi! Ogni volta che veniamo in Italia è fantastico, vediamo volti felici, pugni alzati al cielo e questo è quello di cui ha bisogno il mondo oggi. Dimenticare per un poco quello che sta succedendo nel mondo e goderci la musica, abbracciandola in maniera totale. E non c’è posto migliore per farlo dell’Italia!