Nati nel cuore della fervente scena underground londinese, i Vacuous si stanno facendo notare come una delle realtà più interessanti del panorama death metal britannico contemporaneo. Con un suono che affonda le radici nella tradizione estrema ma che guarda senza troppo timore oltre i confini del genere, il quintetto ha attirato l’attenzione di Relapse Records, per la quale ha pubblicato il nuovo lavoro “In His Blood”. Un album cupo e profondamente emotivo, che non si limita a replicare formule del vecchio repertorio, ma le rielabora alla luce di influenze disparate, dal post-punk all’industrial, passando per intuizioni melodiche inaspettate e atmosfere soffocanti.
In questa intervista, Michael Brodsky, chitarrista della band, racconta com’è nato il sodalizio con l’importante label americana, il processo creativo dietro l’album e la volontà del gruppo di spingersi oltre i limiti del death metal più tradizionale, mantenendo sempre al centro l’autenticità emotiva. Emerge il ritratto di una formazione nel suo piccolo determinata a lasciare un segno personale e sincero nel panorama odierno.
“IN HIS BLOOD” SEGNA IL VOSTRO DEBUTTO CON RELAPSE RECORDS. L’ETICHETTA HA PUBBLICATO DISCHI FONDAMENTALI NEGLI ANNI ’90 E NEI PRIMI 2000, MA OGGI NON È PIÙ DIRETTAMENTE ASSOCIATA AL DEATH METAL. COM’È NATA QUESTA COLLABORAZIONE?
– Tutto il merito per il nostro accordo con Relapse va al nostro amico Charlie, che gestisce il negozio di dischi heavy metal Crypt of the Wizard a Londra. Ci supporta da anni e abbiamo registrato l’album agli Holy Mountain Studios, che si trovano nel seminterrato del suo negozio. Ha anche partecipato a diverse sessioni. Sapeva che stavamo cercando un’etichetta.
In quel periodo, un rappresentante di Relapse è passato per il negozio e Charlie ha accennato al fatto che avevamo appena finito un disco. Loro si sono mostrati interessati ad ascoltarlo, così Charlie ha organizzato la condivisione di un mix grezzo, e da lì è partito tutto. In realtà, non pensavamo nemmeno di proporre il disco a Relapse: ci sembrava fuori portata in quel momento, ma siamo davvero contenti di com’è andata.
Credo sia una buona combinazione: come dici tu, hanno pubblicato alcuni classici del death metal, ma col tempo si sono aperti ad altri generi e sembrano valorizzare la sperimentazione e le band ‘particolari’.
Per me personalmente, è grazie a Relapse che da adolescente ho capito cos’è veramente un’etichetta discografica: mi sono avvicinato al metal nei primi anni 2000, quando pubblicavano roba come Mastodon, Dillinger Escape Plan, High on Fire, ecc.
L’ALBUM MESCOLA DIVERSI ELEMENTI DELLA MUSICA ESTREMA, NON SOLO DEATH METAL. QUAL È STATA LA SFIDA PIÙ GRANDE NEL BILANCIARE QUESTI ELEMENTI? AVETE MENZIONATO IL FATTO DI ESSERVI ULTERIORMENTE APERTI AD ALTRE VOSTRE INFLUENZE. C’È STATO UN MOMENTO DURANTE LA SCRITTURA O LA REGISTRAZIONE IN CUI VI SIETE ACCORTI CHE STAVATE CREANDO QUALCOSA DI DIVERSO?
– Lo scopo della band, per noi, è sempre stato quello di fondere le nostre influenze personali e trasmetterle attraverso la lente di quello che può essere vagamente considerato death metal, che è una forma musicale molto permissiva e flessibile, almeno per noi. Credo che abbiamo semplicemente acquisito più fiducia nel prendere spunto da generi diversi e darci la libertà di uscire un po’ dallo stampo classico del death metal.
Per noi, l’importante è sempre la risonanza emotiva del brano, più che l’aderenza a un genere.
È stato interessante cercare di trasmettere una sensazione cupa, tetra e pesante usando però una tavolozza sonora più ‘morbida’. In questo senso, scrivere il brano “Hunger” è stato un punto di svolta, così come “Contraband”, che attingono molto da goth e post-punk. Alcuni dei brani più veloci e intensi, come la title-track, sono stati scritti per primi, probabilmente come reazione alla natura lenta, divagante e libera del nostro album precedente.
AVETE DICHIARATO CHE “HUNGER” È NATA IMMAGINANDO COME SUONEREBBE UNA CANZONE DEI THE CURE IN CHIAVE DEATH METAL. COME AVETE INCORPORATO QUESTA VIBRAZIONE NEL VOSTRO SOUND?
– Più o meno. L’idea è nata da una conversazione tra me e il nostro cantante Jo: commentavamo il riff principale di “One Hundred Years” dei The Cure, davvero oscuro e inquietante, dicendo che non sarebbe fuori posto in una canzone dei Deathspell Omega (siamo entrambi loro grandi fan).
Questo spunto mi è rimasto in testa, e ho iniziato a giocare con l’idea di usare un arpeggio alla Cure in un contesto death metal. In quel periodo ascoltavo anche “Zoon” dei Nefilim (una derivazione dei Fields of the Nephilim), e ho cercato di fondere un tipo di riffing ritmico e ossessivo con le parti pulite, fredde e gotiche. Poi il tutto si è evoluto in qualcosa di proprio, ma quella era l’ispirazione iniziale.
Abbiamo dovuto lavorare sodo in sala prove per non farla sembrare una parodia goffa e farla suonare autentica. Anche il nostro produttore Stanley Gravett ha contribuito con alcune idee per gli arrangiamenti, che ci hanno davvero aiutati a concretizzarla.
IL VOSTRO APPROCCIO NON È MAI STATO LINEARE: AVETE SEMPRE AVUTO UN SOUND APERTO. OGGI MOLTE BAND SI LIMITANO A SEGUIRE LE REGOLE E VOGLIONO SOLO SUONARE OLD-SCHOOL, IMITANDO I VETERANI – SCRIVIAMO UNA CANZONE ALLA MORBID ANGEL E VIA. È VERO CHE CERTE INFLUENZE TRADIZIONALISI SENTONO ANCHE DA VOI, MA CI SONO ARTISTI CONTEMPORANEI CHE VI ISPIRANO MUSICALMENTE O CONCETTUALMENTE?
– Siamo troppo giovani per fingere di essere una band old-school. Nessuno di noi era vivo quando è uscito “Altars of Madness”, quindi sarebbe forzato fingere di avere solo influenze anni ’80 e ’90. Siamo di un’altra generazione rispetto a quelle band, e sarebbe disonesto non riconoscere anche le nostre influenze più moderne.
Molti, secondo me, fraintendono ciò che rendeva grandi le band di quel periodo: il fatto che, all’epoca, non c’erano regole; ognuno spingeva le proprie influenze personali al massimo, ed è per questo che ognuna suonava in modo diverso. Noi, nel nostro piccolo, stiamo facendo lo stesso, ma dalla nostra prospettiva.
Quanto agli artisti contemporanei, la lista è infinita; ci sono molte band che conoscono bene la storia del metal estremo e riescono a dargli un tocco moderno: Spirit Possession, Concrete Winds, The Ruins of Beverast… Tra i nomi più grandi direi sicuramente Deathspell Omega (l’ultimo album che mi ha davvero spaventato è stato “Paracletus”) e Converge, soprattutto per il modo in cui fondono generi diversi dandogli un taglio trasgressivo.
Ma attenzione: adoriamo Morbid Angel, Incantation, Autopsy e tutte quelle band. Se siamo qui, è anche grazie a loro.
SECONDO TE, L’ORIGINALITÀ È SOPRAVVALUTATA NEL METAL DI OGGI? UNA BAND PUÒ ESSERE DAVVERO ECCEZIONALE E DEGNA DI ATTENZIONE SENZA ESSERE TROPPO ORIGINALE? SE SÌ, QUAL È ALLORA L’INGREDIENTE FONDAMENTALE CHE UNA BAND DEVE AVERE, OLTRE ALL’ORIGINALITÀ, PER DISTINGUERSI?
– Non credo che si debba per forza inseguire l’originalità a tutti i costi per creare musica interessante. Un esempio che mi viene in mente è Dead Congregation. È difficile sostenere che stiano facendo qualcosa di mai sentito prima, ma lo eseguono così bene, con tale convinzione e consapevolezza del proprio stile, che è facile capire perché molti li considerino una delle migliori death metal band dell’ultimo decennio e oltre. Magari lo sto citando male, ma credo che David Lynch una volta abbia detto qualcosa tipo: “Tutto nell’arte è già stato detto/fatto, solo non da te” – e trovo che sia un modo bellissimo di vedere la questione. Nulla è davvero originale: assimili ciò che ti ispira e lo filtri attraverso la tua visione.
In definitiva, devi essere autentico con te stesso e appassionato di ciò che fai. Chi sa ascoltare, riconosce subito ciò che è autentico. Io percepisco subito quando una band scrive solo per inserirsi in una scena o in uno stile, e trovo che sia una cosa totalmente inutile nel metal estremo, dove le possibilità di ‘sfondare’ sono praticamente nulle. Ricordo un’intervista con uno degli Enslaved, anni fa, in cui diceva: “Essere estremi nel metal non significa suonare più veloce o più pesante, ma quanto sei disposto a mettere di te stesso nella tua musica”. Mi è rimasta impressa.
Non credo che ciò che facciamo sia particolarmente originale o rivoluzionario, ma posso dire che è un riflesso onesto e personale di noi stessi. So che suona pretenzioso, ma è quello che penso!
SE DOVESSI SPIEGARE A UN VECCHIO METALLARO, CHE HA SMESSO DI ASCOLTARE MUSICA NUOVA DOPO IL 1999, COME SUONANO I VACUOUS, PARAGONANDOVI A BAND O ALBUM LEGGENDARI DEI PRIMI TEMPI, COSA DIRESTI?
– Direi semplicemente che siamo una band death metal. Inventarsi etichette tipo post-/atmospheric/whatever metal mi sembra inutile. Di solito, quando la gente sente ‘death metal’, capisce già se vale la pena ascoltarci o no (spoiler: per la maggior parte, no!).
Se dovessi scegliere un solo album degli anni ’90 per far capire a quel vecchio metallaro chi siamo, direi “To the Depths, In Degradation” degli Infester. È un disco davvero strano per gli anni ’90, a metà tra vari movimenti death metal. Ha un’atmosfera unica, ultra-cupa, disperata e soffocante, non così comune all’epoca. Il modo in cui alterna melodia e dissonanza è qualcosa a cui torno spesso quando scrivo per Vacuous. Tra l’altro, il loro batterista è venuto a un nostro concerto un paio di anni fa, e io indossavo una maglietta bootleg degli Infester sul palco. Gli ho dato un nostro CD per farmi perdonare e gli ho detto quanto la sua musica significasse per noi!
VI VEDETE IN FUTURO A SPERIMENTARE ANCORA DI PIÙ CON ALTRI GENERI? VI VEDETE A FARE COME I KATATONIA O NOMI SIMILI E AD ABBANDONARE DEL TUTTO IL METAL ESTREMO?
– Siamo una band che deve continuare a evolversi per mantenere viva la passione. È importante per noi che ogni album sia distinto dal precedente e segni una nuova fase. Ci sono ancora molti stili e idee che vogliamo esplorare, e anche se questo ci porterà in territori nuovi, è difficile immaginare uno scenario in cui il death metal non sia almeno uno degli ingredienti – è la colla che tiene insieme i cinque di noi. Detto ciò, dal materiale già scritto per il prossimo album, posso dire che ci sono state parecchie sperimentazioni e alcune cose strane e interessanti stanno già emergendo.
Io sono un grande fan dei Paradise Lost, e anche se non mi piace ogni singolo loro album, trovo il loro percorso musicale affascinante. Nonostante i cambi di stile, il loro modo di scrivere è sempre riconoscibile, e lo adoro. Ovviamente rispetto anche band come gli AC/DC, che hanno perfezionato uno stile e non l’hanno mai cambiato, ma per noi non sarebbe stimolante a livello creativo. Abbiamo bisogno di rompere nuovi schemi a ogni uscita, altrimenti non avrebbe senso continuare.
L’ALBUM TRATTA TEMI PESANTI, DALLA VIOLENZA ALL’ALIENAZIONE SOCIALE. DA DOVE ARRIVA L’ISPIRAZIONE PER I TESTI?
– Jo ha scritto tutti i testi, ma ne abbiamo parlato a lungo insieme. In generale, il disco parla di come la società e gli individui consumino immagini di violenza reale. Siamo bombardati ogni giorno da informazioni e immagini orribili, tanto da diventare insensibili. I
l titolo dell’album è nato dopo che Jo ha visto un post sui social di un uomo che si vantava di un omicidio, posando per una foto nel sangue della vittima. Da lì è iniziato un percorso di riflessione. Internet è diventato una sorta di cimitero dei traumi altrui, e credo che consumare tutto questo passivamente ci faccia perdere umanità, e che il valore della vita umana sembri calare col passare del tempo.
Jo è anche un esperto di cinema horror e credo che film come “Pulse” e “Red Rooms”, in cui si parla di voyeurismo online, trauma e violenza, siano stati dei riferimenti.
AVETE IDEOLOGIE PERSONALI? QUESTE INFLUENZANO IL VOSTRO APPROCCIO ALLA MUSICA O NE COSTITUISCONO LA BASE TEMATICA?
– Non direi che siamo una band ideologica o politica. Ma non siamo nemmeno nichilisti, anche se a volte la nostra musica è stata descritta così!
Ognuno di noi ha sensibilità per alcune questioni sociali, che si riflettono anche in come ci comportiamo come band: abbiamo raccolto e donato fondi per varie cause. Alcuni di noi lavorano nel settore no profit e mi piace pensare che siamo persone abbastanza compassionevoli.
Non so se tutto ciò emerga nella musica, se non forse per il nostro focus sulle emozioni umane anziché su uno shock gratuito, che invece è la norma nel metal estremo.
COME TRADUCETE L’INTENSITÀ E L’ATMOSFERA DI “IN HIS BLOOD” IN UN CONTESTO LIVE? AFFRONTATE I CONCERTI IN MODO DIVERSO DALLE REGISTRAZIONI IN STUDIO?
– Dal vivo suoniamo in modo molto più sfrontato, soprattutto perché il nostro batterista Max suona molto veloce. Il nostro album precedente, “”Dreams of Dysphoria”, era molto più trattenuto sotto questo aspetto, e anche se eravamo soddisfatti del risultato, sentivamo di aver perso un po’ dell’aggressività e intensità dei concerti, che volevamo recuperare con questo nuovo lavoro.
Credo che “In His Blood” rappresenti bene l’energia che abbiamo dal vivo. È stato registrato senza click track, quindi ci sono molte fluttuazioni naturali nei tempi. Ci sono anche parecchie imperfezioni ed errori che abbiamo deciso di lasciare nel prodotto finale.
In studio ci siamo concessi un po’ di spazio per divertirci con tastiere, sovraincisioni di chitarra e qualche tocco atmosferico, ma per il resto credo sia un ritratto piuttosto fedele di come suoniamo realmente insieme in una stanza.
QUAL È STATA FINORA LA REAZIONE PIÙ SORPRENDENTE O INASPETTATA ALLA VOSTRA MUSICA, DA PARTE DI FAN, CRITICI O ALTRI MUSICISTI?
– Per questo nuovo album, molte persone si sono arrabbiate per il fatto che non stiamo più usando il nostro logo ‘classico’ death metal. Quando annunciammo il disco precedente, la gente scherzava su quanto fosse illeggibile il logo. Decidetevi!
Scherzi a parte, ci sono stati anche riconoscimenti molto belli: siamo finiti nella classifica di fine anno di Time Out Magazine nel 2022. Di recente una nostra canzone è stata trasmessa su BBC Radio 1, che qui nel Regno Unito è un grande traguardo. Sono cose che anche chi non ascolta metal – tipo le nostre famiglie – può capire e apprezzare.
Ma per me, la cosa più bella è stata scoprire che a Fenriz dei Darkthrone piace la nostra musica e ci ha trasmesso nel suo programma radio. Lo rispetto moltissimo, quindi è stato davvero speciale!