Matematico e vulcanologo, con la passione per la… Pietrificazione. Sono i tratti principali che contornano la figura di Paolo Gorini, scienziato lombardo dell’800 intorno al quale i Warmblood hanno costruito il loro ultimo album, “Master Of The Dead”. Il maestro della morte, su cui il terzetto lodigiano ha inciso un autentico concept, portando in musica la storia di Gorini. Cadaveri, sangue: temi più che frequenti in ambito death metal, ma è la putrefazione che porta con sé quel tasso ulteriore di macabro a rendere ancor più singolare l’opera del gruppo guidato dal chitarrista e cantante Giancarlo Capra, Davide Mazzoletti alla seconda chitarra ed Elena Carnevali alla batteria. Ed è proprio con l’intera formazione che, in occasione del ritorno on stage in quel di Lodi, abbiamo avuto la fortuna di scambiare due chiacchiere: si è parlato ovviamente del nuovo album e di Paolo Gorini, ma anche di old-school, di Iron Maiden, di batteriste. Come una vecchia serata tra amici. Buona lettura!
ALLORA RAGAZZI, IL VOSTRO NUOVO ALBUM HA RICEVUTO PARECCHI RISCONTRI POSITIVI. DOMANDA SECCA: VI ASPETTAVATE UN RISCONTRO SIMILE?
– Giancarlo: No, mi aspettavo più critiche sinceramente, soprattutto sulla produzione. Abbiamo puntato su un qualcosa di più old-school, poco moderno, niente trigger, non abbiamo voluto utilizzare troppe tecnologie. Certo, abbiamo fatto editing, però volevamo sostanzialmente un suono abbastanza vicino a quello dei live; temevamo non piacesse e invece devo dire che è stata parecchio apprezzato.
UN SUONO POCO MODERNO CHE VA OLTRE QUEL ‘PIATTUME’ SONORO DI FONDO CHE SPESSO CARATTERIZZA LE ULTIME PRODUZIONI, ANCHE DI NOMI PIU’ BLASONATI DEL VOSTRO.
– Giancarlo: Oggi le produzioni moderne puntano a schiacciare molto e a comprimere tantissimo; poi coi trigger la batteria spinge sempre a palla, escludendo tuttavia le varie dinamiche. Suoni potentissimi! …Sì, bello però sinceramente mi ero molto stufato di queste produzioni, gli altri anche, quindi abbiamo detto “facciamo un disco come si faceva negli anni ’90“, più naturale possibile, usando ovviamente la tecnologia – perché non è che ci siamo messi lì a fare le cose analogiche – però abbiamo messo microfono davanti alle casse, abbiamo messo le testate, siamo entrati, abbiamo suonato, registrato e poi ovviamente abbiamo usato il computer. Siamo riusciti, secondo me, a ottenere un risultato non eccezionale però buono; abbiamo fatto un esperimento che uscito abbastanza bene.
A PROPOSITO, DA DOVE SALTA FUORI IL NOME “WARMBLOOD”?
– Giancarlo: Allora, è cominciato tutto tantissimi anni fa: il gruppo è nato infatti nel 2002 e quest’anno festeggiamo pure il ventennale (!); ero, e sono tutt’ora, un superfan di Lucio Fulci e i testi dei nostri primi dischi erano quasi sempre ispirati ai suoi film. Non volevo però utilizzare una parola tratta da qualche suo lavoro; volevo qualcosa di potente e che contenesse la parola ‘sangue’ al suo interno; poi ho pensato al caldo, come il sangue appena sgorgato, ancora ‘fresco’, per assurdo. È nato così, poi ho chiesto “Warmblood vi piace? Ma sì dai!“; era anche un pezzo dei Cryptopsy (“Cold Hate, Warm Blood” dell’album “Whisper Supremacy”, ndr) e niente alla fine ho detto “Ok teniamolo“. Nel tempo ho valutato l’idea di trasformare il ‘warm’ in ‘worm’ però poi ho deciso di mantenere la ‘a’ visto che siamo nati così.
BRAVO. PARLIAMO QUINDI DEL NUOVO “MASTER OF THE DEAD”. COSA SI NASCONDE DIETRO QUESTO TITOLO E ALLA FIGURA DI PAOLO GORINI SU CUI APPUNTO IL DISCO È INCENTRATO?
– Giancarlo: Beh Paolo Gorini era di Lodi, o meglio è nato a Pavia ma poi è cresciuto ed ha lavorato a Lodi, e noi lo sentiamo parecchio come evocatività nel nostro vissuto quotidiano, siamo appassionati delle sue vicende da sempre e si presta molto al genere che facciamo. È una figura molto interessante: sembra uscita da un libro gotico dell’Ottocento, con la differenza che lui è esistito davvero. Se ci pensi, è perfetto: metà Ottocento, laboratorio, cadaveri, lui che cercava di fare esperimenti per conservare e sezionare i corpi… Non era neanche medico.
– Elena: Era matematico e vulcanologo. Aveva questa ossessione per il corpo in putrefazione: questa visione, magari di un proprio parente, del padre o della madre, che potesse deteriorarsi in questo modo lo infastidiva parecchio, non lo accettava e così ha iniziato a fare esperimenti per prevenirla.
TESI ED ESPERIMENTI CHE, SE NON SBAGLIO, SONO IN QUALCHE MODO SPARITE CON LUI?
– Giancarlo: Sì, esatto: la sua formula si è scoperta penso vent’anni fa, o forse meno. Prima di morire, infatti, l’aveva rivelata solo ad un suo amico medico, per cui era andata pressoché perduta. È stato poi ritrovato un foglietto con questa formula scritta a mano in alcuni suoi vecchi reperti, ma solo poco tempo fa.
CHE POI È QUELLA CHE TU STESSO LEGGI DURANTE UNO DEI PEZZI DELL’ALBUM, CORRETTO?
– Giancarlo: Bravo, proprio quella. Mi piaceva questo concept e la cosa che mi appaga ancor di più è che stiamo creando un interesse intorno a questa figura, tanto che diversi metallari, dopo aver ascoltato l’album, sono venuti a Lodi per vedere il museo a lui dedicato. Siamo così passati dal fantasy cinematografico-letterario a qualcosa di più concreto e storico, che rappresenta anche la nostra città.
– Davide: Non solo, abbiamo affrontato un argomento che, crediamo, non è mai stato portato in musica; un motivo più per sollevare l’interesse nei confronti di un tema simile e di conseguenza di Paolo Gorini.
UN CONCEPT CON ALL’INTERNO UN ULTERIORE MINI-CONCEPT DI CINQUE PEZZI.
– Giancarlo: Sì, diciamo che il primo pezzo è una sorta presentazione, del tipo “questo disco parla di Paolo Gorini” e poi inizia la storia: da “1813” a “Crematorium” è tutto un crescendo che segue la sua vita. Aveva perso il padre da ragazzino e l’idea, oltre di non rivederlo più, che potesse marcire sottoterra, l’ha un po’ condizionato. Poi, ovvio, sono nate mille leggende su di lui, alcune volte con un fondo di verità, ma spesso erano dicerie sulle quali tuttavia lo stesso Gorini in un certo senso ci sguazzava. Si raccontava per esempio che amava circondarsi comunque di cadaveri, si diceva che andasse in giro con dei pezzi di cadaveri in tasca oppure, che se fosse andato a dormire a qualche parte, si sarebbe portato una valigetta con dei pezzi di morto da mettere nella stanza perché amava questa situazione.
CORPI CHE RITROVIAMO ANCHE SULLA COPERTINA DI “MASTER OF THE DEAD”.
– Giancarlo: Esatto, quello riportato sulla cover del disco è un feto pietrificato proprio da Paolo Gorini ed è uno degli esperimenti meglio riusciti, esposto nel museo.
– Davide: Le immagini che appaiono nel video di “Anti Necrosis Formula” sono state ‘catturate’ direttamente dal museo e utilizzate da Giancarlo, che gli ha dato una nuova vita, animandole ed ottenendo un ottimo risultato direi.
– Giancarlo: Il prodotto finale è molto particolare e sono convinto che a Paolo Gorini sarebbe piaciuto; aveva un senso dell’umorismo molto spiccato, tanto che anche lui non si prendeva così tanto sul serio.
UN’ALTRA CURIOSITA’ DEI WARMBLOOD E’ IL MANCATO UTILIZZO DEL BASSO.
– Giancarlo: No beh, non serve per il nostro progetto in sede live. Su disco le parti di basso ci sono; lo teniamo comunque non troppo presente perché poi uno dal vivo si aspetta di ascoltare certe cose che non trovano corrispondenza. Tuttavia, la presenza del basso serve per riempire certe frequenze che l’orecchio è abituato a sentire all’interno di un album. Nei live invece…
– Davide: Beh a noi non serve (risate,ndr).
– Giancarlo: No, non è che non serve; non serve per il nostro progetto. E continuiamo così: poi guarda, il tre è il numero perfetto.
PASSIAMO AD ELENA: ORMAI TI SARAI ABITUATA, TUTTAVIA, VEDERE UNA DONNA ALLA BATTERIA CREA SEMPRE UN MINIMO DI SORPRESA.
– Elena: Sì, devo ammettere che nel tempo mi sono accaduti episodi abbastanza ridicoli. Tipo: sono dietro la batteria seduta, aspettando che dal mixer mi dicano di provare il suono e il fonico che urla “ma il batterista dove cazzo è?” e io sono lì seduta (ride, ndr)!
– Giancarlo: Oppure vedi Elena che porta la strumentazione sul palco e alcuni passano di lì e ci dicono: “ma fate portare gli strumenti alle vostre ragazze?“, e la nostra risposta è sempre “no guarda, lei è la batterista!“.
ALLORA, VISTO CHE SPEGNETE VENTI CANDELINE E QUINDI SIETE ‘ANZIANI’; VISTO CHE ANCHE IN SEDE DI REGISTRAZIONE AVETE VOLUTO APPROCCIARVI IN UN MODO PIU’ OLD-SCHOOL, QUALI SONO, SE REALMENTE ESISTONO, LE DIFFERENZE NELLA SCENA UNDERGROUND DI ALLORA E QUELLA DI OGGI?
– Giancarlo: Lo dico subito; non sono uno nostalgico, tipo quelli che dicono “cazzo però negli anni Ottanta…“. E’ vero, in realtà negli anni Ottanta c’erano delle cose bellissime ma è vero anche che delle cose invece sono migliorate molto nel corso del tempo. Per esempio, in quegli anni per un gruppo di ragazzini trovare un posto dove suonare era un qualcosa difficilissimo, soprattutto in questa zona. Era difficile uscire, farsi notare; anche perché non c’era il supporto di Internet. Adesso, fortunatamente, è anche abbastanza facile farsi conoscere; poi ovvio, c’è anche chi fa delle boiate pazzesche per avere visibilità e quindi c’è un esagerazione di proposte. Troppa roba, però dico anche “perché no?“: sta a te selezionare. La cosa che mi piace un po’ meno e che non esiste più un pubblico nella scena. Mi spiego: fino agli anni Novanta ogni generazione si riconosceva più o meno in uno stile musicale; negli anni Settanta il punk, nell’ottanta il metal sino ad arrivare al grunge degli anni Novanta, una generazione intera si riconosceva in uno stile musicale. Dal Duemila in poi trovo che si siano un po’ perse le divisioni generazionali. Invidio un po’ quel periodo forse proprio per questo: c’era proprio uno stile di vita metal. Adesso è diventato un genere di nicchia come potrebbe essere il jazz o come tanti altri generi non commerciali, diciamo. Ogni tanto qualche fiammata c’è, però noto che i ragazzi giovani non si riconoscono più, non fanno più il gruppo che si riconosce in un genere musicale. C’è un po’ di confusione.
– Davide: C’è anche un’altra cosa da sottolineare. Io per esempio insegno chitarra e vedo come sono i ragazzini. Ormai non è più fondamentale avere la band. Io invece ricordo che, quando andavo a scuola, ogni classe aveva il suo gruppo! Adesso se ce n’è una in tutta la scuola è un fatto clamoroso. Suonano per sé, son contenti di suonare in casa, si mettono lì con il computer e fanno il video da postare su YouTube; faccio veramente fatica a farli suonare insieme.
– Giancarlo: Purtroppo sfruttano il lato negativo della tecnologia: “Ah, posso suonare la chitarra in casa? Posso programmare la batteria in casa? Bene, allora compro un computer e faccio tutto da solo!“. Invece usalo per condividere ciò che fai e crei, ma insieme agli altri.
– Davide: Aggiungo anche un’altra cosa: credo che i ragazzini di oggi non abbiano un punto di riferimento. Noi a quindici anni avevamo gli Slayer o i Testament per dire; loro non hanno un modello musicale da seguire o a cui ispirarsi.
– Giancarlo: Ver! Quando sento alcuni giovani dire che l’unico concerto che vanno a vedere è ancora quello degli Iron Maiden mi cascano le braccia! Non che non devi andare, ci mancherebbe…però dico “ma porca miseria, c’è tanto altro in giro”! Ricordo che quando arrivava un gruppo sconosciuto dalla Svizzera per esempio, si correva a Milano a vederli.
GIANCARLO, HO VISTO UN TUO POST IN CUI ESALTAVI L’ULTIMO DISCO DEI SAXON “CARPE DIEM”; QUALI SONO I VOSTRI ULTIMI ASCOLTI?
– Giancarlo: Ah sì, adoro quell’album. Essendo abbastanza ‘vecchiotti’ (a parte Davide che è molto più giovane) ed essendo nato alla fine degli anni ’60, sono abituato ad ascoltare il rock classico di quegli anni. Certo, prediligo il death tecnico come gli Obscura o gli Arkaik, per esempio ma se domattina uscisse un disco dei Judas Priest lo ascolto comunque stravolentieri. Per quanto riguarda gli Iron Maiden faccio un po’ fatica; l’ultimo non è piaciuto a nessuno di noi, non riusciamo ad ascoltarlo!
– Davide: Sinceramente non mi era piaciuto nemmeno quello prima (“Book Of Souls”, ndr)!
– Giancarlo: Se parliamo di metal classico, “Firepower” dei Judas è stupendo e anche l’ultimo degli Accept (“Too Mean To Die”, ndr) è molto bello. Sto ascoltando “Rock Believer” degli Scorpions ma lo trovo francamente un po’ fiacco, però è vero che hanno anche settant’anni!
– Elena: Io invece ascolto musica classica che, secondo me, è molto, molto estrema. Soprattutto quella contemporanea ha dei ritmi assurdi.
PARLAVATE PRIMA DI PUNTI DI RIFERIMENTO: QUALI SONO I VOSTRI?
– Giancarlo: Da ragazzino sicuramente Alex Skolnick, poi Tommy Baron dei Coroner e Marty Friedman. Adesso ce ne sono tantissimi: da Andy James a Jeff Loomis, che considero uno dei chitarristi più completi in assoluto.
– Davide: Io mi accodo mettendo al primo posto Friedman e poi pure Skolnick, ma credo che comunque la lista sarebbe abbastanza lunga.
– Elena: A me piacciono tutti i batteristi perché trovo sempre che ci sia una potenza incredibile e una tecnica altrettanto imponente in loro, soprattutto in quelli più giovani. Ci sono parecchie band che scelgono proprio il batterista più giovane possibile perché si fa fatica a suonare lo strumento; infatti li vedi tutti belli fisicati e potenti. Non ho preferenze, quando vedo un batterista dal vivo mi emoziono sempre tanto.
OK, FINITO, TRA POCO ANDATE IN SCENA, COSA DOBBIAMO ATTENDERCI? QUALI SONO I VOSTRI PIANI FUTURI?
– Giancarlo: Non lo so, è la prima uscita live dopo poco più di due anni di silenzio.
– Davide: Questi due anni sono serviti per preparare meglio l’album, rivederlo in alcuni punti, tagliare qualche strofa, aggiustare qualche passaggio e forse è anche per questo che l’album ha ottenuto maggiori consensi. Suoneremo poi ad Erba e poi a giugno avremo la data al Grave Party di Gaggiano.