Da campioni death-core a gruppo chiave dell’odierna scena metal americana, i Whitechapel hanno fatto loro il detto ‘battere il ferro finché è caldo’ approfittando dell’emergenza pandemica per dare al fortunatissimo “The Valley” un successore discografico in tempi relativamente brevi. Il fratello minore si chiama “Kin”, e con ogni probabilità verrà ricordato come il definitivo punto di rottura col passato e l’inizio di un qualcosa che al momento è ancora imprevedibile. Un lavoro che esalta l’animo melodico dei ragazzi di Knoxville tanto dal punto di vista strumentale quanto da quello vocale, con un Phil Bozeman che, assimilata la lezione di Corey Taylor, si impegna più che mai in clean vocals cristalline, espressive e – perché no – radiofoniche. Una scelta divisoria ma che sembra stia comunque portando i suoi frutti, sia perché la dimestichezza con cui i Nostri hanno alternato i vari registri è e resta considerevole, sia perché la suddetta svolta si è concretizzata in maniera sensata e graduale (vero, Suicide Silence?), esaltando la ricerca di una personalità ormai più che definita. Ecco a voi il parere sull’argomento del chitarrista Ben Savage, raggiunto per una videointervista qualche settimana prima dell’uscita del disco…
BENTORNATI SULLE PAGINE DI METALITALIA.COM. SONO TRASCORSI DUE ANNI DA “THE VALLEY”, UN DISCO APPREZZATISSIMO CHE HA NOTEVOLMENTE RIDEFINITO IL VOSTRO SUONO E LA VOSTRA CARRIERA. COME VEDETE OGGI QUEL LAVORO E QUALI OBIETTIVI AVEVATE IN MENTE DI RAGGIUNGERE CON “KIN”?
– Siamo ancora molto orgogliosi di “The Valley”, e crediamo che abbia dato inizio ad una nuova fase della nostra carriera. Ci ha aiutato a spingere il nostro stile verso soluzioni più drammatiche, malinconiche e, in un certo senso, cinematografiche, le quali danno molte più sfumature all’ascolto rispetto al passato. “Kin” riparte esattamente da dove si era interrotto quel disco. Nella nostra mente è come se fossero un tutt’uno.
VI SIETE SENTITI SOTTO PRESSIONE AL MOMENTO DI INIZIARE A COMPORLO?
– All’inizio sì. Eravamo consapevoli che dopo “The Valley” le aspettative verso la nostra prossima mossa sarebbero state alte, ma pian piano, provando, riprovando e mettendo insieme i tasselli delle varie canzoni, abbiamo iniziato a sentirci sempre più sicuri e convinti della qualità del nuovo materiale.
A DIFFERENZA DI MOLTE BAND CHE HANNO STOPPATO LE LORO ATTIVITÀ DURANTE LA PANDEMIA, VI SIETE DEDICATI AD UN NUOVO ALBUM. POSSIAMO VEDERLA COME UNA REAZIONE PER AFFRONTARE L’EMERGENZA IN MODO CATARTICO E PRODUTTIVO?
– Direi di sì, è un ottimo modo per riassumere la situazione in cui ci siamo trovati. Con tutti i tour in programma cancellati e l’incognita sulle tempistiche del ritorno alla normalità, abbiamo deciso di non rimanere fermi e dedicarci a ciò che amiamo di più fare nella vita, questa volta senza deadline o una vera e propria tabella di marcia. Con più tempo a disposizione, siamo potuti andare più a fondo nella nostra ricerca musicale, e credo che ascoltando il disco questo fattore si senta.
L’AUMENTO DELLA MELODIA E DELLE CLEAN VOCALS È UNO DEI PRIMI ASPETTI A COLPIRE E AD EMERGERE DURANTE L’ASCOLTO. A TRATTI MI HANNO RICORDATO ALCUNE SOLUZIONI DEI KATATONIA… SEI D’ACCORDO?
– Assolutamente sì, amo i Katatonia. I re della malinconia. L’album è stato mixato da David Castillo, che ha lavorato più e più volte con loro, e in una certa maniera ci ha avvicinato a quel modo di fondere melodia, oscurità e pesantezza.
QUAL È IL LORO DISCO CHE PREFERISCI?
– Mmm… (ci pensa, ndR)… direi “Night Is the New Day”. Non è uno dei più celebrati, ma è quello che secondo me riflette meglio il loro lato notturno e malinconico. Mentre trovo che “Lacquer”, dall’ultimo disco, sia una delle canzoni migliori che abbiano mai scritto.
DOPO IL CONCEPT OSCURO E DRAMMATICO DI “THE VALLEY”, SU COSA SI CONCENTRANO QUESTA VOLTA I TESTI?
– Sono a tutti gli effetti una continuazione di quelli di “The Valley”. Ma se “The Valley” era una specie di film horror ispirato a fatti di vita vissuta, “Kin” è più simile ad una pellicola sci-fi, sempre legata ai tumulti interiori di Phil. È come se il superamento del trauma, avvenuto al termine di quel disco, avesse creato una frattura nel suo alter ego musicale: l’Io reale, positivo, e quello negativo. L’album affronta il conflitto tra queste due personalità, con l’Io cattivo intenzionato a riportare Phil nella Valle.
PER ANNI SIETE STATI CATALOGATI COME BAND DEATH-CORE, MA CREDO CHE ORA IL VOSTRO STILE SIA SEMPLICEMENTE ‘WHITECHAPEL’. CHE PESO ATTRIBUITE ALLA PERSONALITÀ MUSICALE?
– La pandemia ci ha fatto capire una volta per tutte l’importanza di affermare la nostra identità, di distinguerci dagli altri. Arrivati a questo punto della nostra carriera, delle nostre vite, mettere personalità in ciò che facciamo è fondamentale, ampliando quello che è il nostro spettro musicale. Credo sia importante per un artista essere ascoltato e venire subito riconosciuto.
SE RIPENSI AL PASSATO, CHE DIFFERENZE RISCONTRI CON L’ATTUALE VISIONE E CONCEZIONE DELLA BAND?
– All’inizio volevamo soltanto emergere. Scrivere musica e partire per il mondo, spaccando tutto. Non avevamo uno schema, una strategia o un’idea precisa. Oggi invece abbiamo una visione chiara di quello che sono i Whitechapel, ed è una cosa che non passa soltanto dalla musica, ma anche dalle copertine dei dischi, dalle grafiche del merchandise e dall’estetica dei videoclip. Sono tutti dettagli attraverso cui emergono la personalità di una band e la percezione che il pubblico ha di lei.
INDUBBIAMENTE QUESTO È UNO DEI MOMENTI PIÙ FORTUNATI NELLA VOSTRA STORIA, MA QUAL È STATO IL PIÙ DIFFICILE?
– Credo che il biennio 2010-2012 sia stato il più difficile per noi. Venivamo da quattro dischi pubblicati in rapida successione, e l’iter album-tour-album ci stava esaurendo, mentalmente e fisicamente. Anche i ricavi non erano tantissimi, anzi… Abbiamo visitato posti molto oscuri della nostra mente in quel periodo, ma per fortuna poco dopo le cose hanno iniziato ad andare meglio.
QUANTO DELLA TUA VITA PERSONALE HAI DOVUTO SACRIFICARE IN QUESTI ANNI?
– Questa è molto personale. (ci pensa, ndR) …Direi che i sacrifici hanno riguardato più che altro la vita di coppia. È difficile avere una relazione, dedicare tempo in modo continuativo a qualcuno, quando passi mesi lontano da casa. La mia ultima vera storia risale ormai a dieci anni fa.
SIETE SOTTO CONTRATTO CON LA METAL BLADE DAL 2008; QUAL È IL SEGRETO DI UNA PARTNERSHIP TANTO STABILE E DURATURA?
– Ci rispettiamo a vicenda e abbiamo passione per il lavoro che facciamo, ossia scrivere e promuovere musica. I soldi non sono il fulcro del rapporto, e da parte sua la Metal Blade non ci ha mai voluto far diventare la classica ‘next big thing’. Non ci siamo mai sentiti dire “dovreste suonare così” o “vorremmo che diventaste più grandi”.
COSA DIFFERENZIA LA BUONA DALLA CATTIVA MUSICA, A TUO PARERE?
– È semplice: la capacità di suscitare emozioni.
QUAL È L’ULTIMO ALBUM CHE HAI ACQUISTATO E QUAL È INVECE QUELLO CHE TI HA FATTO INNAMORARE DEL METAL?
– L’ultimo album che ho comprato, vediamo… oh, sì: “What If” dei Dixie Dregs, una band fusion rock degli anni Settanta. Fantastici. Sono stati la prima band di Steve Morse dei Deep Purple. Mentre per quanto riguarda i dischi che mi hanno fatto appassionare al metal, direi “Ride the Lightning” dei Metallica e “Ænima” dei Tool.
COMPATIBILMENTE CON GLI SVILUPPI DELLA PANDEMIA, QUALI SONO I VOSTRI PROGRAMMI PER IL FUTURO?
– A dicembre terremo uno show qui nella nostra città, Knoxville, mentre abbiamo già in programma un paio di tour per il 2022 (l’intervista si è svolta prima della conferma della tournée americana con Cannibal Corpse, Revocation e Shadow of Intent, ndR). Al momento purtroppo niente Europa, ma speriamo di rivedervi tutti presto.