Il mondo del doom si conferma tanto tradizionalista quanto eclettico, sensibile a possibili cambiamenti anche quando, come nel caso degli Year Of The Cobra, questi non portano a stravolgimenti di cosa significhi suonare cupi, sottilmente gotici, sinistri.
La compagine americana è un duo basato sulla combinazione di basso, batteria e voce, teso a esplorare i territori del doom attraverso un’interpretazione affine a diverse correnti, pur mantenendo una propria forte personalità. Una musica poliforme nella sua essenzialità, la loro, a cavallo tra classic doom, hard rock, sfumature gothic metal mai prevalenti, incanalate in un lotto di canzoni, quelle dell’ultimo “Year Of The Cobra”, ben calibrate tra orecchiabilità e atmosfere più profonde.
Gettando, a nostro avviso, un ideale ponte tra realtà più affini a uno stoner/doom stordente e ruvido, come quello di Acid King e Windhand, e un suono europeo più arioso e variegato, come quello di Dool o Jess And The Ancient Ones, gli Year Of The Cobra sono usciti con una proposta piuttosto intrigante e non stereotipata: magari non saranno ancora i ‘primi della classe’ in quest’ambito, ma sanno farsi notare.
Abbiamo parlato approfonditamente della loro storia fin qui con la cantante/bassista Amy Tung Barrysmith, di recente entrata anche come bassista nella line-up dei post-metaller belgi AmenRa.
IL VOSTRO TERZO ALBUM HA IL TITOLO EPONIMO DEL VOSTRO NOME, “YEAR OF THE COBRA”. È QUESTA UNA SCELTA CHE SEGNALA, QUASI SEMPRE, L’INIZIO DI UN NUOVO CAPITOLO NELLA STORIA DI UN GRUPPO. PER VOI, AVER INTITOLATO L’ALBUM “YEAR OF THE COBRA” COSA SIGNIFICA ESATTAMENTE?
– Ci siamo veramente focalizzati su noi stessi in questo disco, volevamo che rappresentasse il più possibile chi siamo. Per quanto continuiamo ad essere orgogliosi delle nostre uscite precedenti, abbiamo sempre pensato che mancasse qualcosa, che ci sfuggisse qualche aspetto.
Così ci siamo presi tutto il tempo necessario per questo terzo disco, lavorando sulle canzoni e pensando molto a come desideravamo che suonassero. Abbiamo speso tanto tempo nella pre-produzione, per essere sicuri che avessimo tutto chiaro e come lo volevamo, prima di entrare in studio per le registrazioni.
In effetti l’album è stato realizzato esattamente come ce lo eravamo visualizzato nelle nostre teste. Auto-intitolare l’album a quel punto ci è sembrata la scelta più logica da fare.
ANCHE L’ARTWORK È MOLTO SEMPLICE COME IL TITOLO, SOLO UNA FOTO DI VOI DUE, NULL’ALTRO. È STATA LA VOSTRA PRIMA SCELTA FIN DALL’INIZIO?
– Sì, volevamo proprio quel tipo di immagine. Stavamo guardando tutti questi album con artwork molto ricchi e intricati. Splendide illustrazioni, indubbiamente, ma noi ci rendevamo conto che volevamo altro, andare alle nostre radici, essere soltanto noi stessi e basta. Semplice, sobrio, punk rock. Volevamo qualcosa che ci distinguesse, che fosse diverso da quello che si vede generalmente in giro, ma che fosse comunque molto naturale e artistico.
“YEAR OF THE COBRA” È PIUTTOSTO ECLETTICO: IN ALCUNE CIRCOSTANZE SIETE PIÙ OSCURI E MALVAGI, ALTROVE PIÙ SCHIETTAMENTE ROCK E DIRETTI. CI SONO MOMENTI DOVE IL VOSTRO LATO GOTHIC ROCK È PIÙ MARCATO, MENTRE A VOLTE DIVENTATE DECISAMENTE PIÙ LUMINOSI.
COME AVETE LAVORATO PER RAGGIUNGERE QUESTA VARIETÀ DI APPROCCI E SITUAZIONI ALL’INTERNO DEL DISCO?
– Tutti i nostri tre album hanno questo tipo di impronta. Penso derivi dalle differenze nei nostri gusti musicali e come si amalgamano tra loro. Siamo influenzati dallo stesso genere di musica, ma quando ci spostiamo nei vari sottogeneri le differenze emergono. Così ognuno porta nella musica le sue specifiche influenze: come una persona ha molti lati nella sua personalità, così accade nella nostra musica.
Inoltre, non ci piace che le nostre canzoni si assomiglino tra di loro. Vogliamo diversità, cambiamenti, lentezza, velocità… Ti posso dire che abbiamo faticato a individuare un singolo – o singoli – da far uscire, proprio per l’eterogeneità del disco. Ci siamo chiesti come avremmo potuto presentarci a un’audience che non ci conosceva proprio.
Ci sono tante cose diverse in “Year OF The Cobra” che meriterebbero di essere promosse, come “War Drop”, il tocco sludge di “Full Sails”, o la lentezza e la bellezza di “Prayer”. Quindi non è stato semplice individuare un singolo che ci rappresentasse a dovere.
DEVO AMMETTERE CHE PREFERISCO I MOMENTI MENO ‘ELETTRICI’, QUANDO SUONATE PIÙ SOFT, COME AD ESEMPIO IN “ALONE”, CHE È ANCHE LA MIA CANZONE PREFERITA DI “YEAR OF THE COBRA”. COSA RAPPRESENTA PER VOI QUESTA TRACCIA?
– “Alone” è anche una delle mie preferite del disco. Di solito non scrivo testi su temi molto personali, mentre in questo caso ho fatto un’eccezione, nonostante non riguardi uno specifico evento.
Rappresenta un sentimento di perdita e solitudine: volevo trovare un modo di comprendere il senso di perdita, disperazione che a volte scaturisce nell’animo umano e penso che siamo riusciti ad arrivare molto vicini al vero significato e alla percezione di questo feeling. Quando suoniamo dal vivo, puoi proprio sentire il pubblico che risuona come un diapason al drumming di Jon e alla linea di basso pulita. È una canzone molto potente.
MI PIACE ANCHE L’OPENER “FULL SAILS”, CHE DIPINGE UNA PARTE PIÙ OSCURA DELLA VOSTRA IDENTITÀ. QUAL È IL TEMA DELLA CANZONE?
– Ah, stai proprio nominando i miei pezzi preferiti! Noi di solito scriviamo prima la musica e solo in un secondo tempo i testi. Mi piace aspettare un po’ e capire cosa la musica mi comunichi, per poi scrivere le liriche, o individuare prima un tema che sia coerente con la parte strumentale.
“Full Sails” è stata ispirata dalla storia dell’Olandese Volante. La musica mi fa sentire come se fossi in mezzo a un cupo oceano, nella tempesta, dovevo per forza scrivere una storia che rappresentasse queste sensazioni. Stavo proprio leggendo in quel periodo la storia dell’Olandese Volante e ho pensato fosse perfetta per quella che è divenuta in seguito “Full Sails”.
LA VOSTRA MUSICA MI RICORDA, IN PREVALENZA, DUE BEN DISTINTE SCENE MUSICALI: LA PRIMA QUELLA DI FORMAZIONI AMERICANE COME ACID KING E WINDHAND, LA SECONDA QUELLA DI REALTÀ EUROPEE QUALI DOOL, JESS AND THE ANCIENT ONES, LUCIFER. SENTIE EFFETTIVAMENTE AFFINITÀ CON QUESTI DUE CONTESTI STILISTICI, OPPURE PENSATE DI ESSERNE BEN DISTANTI?
– Ci hai messo in mezzo a una bella compagnia! Noi non cerchiamo di avvicinarci a qualche specifica band o a uno stile codificato, ma essere accostati a gruppi come quelli che hai citato non è affatto una cosa negativa, tutt’altro.
Ritengo che tutti noi musicisti siamo in qualche maniera influenzati e sentiamo affinità con stili musicali vicini al nostro, penso sia naturale che infine scriviamo della musica che possa assomigliare a questo o quest’altro artista.
“YEAR OF THE COBRA” ESCE NUOVAMENTE PER PROPHECY RECORDS. COME SONO I VOSTRI RAPPORTI CON QUESTA LABEL, CHE PUBBLICA ARTISTI DIVERSISSIMI MA CHE CONDIVIDONO UN CERTO MODO DI INTERPRETARE LA MUSICA?
– I ragazzi della Prophecy si sono interessati a noi dopo averci visto suonare allo Psycho Vegas del 2017. Abbiamo firmato un contratto per tre album, quindi anche il prossimo uscirà per loro. Abbiamo trovato interessante il fatto di essere un po’ distanti dal grosso delle band dell’etichetta, pensiamo che l’essere poco allineati con il resto del loro roster sia un fatto positivo.
NON AVETE MAI UTILIZZATO CHITARRE E “YEAR OF THE COBRA” NON FA ECCEZIONE. PERCHÉ AVETE PRESO FIN DA SUBITO QUESTO INDIRIZZO E QUALI SONO I VANTAGGI DI UNA LINE-UP COSÌ RIDOTTA, SOLO BASSO, BATTERIA E VOCE (E SPORADICAMENTE TASTIERE)?
– Quando abbiamo fondato la band nel 2015 era nostra intenzione avere anche un chitarrista con noi, ma mentre le cose si evolvevano, ci siamo accorti che potevano funzionare benissimo in due.
Ci sembrava divertente immaginare come potessimo creare musica interessante e piena di dettagli pur essendo soltanto in due a suonare. Una situazione rivelatasi meno difficile da gestire di quanto potessimo ipotizzare, anzi, dal punto di vista logistico facilita molto le cose.
Ho imparato a utilizzare il basso in una maniera totalmente diversa da come viene normalmente pensata la sua funzione in una band, sono diventata più creativa nel songwriting. Non nego che a volte penso a come sarebbero più facili le cose, compositivamente e nel suonare, se avessimo anche un chitarrista assieme a noi due, ma adoro stare sul palco e vedere soltanto me stessa e Jon dietro di me, specialmente quando suoniamo in grandi eventi e magari siamo su palchi molto ampi. Essere lì soltanto in due in uno spazio molto vasto mi piace moltissimo.
Gli svantaggi arrivano quando dobbiamo muovere tutta la strumentazione. Dover spostare tutta la roba che serve per i concerti, in due, a volte è sfiancante, soprattutto se ci sono tante scale di mezzo! Però ne vale la pena. Dubito che arriveremo ad avere un chitarrista fisso in line-up, mentre siamo aperti a possibili ospiti.
PROVENITE DA SEATTLE, UNA CITTÀ MOLTO IMPORTANTE PER LA MUSICA ALTERNATIVA E IL METAL, VISTO CHE HA DATO I NATALI AL MOVIMENTO GRUNGE, MA ANCHE A VERE LEGGENDE DEL METAL COME QUEENSRŸCHE, SANCTUARY, NEVERMORE. COM’È OGGI LA SCENA MUSICALE DELLA VOSTRA CITTÀ D’ORIGINE E COME PENSI POSSA AVER INFLUENZATO LA VOSTRA IDENTITÀ SONORA?
– Vivere a Seattle ha in effetti delle ricadute positive a livello di ispirazione: dal clima, alla vegetazione lussureggiante che ci circonda, agli splendidi laghi e suoni naturali in prossimità alla città. È difficile non trovare ispirazione in tutto questo, anche se l’aspetto più importante di Seattle sono le sue persone.
La scena musicale di Seattle è piena di ottime persone. I musicisti, il pubblico, i proprietari dei club, i promoter, è una scena che supporta la musica ed è molto collaborativa. È gratificante farne parte. Ci diciamo spesso che la nostra band non avrebbe potuto funzionare se fosse nata in un’altra città.
QUEST’ANNO SIETE ARRIVATI A DIECI ANNI DI ATTIVITÀ COME YEAR OF THE COBRA. SE TU DOVESSI ESPRIMERE UN GIUDIZIO SINTETICO SULLA VOSTRA AVVENTURA MUSICALE FINO AD ORA, QUALE SAREBBE?
– È stato un percorso di crescita e di apprendimento. Penso si possa percepire una chiara differenza tra il nostro primo EP “The Black Sun” del 2015 e il nostro ultimo album “Year Of The Cobra”, si sente come siamo maturati nello scrivere la musica e nella capacità di gestire le tonalità e la musicalità di quanto suoniamo.
Ho imparato molto su come si suona e cosa posso esprimere, come manipolare il basso in modi che mai avrei immaginato. Inoltre ho visto luoghi del mondo che altrimenti difficilmente avrei visitato. Avevo già fatto dei tour prima degli Year Of The Cobra, ma con questo gruppo ne ho fatti molti di più e sono stati decisamente intensi e divertenti. Adesso vedremo cosa avrà il future in serbo per noi nei prossimi dieci anni.
COM’È LA VITA DI UNA BAND UNDERGROUND COME LA VOSTRA NEGLI STATI UNITI? PENSI CHE AVRESTE POTUTO OTTENERE MAGGIORE VISIBILITÀ E ATTENZIONE SE FOSSE STATI UN GRUPPO EUROPEO?
– È difficile rispondere a una domanda su ‘cosa accadrebbe se’. Avremmo avuto più successo vivendo in Europa? Può darsi. Ci sono molte opportunità per la musica heavy in Europa e sicuramente c’è un pubblico forte per questi suoni.
Una delle maggiori difficoltà dei tour negli Stati Uniti è rappresentata dalle dimensioni del paese. Le grandi città sulla costa ovest sono sparpagliate lungo tutta la sua lunghezza, bisogna guidare per tantissimi chilometri e i locali non sono sempre così accoglienti come vorresti. Per fortuna, adesso abbiamo una buona booking agency in Europa e auspichiamo che in futuro riusciremo a suonare più frequentemente da quelle parti.
COME ULTIMA DOMANDA, VORREI SAPERE COSA RAPPRESENTA PER TE L’HEAVY METAL E COME ARRICCHISCE LA TUA VITA.
– Si dice che i metallari siano le persone più felici sulla faccia della Terra, se confrontati con le persone che ascoltano altri generi musicali. E penso che questa espressione spieghi bene la nostra situazione.
Quando stavamo registrando il nostro primo LP “In The Shadows Below” con Billy Anderson, lui è stato filmato per un documentario. Quando ha rivisto le immagini, il regista si è stupito di vedere così spesso le persone ridere mentre erano in studio. Stavano registrando musica seria e pesante, era scioccato dalla quantità di risate che udiva.
La musica metal rappresenta proprio questo: un modo per esprimere emozioni forti di ogni tipo, risate, tristezza, angoscia e altro ancora. E lo si può fare circondati da persone straordinarie e dal cuore immenso. Questo tipo di musica ha arricchito la mia vita e mi sento straordinariamente fortunata a essere parte del mondo heavy metal.