“E diamine se l’ho adorato“: questa la sensazione provata da Rob Halford dopo aver cantato la ninnananna “The Skye Boat Song” di fronte ai propri compagni durante una lezione di musica presso la scuola elementare di Beechdale. Un’emozione meravigliosa, fantastica, sublime, che si sarebbe ripresentata diversi anni dopo con un carico di energia ancor più elettrizzante: il primo concerto da sobrio durante il quale sentì il “più intenso e sacro sballo naturale: la grande gioia e l’emozione della voce umana“.
Questi sono solo alcuni dei passi contenuti in “Confesso” (mai titolo fu più azzeccato), l’autobiografia di Rob Halford, edita ancora una volta dalla Tsunami e magistralmente tradotta da Valeria Presti Danisi; un’edizione che trova così la sua veste italiana dopo quella originale pubblicata nel settembre dello scorso anno.
Poco meno di quattrocento pagine nelle quali il cantante britannico, come un autentico libro aperto, rivela tutti i tratti del suo carattere: testardo come la fonderia di Walsall, nella Black Country, che dominava l’area in cui viveva, continuamente in azione, puzzolente. La G.&R. Thomas Ltd: un nome, Thomas, che tornerà nuovamente protagonista nella vita del singer inglese con risvolti ben più fortunati. Ostinato, cocciuto, ma anche fragile, incapace di aprirsi, di sfogarsi, soffocato non solo dalla fuliggine dell’odiosa fonderia ma anche dalla mole indefinita di parole non dette, di verità nascoste e taciute. Una libertà espressiva che sfocerà solamente nel 1998: un coming out che gli aprirà le porte della pace interiore, scacciando i fantasmi del passato, quelle indecisioni, quelle paure che lo avevano portato a scendere nei gironi infernali dipinti di alcol e di cocaina, sfiorando addirittura la morte.
Una confessione lunga, schietta, semplice, trionfale e nel contempo drammatica, costellata da episodi al limite del grottesco, da aneddoti folli, da esperienze indimenticabili e, in alcuni casi, persino strazianti. Dall’incontro con la Regina Elisabetta (“Wow, ha appena detto heavy metal“, sentenzia Rob ricordando il breve colloquio con Sua Maestà), al tragico epilogo della sua storia con l’amico Brad, dal catastrofico incidente avvenuto sul palco di Toronto nel 1991 (“Quello che qualsiasi cantante rock sano di mente avrebbe fatto era salire su un’ambulanza e andare dritto al pronto soccorso. Ma non fai queste cose se sei di Walsall“) alla doppia figuraccia col pubblico amico di Birmingham causato dalle ospitate in quel di Top Of The Pops (a causa dei ritardi televisivi, i due concerti iniziarono con notevole ritardo scatenando la delusione tra i fan). Una storia appassionante di un ragazzo prima, di un uomo poi, che per anni ha dovuto lottare contro il timore di essere bollato come ‘gay’. Lui, il frontman carismatico dei Judas Priest, vestito di pelle e borchie da capo a piedi, che saliva sul palco a bordo di una Harley Davidson; un gesto che NESSUNO gli hai mai impedito di fare. Lui, che da perfetta ‘sgualdrinella del pop’ si è fatto vanto, entusiasta, di aver conosciuto Madonna e Lady Gaga, scoprendo che pure quest’ultima era una fan dei Priest. Rob Halford che, a dispetto del titolo del libro, e delle sue 379 pagine, si lascia andare al più celestiale dei “avevo confessato” solamente alla numero 309, aggiungendo “potevo essere finalmente me stesso“. Rob Halford, il Metal God, che si mette a nudo (e lo si metterà più volte nel libro, ovviamente per altri motivi), senza alcun timore reverenziale, raccontando quelle fughe alla ricerca dei glory hole e del tap-tap di consenso (il rispondere al battito del piede lanciato dal bagno in fianco significava accettare la proposta), mentre la band si divertiva a gozzovigliare durante i vari aftershow.
Una storia personale che – e non poteva essere altrimenti – si mescola a quella artistica e musicale. La musica, l’heavy metal, la vera ancora di salvezza, la vera droga: più volte, infatti, è lo stesso Halford a sottolineare l’importanza della “musica rumorosa” (come ebbe a dire la Regina Elisabetta in quel famoso incontro), dei suoi colleghi ma soprattutto amici: dal cognato Ian Hill all”uomo d’acciaio‘ Glenn Tipton, dal grintoso (anche troppo) K. K. Downing all’americano Scott Travis, senza dimenticare tutte le altre figure, tra ex membri e produttori vari, che hanno accompagnato la carriera di una band in grado, nel 1980, grazie all’album “British Steel”, di mettere il timbro definitivo ad un genere. Rob Halford il quale, dieci anni più tardi, da sobrio (“non bevo e non tocco droga da trentaquattro anni”) ha dovuto, ma soprattutto voluto, difendere la propria creatura di fronte ad un tribunale, accusata di lanciare messaggi subliminali con tanto di incitamenti al suicidio. Rob Halford di Walsall che, proprio nelle battute finali della sua autobiografia, rimarca il suo intento, la sua passione: “Cantare è la mia liberazione mentale, il mio scopo, il mio senso della vita“. Un’idea che ribalta anche sul pubblico, sui fan: “qualunque età tu abbia, quando vai ad un concerto heavy metal sei di nuovo un ragazzino“.
Consigliato? Ancor di più. Prendete un lungo respiro e tuffatevi nella confessione a tutto tondo del Metal God. Anzi, prendetene un secondo a pieni polmoni e aiutatelo a spegnere le candeline: Robert John Arthur nasceva a Birmingham il 25 agosto 1951.
- Autore: Rob Halford con Ian Gittins
- Anno: 2021
- Pubblicato da: Tsunami Edizioni
- Pagine: 379
- Prezzo: 24,90