06/06/2003 - A DAY AT THE BORDER 2003 @ Palasharp - Milano

Pubblicato il 14/06/2003 da

A cura di Marco Gallarati, Lorenzo ‘Thelema’ Macinanti e Luca Pessina

A Day At The Border…”un giorno al confine”…sì, al confine della realtà, però! Tra spostamenti di sede, defezioni improvvise, annullamenti di show annunciati con colpevole ritardo, cambi di scaletta che hanno spiazzato non poco il pubblico e la scarsa affluenza di quest’ultimo al festival, si potrebbe scrivere un ottimo racconto di fantascienza! Tralasciando l’ormai datata questione del cambio di sede (visto l’accaduto, il Comune di Monza, nella diatriba, guadagna molti punti!) e delle sostituzioni dell’ultim’ora (Dark Tranquillity e Hypocrisy sono comunque rimpiazzi all’altezza, se non superiori, di Meshuggah e Spineshank), il fondo di una giornata a dir poco turbolenta lo si è toccato al momento dell’annuncio che Marilyn Manson non avrebbe suonato: sì, avete capito bene. Marilyn Manson, per il quale si erano mobilitate stampa, TV, la NASA e perfino qualche marziano, non si è esibito! E già il ritardo nell’apertura dei cancelli e nella vendita alla cassa dei biglietti rimanenti, avrebbe dovuto far intuire qualcosa…infatti, la sera precedente all’ADATB, mentre impegnato in quel di Norimberga, il Reverendo aveva abbandonato il palco dopo 20 minuti, causa una fastidiosa tracheite, la quale gli avrebbe impedito addirittura di partire per Milano; ora, questa è pura sfortuna e ad essa, precisiamolo chiaramente, nulla può porre rimedio; è doveroso dire alcune cose, però: primo, la defezione era già stata anticipata da qualche quotidiano di sabato 7 giugno, nonché via web; secondo, almeno metà dell’audience accorsa al Mazda Palace (pochina, in verità) era sul posto solo per vedere il Manson Show; terzo, il buon senso, la correttezza e il rispetto verso chi paga prezzi esorbitanti (rispetto al resto d’Europa) per assistere a simili spettacoli dovrebbero far parte del primo comandamento per chi organizza eventi di un certo livello. Ed invece? Be’, invece tutto è rimasto silenziosamente sepolto, nel tentativo di rimandare al più tardi possibile l’infausto annuncio. Certo, questo può essere spiegabile anche ipotizzando l’estrema speranza degli organizzatori in un’eventuale e repentina resurrezione del Reverendo, il quale potrebbe aver tenuto col fiato sospeso fino a sera tutto il baraccone. Purtroppo così non è stato. Quindi, esistendo ormai da parecchio tempo la telefonia cellulare, la voce che Marilyn Manson non ci sarebbe stato, ed il successivo passaparola, si sono diffusi a macchia d’olio; conseguenza di ciò, nel momento in cui una biondona di tutto rispetto (una delle due Kris di MTV) è comparsa sul palco per annunciare l’assenza degli headliner della serata, al grido di “ragazzi, allora, vi state spaccando?” ed evidentemente chiamata in causa per raddolcire la pillola della delusione (come se alla vista di una microgonna si risolvessero tutti i problemi), vi lascio immaginare l’accoglienza a lei tributata dai fan (fin troppo tranquilli ed educati) di Manson. Di seguito, è sopraggiunto un responsabile dell’agenzia organizzatrice (finalmente!) che ha cercato di giustificare l’incoveniente con maggior voce in capitolo, senza però riuscire a porre fine ai fischi e alle proteste, poi continuate, in modo del tutto pacifico, anche nello spazio aperto all’interno  del Mazda Palace. Ovviamente non è servita a placare il dissenso la “suppostina” del recupero del concerto, domenica 22 giugno (notizia di un paio di giorni fa: anche il recupero è stato annullato…), usufruibile da tutti gli acquirenti del biglietto: siamo sicuri che tutti, ma proprio tutti, saranno esenti da impegni il 22 (o in qualsiasi data avrà luogo il concerto)? E la moltitudine di persone che proveniva da diverse, e lontane, parti d’Italia, si potrà permettere di nuovo il lungo viaggio verso Milano? In questo modo, con l’annuncio ritardato e tutte le conseguenze occorse, si è perpetrato, oltre al danno, anche la beffa. Noi, presenti sugli spalti come qualsiasi altro spettatore del Day At The Border ed attenti a cogliere i commenti del pubblico, facciamo fatica ad accettare questo comportamento perché, molto semplicemente, non lo riteniamo giusto. Se circostanze a noi sconosciute riescono a giustificarlo, ben vengano! Vista dalla tribuna, è parsa mancanza di correttezza e trasparenza. Per quanto riguarda la musica e le esibizioni, nel complesso, se ne può parlare bene, anche se, esclusi gli HIM e, in parte, i Paradise Lost, il resto dei gruppi, di chiara matrice estrema, era molto più adatto ad una platea di metallari che a orde di seguaci “mansoniani” (sottolinerei di nuovo l’impeccabile civiltà di questi ultimi). Per il resoconto dei singoli concerti, vi rimandiamo alle sezioni apposite. Ancora una volta, dunque, la perfezione al Gods Of Metal, o A Day At The Border che dir si voglia, si è dimostrata utopia. Davvero peccato…

BRAINWASH

Tocca ai nostrani Brainwash l’arduo compito di aprire i battenti del Day At The Border. Quando il four-piece italiano fa la propria entrata in scena, il pubblico, dopo aver atteso pazientemente l’apertura dei cancelli, avvenuta con più di mezzora di ritardo, ha appena iniziato a sciamare all’interno del Mazda Palace e già le prime avanguardie si sono aggiudicate gli ambiti posti-transenna. Il tempo a disposizione dei Brainwash è appena un quarto d’ora ma, contro ogni previsione, sembra essere sufficiente per comprendere cosa i quattro componenti della band siano capaci di fare: con alle spalle una buona esperienza live, anche a livello europeo, l’impatto sull’audience è diretto e senza compromessi, perpetrato attraverso un grind-core feroce ed ignorante, composto da scariche di rabbia e pura adrenalina. Tenendo conto del mancato usufrutto dell’impianto luci per quasi tutta la durata del concerto e del torpore che attanagliava ancora la mente degli spettatori presenti, possiamo giudicare più che positiva la performance di questa band. Da rivedere, comunque, sulla lunga distanza.

AURORA

Secondi a salire sul palco sono stati i danesi Aurora, poco conosciuti qui in Italia, ma con già all’attivo parecchi lavori. Tre dei quattro pezzi suonati per l’occasione li si può trovare sull’ultimo disco della band, “Dead Electric Nightmares”, e, nonostante il suono non perfetto fuoriuscito dagli amplificatori e la prestazione non impeccabile del cantante, il gruppo ha riscosso buoni e crescenti consensi, tanto da strappare molti applausi al termine dell’esibizione. Il loro metallo gotico, influenzato però da death e dark, è stato il primo, vero squillo di sveglia della giornata…e poco importa se Claus Frolund, il frontman della band, si sia presentato on stage in una mise degna del ragionier Fantozzi, con tanto di assurde bretelle rosse a far bella mostra di sé: è stato molto bravo nel saltabeccare a destra e a manca come un grillo, per andare a tastare di proprio polso le reazioni della platea uditoria. Il resto del gruppo si è comportato dignitosamente, pur se penalizzato, come già detto, da un sound non ottimale, eseguendo in modo soddisfacente i brani trascinanti del disco citato sopra, ovvero “Black Heavy Cat” e “New God Rising”. Non ci si attendeva molto dagli Aurora a dire il vero, ma, proprio per questo, sono da annoverare fra le sorprese più gradite della giornata.

THE DEFACED

Davvero notevole la performance degli svedesi The Defaced, formazione composta da membri di Soilwork e Terror 2000 al debutto assoluto sui palchi italiani. Forti di due pregevoli album in studio, “Domination Commence” del 2001 ed il recente “Karma In Black”, i cinque svedesi hanno dato prova, nei venti minuti a loro disposizione, di grandissimo affiatamento oltre che di un invidiabile impatto sul pubblico, se consideriamo la relativa novità del materiale proposto dai nostri. Sono bastate comunque due rasoiate del debutto di due anni fa per incendiare i pochi fans della band e i tanti notevolmente compiaciuti dalla dimostrazione di ‘potenza’ dei The Defaced: l’opener “October Ruins”, sostenuta da un andamento che molto ricorda i Machine Head di un tempo – ma pur sempre sporca di quel DNA di swedish death/thrash che permea soprattutto le composizioni del nuovo album – e la conclusiva “Sown By Greed”, un mid tempo spaccaossa di grande efficacia. Un piacevole conferma per chi, come il sottoscritto, aveva già avuto modo di conoscere la band su disco; una graditissima sorpresa per tutti gli altri.  

SOILWORK

Poveri Soilwork… per la prima volta chiamati a presenziare ad un grosso festival in Italia, i nostri sono stati colti da un’improvvisa amnesia che ha fatto dimenticare loro di aver realizzato cinque album! Così, Strid (che dovrebbe cercare di ‘tirarsela’ un po’ di meno) e compagni sono saliti sul palco convintissimi di aver pubblicato solo due dischi (gli ultimi due, ovviamente!) e di conseguenza il loro show è stato purtroppo in parte minato dall’assenza di tanti, troppi capolavori che avrebbero sicuramente fatto una figura migliore delle varie “Rejection Role” e “Light The Torch” (ma dov’era Michelle Hunziker? Perché non c’era lei a presentarli?). Per fortuna, almeno, i nostri hanno proposto anche bei pezzi come “As We Speak” e “The Flameout”, e fortuna che la prova del nuovo batterista sia stata più che buona, altrimenti ci sarebbe stato proprio da ridere…

CARPATHIAN FOREST

Black Metal: una parola inedita (o quasi) per i palchi delle scorse edizioni del Gods of Metal (per la serie: “C’era bisogno di Marilyn Manson e HIM per controbilanciare con qualche death e black metal band degne di questo nome”…). Una parola di routine o, se vogliamo, di doverosa familiarità per chi invece segue il culto dei Carpathian Forest ed è ben a conoscenza del loro valore. Tra lagrime e sangue (e qualche volgare insulto dalle ultime file), come del resto era prevedibile, si è svolta una delle migliori performance in assoluto di questa giornata di musica. Nonostante fosse tutto contro la sorte dei nostri (suonare in pieno giorno, con una temperatura da deserto del Sahara, per un pubblico che di estremo conosceva al massimo il tasso di umidità nell’aria, non deve certo essere il massimo per chi viene dal Grande Nord ed etichetta la propria musica Misanthropic Black Metal), i Carpathian Forest hanno semplicemente spaccato il culo, per usare un francesismo di gran voga in questi tempi. Una scaletta feroce, violenta e bastarda, che ha attinto a piene mani da tutte le varie esperienze discografiche, a partire dall’ultimo “Defending The Throne Of Evil”, passando per “Morbid Fascination Of Death”, “Strange Old Brew” fino al monumentale “Black Shining Leather. Stanca e disinteressata la partecipazione dei più (che fino all’ultimo hanno sperato in una comparsata delle donnine nude dei Cradle Of Filth); decisamente malato, invece, il livello di lucidità delle prime file: specie quando Nattefrost ha annunciato delle vere e proprie gemme come “Carpathian Forest”, “Black Shining Leather” e “Mask Of The Slave” (dall’eccellente “Strange Old Brew”, almeno per il sottoscritto la punta di diamante della discografia dei Carpathian Forest), durante la quale la band è stata raggiunta sul palco da un ospite d’eccezione: Sethlans Teitan, carismatico chitarrista degli Aborym, reduce – oltre che dalla release del monumentale “With No Human Intervention”, nel quale come è noto compare una traccia eseguita con Nattefrost alla voce – dalle recording session di un particolare progetto di cui sentiremo parlare presto, in collaborazione sempre con il leader dei Carpathian Forest ed altri illustri musicisti della scena scandinava. Un’esibizione all’altezza del nome Carpathian Forest quindi, deturpata soltanto nel finale, durante l’esecuzione di “He’s Turning Blue”, da un mixerista che probabilmente non vedeva l’ora di farsi un sonno di salute con i Nile, vista l’ora. That’s Black Metal, folks!

NILE

Con ancora in testa gli echi laceranti dello show dei Carpathian Forest,  ecco piombare sui nostri padiglioni auricolari la band che si aggiudicherà il premio speciale quale “esibizione-massacro” del Day At The Border: i Nile! Il combo americano, forte di una popolarità in crescendo e di capacità tecniche fuori dalla media, ha rovesciato addosso al pubblico un’incessante cascata di violenza e brutalità sonora, non lasciando assolutamente scampo a chi dubitava della loro bravura in sede live. Nel momento in cui finisce un loro brano, ci si sente come rinati, si riesce finalmente a respirare e la realtà torna a prendere le solite forme e i soliti colori; ma durante l’esecuzione dei pezzi l’apnea sembra infinita, l’assalto costringe a restare immobili, inutilmente alla ricerca di uno spiraglio attraverso il quale fuggire dall’oppressione creatasi. Al limite della cacofonia e del caos sonoro, i Nile hanno mummificato (tanto per rimanere in tema egizio) il Mazda Palace per una buona mezz’ora, presentando una setlist di tutto rispetto, che ha avuto in “The Blessed Dead” l’espressione migliore, a giudizio di chi scrive. I quattro musicisti (escluso il batterista) si sono alternati alle vocals in modo preciso e puntuale, lasciando però a Karl Sanders il compito di interagire con i fan. Pochi fronzoli e diretta allo scopo, la band ha messo in moto il proprio macchinario da tortura, risvegliando dal sonno millenario anche il più sepolto dei faraoni e confermandosi una delle migliori realtà in ambito brutal-death. Buon ritorno nelle catacombe!

DARK TRANQUILLITY

Chiamati a sorpresa all’ultimissima ora, in sostituzione dei defezionari Spineshank, i Dark Tranquillity sono ormai degli aficionados del pubblico italico. Sentimento corrisposto, ovviamente, ed anche in occasione dell’ADATB i sei svedesi non hanno affatto deluso! Finalmente un gruppo che, pur essendo in continua evoluzione e rinnovandosi di album in album, è capacissimo ancora di scaricare sulla folla bordate di pregevole furia (Soilwork, non vi fischiano le orecchie?), come ad esempio la monumentale e storica “Punish My Heaven”. E poi che dire delle altre perle regalateci? “The Treason Wall”, “Damage Done”, “The Sun Fired Blanks” (guarda caso, il brano più veloce del discusso “Projector”), “Zodijackyl Light”, “Monochromatic Stains”, “The Wonders At Your Feet” e l’ultima, bellissima, “Final Resistance” hanno dimostrato, se ce n’era ancora bisogno, la grandezza di un gruppo fondamentale per l’evoluzione della musica estrema di fine decennio. A parte un piccolo intoppo iniziale per il microfono di Stanne, la performance non ha avuto cali di tensione, imperniata sul perfetto drumming di Anders Jivarp e sulla capacità di tenere il palco del bassista Michael Nicklasson (molto più attivo rispetto al duo Sundin/Henriksson) e, ovviamente, del già citato Mikael Stanne, davvero una “mosca bianca” nel panorama dei cantanti metal, a causa del suo modo di fare gioviale e sorridente, sempre compiaciuto, nel rendere partecipe il pubblico del suo benessere. Purtroppo, il pochissimo tempo a loro concesso ha lasciato un po’ l’amaro in bocca, ma del resto già si sapeva che la loro presenza al Day At The Border era un semplice “riempitivo”. Come anche fa sorridere il fatto di vederli suonare prima di, cito nomi a caso, Children Of Bodom o HIM, senza nulla togliere a queste due band. Uno dei picchi della giornata, sia a livello musicale, sia per quanto riguarda la presenza di pubblico…poco ma sicuro!

MINISTRY

Come un sogno che si avvera: Ministry. Bandana, occhiali da sole, giubbotto nero di pelle, e lo scolo di una bottiglia di vino. E poi quegli immancabili gesti da ribelle, che ci suggeriscono un solo nome, quando a girare sul piatto del giradischi sono “N.W.O.”, “Stigmata”, “Thieves”…  Al Jourgensen. Ovvero il signor Ministry, quello cui un tempo, quando ancora l’industrial rock non aveva ancora trovato il suo Re Mida in Trent Reznor, qualcuno si sprecava a riservare l’appellativo di genio incontrastato del metallo industriale (qualcuno direbbe: e Justin Broadrick?). Gli anni sono passati per tutti, compresi Al ed il suo fedele compagno Paul Baker, ed oltre al sound dei Ministry che ha più volte cambiato pelle in questi anni, anche l’appellativo di ‘genio’ è stato raggiunto dall’immancabile attributo di ‘incompreso’, che designa – è sprezzante dirlo, ma è la verità – quella cerchia di musicisti dotati di grande ingengo e di creatività profetica, ma che loro malgrado finiscono o per abbandonare la scena prematuramente, oppure per distruggersi letteralmente con le proprie mani. Non vi sarà facile immaginare quale delle due strade abbia percorso Jourgensen in questi anni, passato da un eccesso all’altro tanto che qualcuno ha più volte insinuato che non si sia ancora ripreso dalla sbornia di successo e cotillion del leggendario “Psalm 69”. Per la serie: “qualcuno prima o poi dovrà dirglielo che le cose sono cambiate, e che i Ministry – purtroppo – non ingranano più il disco giusto da tempo”. E’ dai tempi del pur buono “Filth Pig” che i Ministry non riescono ad imporsi con del materiale in grado di rivaleggiare con quello dell’epoca d’oro del trittico “Land Of Rape And Honey”, “Mind Is A Terrible Thing” e “Psalm 69”. Specialmente il penultimo lavoro in studio, “Dark Side Of The Spoon”, ha sollevato parecchio dissenso nei confronti della nuova direzione della band, sempre più tormentata da allucinanti viaggi psichedelici (tutta colpa del cucchiaino, come si evince dal titolo…) forti pur sempre di un tenore artistico indiscutibile, ma al tempo stesso di scarso appeal e concretezza. I ‘nuovi’ Ministry, puliti e lustrati quanto possibile per quest’ultima (annunciata) ora di gloria, si presentano sul palco della kermesse milanese con un’aurea da leggenda vivente. Il soundcheck sembra interminabile: si fanno attendere, perché ogni piccolo particolare deve essere al suo posto. Solo così lo spettacolo potrà avere inizio. Immagini di cadaveri dissezionati, sesso estremo e – dulcis in fundo – insetti, vengono passate in rassegna mentre la band snocciola uno dopo l’altro anthem del calibro di “Just One Fix”, “Deadguy”, “N.W.O.”, “Hero”, “Psalm69”, “Crumbs”, “So What”, davanti ad un’audience che, dopo un’iniziale tripudio, finirà passo dopo passo per ammirare attonita l’esibizione di quel vecchio ribelle di Al’Qaeda’ Jourgensen, quasi captando nell’aria la fine di un’epoca meravigliosa. La band al servizio del duo regge alla perfezione, ed ogni brano (anche quelli più freschi dell’ultimo “Animositisimina”) riesce a cogliere nel segno ed a lasciare un pezzo di ‘cuore’ griffato Jourgensen ai fedelissimi della leggenda. Peccato soltanto per una scaletta che non ha reso sufficientemente giustizia a tante vecchie perle della band, compreso l’album “Land Of Rape And Honey”, ingiustamente ignorato in toto. Figli: un giorno i vostri padri vi parleranno di una band chiamata Ministry… sarà allora che scoprirete, molto probabilmente, nuove forme di ‘intrattenimento’…

PARADISE LOST

Per la loro seconda calata italica in pochi mesi, gli albionici Paradise Lost hanno scelto di non cambiare di una virgola la scaletta proposta al Transilvania Live, e così il loro set è stato dominato dai brani presenti sull’ultimo “Symbol Of Life” (disco che a distanza di diversi mesi dalla pubblicazione è reperibile in Italia solo come import). Non sono mancati “Hallowed Land”, “As I Die” o “One Second”, tutti brani che ormai sono divenuti dei classici, ma la band ha dimostrato di aver perso in parte lo smalto e l’affiatamento mostrato pochi mesi fa. E’ stato un peccato perché i nostri, per rialzare le loro quotazioni, ultimamente un po’ in ribasso, avrebbero davvero avuto bisogno di farsi vedere ancora in forma. E’ forse anche a causa di performance come questa che i Paradise Lost stanno diventando una band di secondo piano del panorama metal… forza ragazzi, svegliatevi!
N.B.: Un plauso va comunque al chitarrista Aaron Aedy, sempre concentrato e il cui impegno è davvero ammirevole… anche durante l’escuzione di un pezzo pacato come “So Much Is Lost” sembrava che stesse suonando “Reek Of Putrefaction”, tanto si muoveva on stage!

CHILDREN OF BODOM

Mentre una buona parte dei fan di Manson si trovava all’esterno del palazzetto, chi a protestare, chi a sbollire la delusione, la fetta più metallara del pubblico dell’ADATB andava piazzandosi a ridosso del palco, in modo da poter idolatrare con maggior enfasi coloro i quali sono stati, senza troppi dubbi, i vincitori numerici della giornata, i finlandesi Children Of Bodom. La loro esibizione, infatti, è quella che ha infiammato più gli animi, quella che ha raccolto più consensi e plausi, almeno a giudicare dai movimenti ondeggiatori del pit. Alexi Laiho e compagni, a dire il vero, non hanno sfoderato una prestazione eccezionale e il loro atteggiamento da “primi della classe” dà sempre un po’ fastidio. I pezzi eseguiti hanno ripercorso in modo sufficientemente completo la carriera al fulmicotone dei cinque Bimbi di Bodom, i quali si devono essere scordati però di eseguire una delle loro migliori composizioni, ovvero quella “Deadnight Warrior” che ha aperto loro le porte del successo a livello europeo. “Lake Bodom”, “Silent Night, Bodom Night” (la più attesa), “Towards Dead End”, “Every Time I Die” e una buona manciata di canzoni tratte dall’ultimo “Hatecrew Deathroll” sono state eseguite abbastanza bene, nonostante alcuni prolungati guai alle tastierine di Janne Warman e lo straripante volume della chitarra di Alexi, la quale sotterrava totalmente le parti ritmiche di Kuoppala e Henkka Blacksmith. Un concerto che ha confermato lo stato di leader della scena estrema dei COB ma che, d’altro canto, non è riuscito a cancellare le perplessità sull’attitudine che anima il quintetto, troppo succube dei capricci di padron Laiho…a proposito: avesse detto un paio di “fucking” in più (in media, due per frase), ci saremmo trovati di fronte al clone di Fred Durst! Bravi, ma poco simpatici.

HYPOCRISY

A dir poco tormentata è stata la calata degli Hypocrisy sul suolo milanese…probabilmente il loro disco volante avrà avuto qualche incontro ravvicinato del peggior tipo. Inseriti nel bill del festival al posto dei rimpianti Meshuggah, si sarebbero dovuti esibire fra Dark Tranquillity e Ministry, ma ciò non è accaduto; non giungendo notizie al riguardo, si è temuto il peggio (la mancata presenza della band) e voci di ogni tipo hanno cominciato a serpeggiare: la più veritiera narrava di aerei persi e condizioni fisiche poco rassicuranti di Tagtgren e soci. Fatto sta che, mentre tutti aspettavano ormai in santa pace l’arrivo sul palco dei neo-headliner HIM, ecco partire l’intro tastieristico di “Fractured Millennium” e i quattro (i tre membri ufficiali ed il chitarrista di supporto) entrare on stage fra le grida di gioia del pubblico, nonché degli inviati di Metalitalia.com! In effetti, la tenuta fisica della band è stata ai minimi livelli, con Mikael Hedlund costretto a suonare praticamente in ginocchio e quasi totalmente fermo sul suo posto; Peter si è dimostrato abbastanza sobrio, invece, e, in solo mezz’ora, ha scaraventato sui fan le caratteristiche sferzate che la sua voce sa dare. Memorabile l’esecuzione di una delle death metal song più incisive di sempre (a mio modesto parere), “Killing Art”, mentre da dimenticare è stata la cadenzata “Fire In The Sky”, penalizzata da un grossolano errore tempistico al momento della ripartenza dopo il break d’atmosfera; del tutto dimenticati i pezzi dell’ultima release “Catch 22”, gli alieni svedesi hanno chiuso la claudicante performance con “The Final Chapter” e l’immancabile “Roswell 47”. Avranno perso un briciolo di professionalità, questo è da dire, ma gli Hypocrisy sono e rimangono gli Hypocrisy!

HIM

Proclamati headliner della giornata in seguito al forfait di Marylin Manson, gli H.I.M. di Ville Valo hanno offerto uno show oggettivamente discreto ma che non è riuscito a smuovere più di tanto, forse soprattutto per il succitato frontman e i suoi atteggiamenti da “GOTH MALEDETTO SCIUPAFEMMINE”. Onestamente ha fatto non poco sorridere chi scrive il vedere tale personaggio sullo stesso palco su cui poco prima si erano esibiti gente come Nile, Carpathian Forest o Hypocrisy e, soprattutto, udire una serie di cori e urla sguaiate esclusivamente femminili provenire dal pubblico ogni volta che arrivava un ritornello o, ancora peggio, vedere il nostro ammiccare a qualche ragazza. Ovviamente Valo non ha rinunciato al suo classico show, togliendosi la maglietta dopo un paio di canzoni, accendendo una sigaretta dopo l’altra senza mai finirne una e dando spesso le spalle all’audience, quasi a non volersi concedere. Per fortuna nel corso del concerto la musica è riuscita a ritagliarsi uno spazio almeno dignitoso: sono infatti stati ben eseguiti praticamente tutti i classici, tra cui “Your Sweet 666”, “Poison Girl”, “Pretending” e l’ormai celebre cover di “Wicked Game”. Movenze di Valo a parte (gli altri musicisti, pur bravi, sono delle comparse) ci si aspettava qualche trovata scenica ragguardevole – visto anche l’alto budget di cui dispongono i nostri – ma purtroppo non è stato così, e il concerto si è concluso senza sussulti. Ripeto, la performance in sé è stata buona ma, antipatia da parte di scrive esclusa, credo che anche molti altri fan della band si aspettassero qualcosina in più da questi finlandesi, soprattutto quelli di sesso maschile, visto che degli addominali di Valo credo (e spero!) non importasse loro più di tanto!

 

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