A cura di Giuseppe Caterino
Una data londinese prevista per lo scorso settembre e poco dopo cancellata per poi divenire evento-concerto-release del nuovo disco a gennaio; cambio in corsa di line-up ad album ultimato; una serie di photoshooting in giro per la capitale inglese (e a Sidney) a tratti divertenti e autoironici, quantomeno efficaci nell’esprimere un’immagine meno ‘dannata’ e un’attitudine più ‘sleazy’ all’interno del nuovo corso musicale ed artistico; un lavoro che si colloca stilisticamente come figlio degli ultimi Immortal (diremmo particolarmente del periodo “Sons Of Northern Darkness” e “Damned In Black”, pur non mancando qualcosa dallo scialbo “All Shall Fall” – vi rimandiamo alla recensione del disco per i dettagli). La curiosità intorno alle gesta di Olve Eikemo (in arte Abbath Doom Occulta, Abbath per gli amici) era molto alta, e gli ingredienti per una data imperdibile erano tutti presenti, a cominciare dalla gustosa line-up offerta dalla serata: Benighted, The Black Dahlia Murder e Primordial sono infatti nomi tutt’altro che di mero supporto. Sembra tutto perfetto sulla carta, ma a quanto pare le aspettative sono destinate ad essere disattese; tra qualche problema tecnico e una prestazione che approfondiremo più dettagliatamente ma che possiamo qui anticipare come altamente discutibile, è proprio il gruppo capitanato dall’ex bassista norvegese ad essere oggettivamente l’unico fuori posto e a scontentare gran parte dei presenti. Metalitalia.com era presente in quel del Forum di Kentish Town, Londra, per una serata in parte riuscita e in parte emblematica di tutti i nodi che hanno accompagnato la gestazione della carriera solista di Abbath (abusi di alcol e droga – che come vedremo hanno avuto una certa rilevanza, querelle legali con gli ex compagni, line-up instabile), nodi, a quanto pare, inevitabilmente destinati a venire al pettine. Volendo essere generosi, potremmo parlare di nervi che non hanno retto, di una prova generale non riuscita, ma a questo punto diventa inevitabile farsi venire qualche dubbio sulla longevità di questo progetto solista ed essere tentati ad almeno rivalutare la questione intercorsa tra gli ex colleghi di band negli scorsi mesi.
BENIGHTED
Arriviamo al Forum puntuali e benché la quasi assenza di fila al di fuori della venue ci faccia un po’ trasalire, una volta entrati vediamo che lo stage pit è quasi al completo; un pugno di secondi e i Benighted irrompono sul palco senza tanti giri di parole, iniziando a martellare l’audience con la greve ferocia del loro brutal/grind. La band non risparmia nemmeno una goccia di sudore, tanto che alla presentazione della terza canzone Julien Truchane, mattatore dell’esibizione con il suo growl lancinante, rivela vistosi cali di voce nei dialoghi col pubblico (la cosa però, curiosamente, non intralcerà nemmeno per un attimo la sua prova vocale durante l’esecuzione dei brani). Facendo di necessità virtù, si fa dunque aiutare dal pubblico ad annunciare “Let The Blood Spill Between My Broken Teeth”, e l’audience risponde a questo punto con grande ricettività, tra incitazioni alla band e la creazione di divertiti circle pit su indicazioni dei musicisti, supportando il gruppo fino alla fine. Dal punto di vista tecnico, niente da dire: messa in scena ineccepibile, forse un po’ monocorde (trend che del resto possiamo desumere anche dalle prove in studio) ma riuscitissima nel non lasciare superstiti sul terreno di uno stage battuto a tappeto dal combo francese.
THE BLACK DAHLIA MURDER
Chi scrive era piuttosto curioso di vedere all’opera il gruppo di Detroit capitanato dal panciuto Trevor Strnad al fine di saggiarne non tanto la resa tecnica quanto la capacità di esprimerla dal vivo senza perdere l’impatto sonoro manifestato su disco; la prova live, si sa, è spesso un banco di prova piuttosto impietoso anche nei confronti di formazioni con grande esperienza alle spalle, che ai TBDM certamente non manca. E per fortuna (soprattutto nostra) la professionalità maturata negli ultimi quindici anni si è mostrata in tutta la sua magnificenza nell’oretta di concerto concessa ai Nostri, dove dall’apertura ad opera di “Receipt”, furiosa opener dell’ultimo lavoro della formazione (il più che buono “Abysmal”, che sarà la fonte ove verranno attinti la maggior parte dei brani), seguita a ruota da “What A Horrible Night To Have A Curse”, “Funeral Thirst” (accolta trionfalmente) e l’implacabile “Everything Went Black” tra le altre, non è concesso alla platea un solo minuto di tregua. La band è assolutamente in forma e sciorina in mezzo a pochissimi attimi di silenzio il suo death melodico che, pur dovendo molto a nomi quali (in primis) At The Gates, Carcass, In Flames, ha acquisito nel tempo una sua certa personalità. La violenza con cui i cinque affrontano lo stage, mista all’attitudine assolutamente priva di divismi e caratterizzazioni da palco (il cantante è in pantaloncini e maglietta, ma in generale tutta la band potrebbe essere il gruppo che vediamo esibirsi al pub dietro casa), ci fa assolutamente apprezzare l’act degli americani, che chiudono un concerto serratissimo con l’acclamata “I Will Return”. Purtroppo la performance è stata vittima di qualche calo tecnico, ed in alcuni punti il suono della batteria (cassa in particolare) copriva praticamente tutto; qualche perplessità inoltre l’ha generata il volume troppo alto di alcuni campionamenti che hanno reso, per fortuna in momenti sparuti, la prova un po’ meno carismatica. Alla fine, però, un live senza sconti e di fattura più che pregevole. Punto extra, quando ci imbattiamo nella band al quasi completo – ancora vestita (e sudata) da scena – che vaga tranquillamente in mezzo al pubblico per raggiungere il banchetto ed intrattenersi con i fan.
PRIMORDIAL
Dopo uno show massacrante ma piuttosto scanzonato come quello dei The Black Dahlia Murder, siamo bramosi di scoprire come il set dei Primordial, fautori di una serie di album – l’ultimo in particolare – concettualmente cinici, pesanti e disillusi, si confronterà con il set precedente, per moltissimi aspetti diametralmente opposto. Nel giro di un breve cambio palco, le luci si abbassano e virano pesantemente su tinte blu e verdi soffocate dal fumo di scena che invade lo stage cambiando immediatamente i connotati del Forum, ora funereo e glaciale e pronto a tutt’altro tipo di celebrazione. Le note di “Where Greater Men Have Fallen” cascano sui presenti come una mannaia: quasi ammutoliamo all’unisono di fronte al dedalo di note dirette e viscerali emesso dagli irlandesi, amplificato dalla teatralità (e dal forte protagonismo) di Alan Averill, la cui performance artistica unita alla sofferente espressione vocale accentua la solennità delle composizioni, già di per sé annichilenti e maestose. I bpm si abbassano ed inversamente l’atmosfera s’innalza fino a una quasi aulica insostenibilità, con momenti quali la ridondante “Babel’s Tower”, “No Grave Deep Enough” o “As Rome Burns” dove le luci cambiano e diventano rosso fuoco, a sottolineare echi Neroniani impersonati efficacemente dal singer. La band dal canto suo non sbaglia un colpo e vibra martellanti eco e composizioni che entrano direttamente nello stomaco, raggiungendo il culmine con “Empire Falls”, salutata con enfasi estatica dalla totalità dei presenti. Al netto di qualche raro calo dell’impianto tecnico (da dire che i Primordial sono la band che ha patito meno le deficenze tecniche), la band ha saputo esprimersi in uno spettacolo completo ed entusiasmante, ferino e malvagio come si conviene e nel quale le sensazioni hanno saputo essere rigide e pungenti sino alla fine.
ABBATH
Ed eccoci pronti ad assistere finalmente alla nuova genesi di uno dei personaggi più istrionici e conosciuti nel panorama metal ormai non solo estremo; il personaggio Abbath è oggi infatti accostabile al metal a tutto tondo e il suo disco solista ne è la prova: sebbene la matrice sia il black a cui gli Immortal ci hanno abituato da fine ’90 in poi, le venature principali abbracciano tanto il thrash quanto lo speed metal e l’heavy più classico. E quindi non stupisce tra le prime file l’avvicendarsi di blackster, goth, gente vestita normalmente e ragazzi piuttosto giovani con signori un po’ più cresciutelli: in questo, al musicista norvegese va dato atto di essere riuscito, negli anni, ad essere a modo suo un accentratore sia simbolico che prettamente musicale di larga fascia all’interno di una sottocultura alquanto ristretta. Ma veniamo alla musica: alle 21.30 spaccate le luci si spengono e la band fa il suo ingresso con “To War” su di un palco agghindato di drappi neri su cui svetta una minacciosa aquila e fumo a profusione, a creare la fredda atmosfera cui siamo abituati. I suoni però sono scandalosamente bassi, come non era accaduto per le tre band precedenti, e sebbene la sezione ritmica almeno all’inizio batta come un team di operai che asfaltano una strada, è proprio la chitarra di Abbath a non emettere praticamente suoni; per intenderci, entro le prime sette/otto file riuscivamo a parlare senza grandi difficoltà durante l’esecuzione. La chitarra verrà poi settata, ma il volume generale resterà bassissimo per tutta l’esibizione. Il brano non sembra essere stato ancora stato ben digerito dalla folla, che assiste più attenta che altro, ed invece sembra essere più a suo agio con la successiva e metabolizzata “Winter’s Bane”, resa in maniera discreta, cui segue “Nebular Ravens Winter”. Purtroppo però, a farla da padrone fino a qui sono i suoni scandalosi e la performance personale di Abbath, che tra un brano e l’altro parla con uno strascico che lascia almeno supporre che non sia del tutto lucido (e successive goffe movenze– tra cui quasi cadere andando verso la batteria, inciampare sui pedali o non accorgersi che il jack della chitarra si è staccato – sembrano confermarlo) e nei momenti in cui suona sono evidenti grossolani errori (soprattutto negli arpeggi, suonati come se li facesse per la prima volta e a volte addirittura interrotti). Non bastasse ciò, sin dalla prima pausa tra i pezzi, il Nostro si dedica a faccette e pose plastiche quasi ad attendere di essere ben fotografato, e comunque tra una canzone e l’altra saranno sempre dedicati una manciata di minuti a questi siparietti un po’ mortificanti e utili soprattutto a smorzare il pathos (quelle poche volte che si è venuto a creare, siamo costretti a dire). Lo spettacolo, problemi tecnici a parte, era partito almeno dignitosamente (soprattutto nei momenti tirati) ma è teso al basso durante il proseguimento, e pare davvero strano che all’interno dello stesso brano la resa riesca ad essere stata in certi punti accattivante, maggiormente negli attacchi, quanto confusionaria e quasi improvvisata in altri. La situazione a un certo punto diventa surreale: la band suona col pilota automatico – a parte King, che sgambetta e incita convinto, sul palco c’è chi gioca a fare la rockstar (interrompendo ad esempio quella che sembrava una delle prove migliori, “Tyrants”, in uno stop sì preparato ma allungato a dismisura e in un momento che proprio non lo richiedeva al fine di far urlare il pubblico à la Bruce Dickinson), i ragazzini più giovani pogano e fanno stage diving in maniera a quel punto un po’ fine a sé stessa e qualche fila più dietro ci si inizia a guardare tra sconosciuti con fare perplesso. Alcuni sguardi che vengono lanciati verso la batteria da parte del secondo chitarrista (le identità dei due musicisti sembrano tuttora un mistero) dicono moltissimo e proprio quest’ultimo, a un certo punto, forse inconsciamente, si mette dietro una quinta con fare imbarazzato, cercando di suonare non visto. Un gesto sicuramente eloquente, come molto dicono anche le occhiate che si scambiavano a volte i musicisti, volte a mettersi d’accordo sui passaggi di brani chiaramente non provati a sufficienza, come dimostrato da alcuni frangenti in cui la batteria ha suonato a vuoto. Lo show va avanti stentando, e tra i pezzi del nuovo album (“Count The Dead” la meglio riuscita), agli Immortal è concesso di tornare con “One By One”, partita benissimo ma anche questa finita letteralmente a caso, come durante una jam session. Ci rendiamo conto che lo spazio intorno a noi si è fatto più ampio e che si sono creati veri e propri buchi, segno che gran parte degli spettatori se n’è andata via senza attendere la fine del concerto. E poco dopo, senza dire nulla, anche la band sparisce dietro le quinte lasciando gli strumenti ‘aperti’ ad intendere un bis che non verrà mai fatto. Luci sulla platea, tutti a casa. Qualche ‘buu’ qua e là, metà degli spettatori già uscita e un pugno di ragazzi che invece urlano ‘one more song’: la serata si è dunque conclusa con un sapore amaro. Ci costa aver scritto queste righe e ci auguriamo che si sia trattato di un episodio sporadico, di nervi tesi e tensioni accumulate e deflagrate in direzione negativa invece che – come avremmo preferito – attraverso una genuina rabbia artistica. Non resta che aspettare sviluppi per vedere se il progetto che risponde ad un nome granitico come quello di Abbath abbia vita futura o meno, anche se un’interpretazione tanto raffazzonata ed affrontata non diremmo controvoglia bensì con estrema superficialità, ci lascia con un senso di disillusione piuttosto profondo: mai come in questo caso, noi attendiamo al varco.