01/05/2015 - ACHERONTIC ARTS FESTIVAL 2015 @ Turbinenhalle - Oberhausen (Germania)

Pubblicato il 13/06/2015 da

Report a cura di Giovanni Mascherpa
Foto di Christian Pallentin (https://www.flickr.com/photos/therealpal)

Delle volte va così. Cerchi qualche informazione su un gruppo sulla sua pagina Facebook – nel caso specifico i Sulphur Aeon – e scopri che parteciperanno a un festival a dir poco interessante durante il ponte del 1° maggio. Guardi dove si trova il luogo del delitto, cerchi i voli e come ci si può arrivare e ti rendi conto che è tutto fattibile senza eccessivi sbattimenti né patimenti. E allora si va, alla volta della Ruhr, precisamente a Oberhausen, vicino a Essen, in slalom tra ciminiere, grigiore, agglomerati industriali attivi ed altri dismessi. La due giorni in una delle aree più industrializzate d’Europa, denominata Acherontic Arts Festival, ha rappresentato la prima edizione di una manifestazione organizzata da una delle label più lungimiranti del panorama europeo, la Vàn Records. Una casa discografica che in dieci anni ha sfornato molti dischi di grande interesse, abbracciando metal classico ed estremo con pari acume nella scelta delle pubblicazioni. Difficile che sotto la sua ala passino band banali e con poco da dire: e proprio basandosi sulla sua storia, su chi gli dato negli anni recenti soddisfazioni, su coloro che ne hanno aiutato la crescita e la rinomanza internazionale, lo staff della Vàn si è basato per predisporre l’evento. Sono infatti tutte formazioni con un rapporto di collaborazione con la casa discografica tedesca quelle che si sono presentate alla Turbinenhalle di Oberhausen: qualcuno pubblica in esclusiva per la Vàn, qualcun altro rilascia solo un formato delle sue opere per questa agguerrita etichetta, ma nessuno è fuori dalla sua orbita. L’assenza di un filo conduttore tematico, che non fosse quello dell’alta qualità e di una personalità distintiva per i gruppi impegnati, ha tramutato il festival in un happening molto stimolante e dal menù molto ampio: un primo giorno più orientato al metal classico, con l’eccezione dei Sulphur Aeon, e un secondo di ascendenza estrema, con l’eccezione di Caronte e Griftegard. Le buone premesse insite nei nomi impegnati, molti di vero culto e con poche uscite alle spalle, si sono poi tramutate in realtà grazie innanzitutto a una location di prim’ordine, che come potete immaginare dal nome, è un locale industriale riadattato a nuova funzione, come se ne vedono molti in quest’angolo di Germania. Un posto ampio, sia per quanto riguarda il parterre che per il palco, con un impianto audio eccellente, gestito alla perfezione dagli abili fonici alternatisi dietro il mixer. Non parliamo poi dell’apparato di luci disponibile, all’altezza dei migliori festival open air: un dispiegamento di riflettori imperiale, manovrati anche questi molto bene dallo staff, così da rendere unico il light show di tutti gli ensemble impegnati. Al di là del tempo disponibile, un po’ tutti hanno goduto di un trattamento da headliner, con suoni ben impostati e la possibilità di organizzare il proprio show senza alcuna limitazione logistica. La partenza nel tardo pomeriggio ha infine consentito di darci a un po’ di turismo, in questa regione circoscrivibile all’archeologia industriale: per gli amanti del genere, un ottimo diversivo in attesa della pioggia di metallo della serata. L’affluenza è stata buona, se pensiamo all’assenza di nomi di grande richiamo: circa trecentocinquanta-quattrocento persone hanno presenziato alla kermesse, un buon risultato che ha spinto gli organizzatori a fissare già fin d’ora le date per l’anno prossimo. Insomma, se volete iniziare in anticipo la stagione festivaliera, il 6 e il 7 maggio del 2016 sapete dove recarvi!

 

Acherontic Arts festival - elenco band - 2015
Acherontic arts festival - elenco band 2 - 2015
THE WHITE FACES

Facce bianche, facce pulite, facce rilassate: a chi apparterranno? Alla nuova band di Farida, l’ugola afrodisiaca dei The Devil’s Blood. E se la occult hard rock band per eccellenza ha esalato da qualche anno l’ultimo respiro, e purtroppo il suo mastermind Selim Lemouchi (fratello di Farida) se n’è andato prematuramente da questo mondo, la sua partner-in-crime alla voce si è lasciata alle spalle quei tempi. Sembra un’altra, e stentiamo quasi a riconoscerla, così sorridente, gioviale, piena di vita e spontanea. Via gli abiti da sacerdotessa, le pose studiate, la serietà impostata: ora questa donna si veste molto casual – ha addosso un maglione ampio che non può nascondere un certo appesantimento recente nella figura – sforza meno la voce in tonalità alte e terribili. E’ chiaro, da come si muove e interagisce con gli altri ragazzi del gruppo, come abbia voluto spogliarsi da panni eleganti ma che forse le stavano un po’ stretti, le pesavano, e abbia voluto recuperare una certa naturalezza. Il pubblico, già cospicuo e non molto inferiore a quello che vedremo per gli headliner, si assiepa bramante attorno al palco: nessuna scena di fanatismo inconsulto, ma l’attenzione rivolta ai musicisti è ben superiore a quella che si avrebbe a un opener con mezz’ora a disposizione. Musicalmente, sembra di ascoltare i The Devil’s Blood depurati di occultismo, satanismo, perversioni di ogni tipo: ci troviamo quindi a fare i conti con un hard rock di desinenza settantiana, dedito a piccole improvvisazioni, interazioni strumentali esulanti dal sentiero principale, con al centro di tutto la vocalità multiforme di Farida. La quale fa tutt’oggi un’ottima figura, nonostante rinunci alle linee più spinte ed esoteriche che l’avevano resa famosa. Il primo spaccato di concerto è forse fin troppo leggero e venato di un’atmosfera quasi “hippie” – prendete la definizione in maniera non troppo stringente, eh – poi esce una durezza più sentita e in linea con il bill e il concept dell’evento. Quando qualcuno in prima fila prova a richiedere qualcosa della sua precedente band, Farida risponde senza troppi giri di parole, ma con l’aria tutt’altro che minacciosa: “This is not fucking Devil’s Blood”. Eloquente. Non conosciamo ancora quali potranno essere le mosse future del gruppo: per ora ci accontentiamo di aver ritrovato una delle migliori cantanti donna che ci sia mai capitato di udire. Anche chi completa la line-up è all’altezza, e anche se oggi finiranno per essere la realtà più soft e meno stimolante del lotto, i The White Faces hanno i numeri per combinare qualcosa di buono in futuro. Mezz’ora, visto l’affetto dei presenti, è fin poco, ma per oggi può bastare.

The white faces - foto Acherontic - 2015
(DOLCH)

Fin troppa letizia e rilassatezza nella prima esibizione dell’Acherontic Arts Festival. Ci vuole qualcosa che porti su binari angosciosi ed elimini ogni sentore di positività. Ci pensa un act misconosciuto, quasi impossibile da ricercare perfino sui motori di ricerca. Dei (Dolch) non sappiamo praticamente nulla, se non che sono tedeschi e hanno divulgato – parola grossa, li hanno registrati, pubblicati in poche copie su cassetta e poi qualcuno si è preso la briga di postare qualche brano su Youtube… – un paio di demo. Stop. Salgono sul palco incappucciati, chiodo e felpa nera. Si mettono ognuno al suo posto. Lì rimangono. La musica segue questo bisogno di immobilismo: piombo fuso,  forgiato nell’esoterismo, arriva su di noi sotto forma di un’intransigente massa compatta, pesantissima e reiterata. Una sorta di Electric Wizard con le cadenze e il peso specifico di un gruppo death/doom: ci fosse il growl al posto del salmodiare monocorde della streghetta bionda alla voce, non se ne stupirebbe nessuno. Le luci rimangono basse, cominciamo a intuire che oltre alle dimensioni da festival open air del palco, anche l’impianto luci e il modo di manovrarle non sono da meno di un concerto ammirabile a Wacken o all’Hellfest. Nella penombra, mentre la batteria si intestardisce con sadismo sui medesimi pattern inchiodandoci a un’immaginaria croce sul Golgota, le chitarre approntano uno scenario da incubo, un reame di infamia e lordura dove maghi con poteri smisurati dispongono di corpo e anima di poveri individui, prostrandoli oltre l’immaginabile prima di tacitare il soffio vitale. Nessuna espressione, nessun segno di consapevolezza di quanto si stia compiendo, nessuna concessione a un facile ascolto. Densi e sfiancanti, intransigenti e letali, i (Dolch) si accomiatano con una lunga coda strumentale a base di synth orrorifici – un po’ prolissa, a dirla tutta – suonati dalla giovane cantante con la stessa calma di un boia all’ennesima esecuzione. Ne sentiremo parlare ancora di questi ragazzi, ne siamo certi.

Dolch - foto Acherontic - 2015
HERETIC

Ah, gli Heretic, che birbanti! Quali ingiuriosi buontemponi, inguaribilmente punkettoni, prestati alla causa del black metal non sono altro! “Black metal punk” è come si definiscono, un marchio di fabbrica evidenziato su alcune magliette e sticker presenti al loro banco del merchandise, esaustivo nella sua sintesi di cosa rappresentino questi quattro sozzoni olandesi. Sono di gran lunga la compagina più disimpegnata della manifestazione, non hanno alcuna pretesa se non quella di scatenare un putiferio incontrollato e far scornare i presenti. Lo stacco con chi si è esibito appena prima è notevole, si passa proprio in un altro mondo. Le acconciature in stile Misfits – anche i vestiti, a dire il vero – con vistose “bananone” di capelli a campeggiare sul cranio, danno il benvenuto a una quarantina di minuti fuori dalla solennità, dall’esoterismo, dal mistero ammorbante buona parte dei gruppi in cartellone. Gli Heretic trovano terreno facile per operare al meglio: un impianto luci sottolineante l’esagitazione della musica, un sonoro bilanciato per non far affogare nella cacofonia le loro squinternate, ma ben congegnate, rasoiate di pura arte venomiana corrotta dal nichilismo punk, spazi ampi da occupare con uno stage-acting spontaneo e divertito. Tra tempi medi ritmicamente coinvolgenti, accelerazioni infernali, voce tra il black metal e il Lemmy-style estremizzato, proto-thrash e raw black, gli Heretic provocano mosh come nessun altro nella due-giorni: tempo un paio di brani, e se non si vuole finire travolti dall’entusiasmo dei più facinorosi bisogna per forza spostarsi ai lati e stare bene attenti a dove ci si muove! I quattro, tra cui milita Jimmy Blitzer, batterista degli Urfaust, sanno interpretare bene il loro ruolo di sommi intrattenitori e non mancano di invocare ulteriore invasamento nelle pause. Sudore, voglia di divertirsi e passione incontenibile fanno passare in un battibaleno il tempo in compagnia degli Heretic. E se non vi è chiaro quali siano le loro intenzioni, andatevi a vedere la porcellonesca copertina di “Angelcunts And Devilscocks” (qualche demone e qualche ragazza in atteggiamenti, diciamo, “intimi”): poi ci saprete dire…

Heretic - foto Acherontic - 2015
UNIVERSE217

Ecco un altro bislacco animale doom sul palco del Turbinenhalle. Gli Universe217, fin dal nome, intendono svincolarsi dalla massa, giostrare una musica che non affoghi per forza nell’avanguardia più subdola e indecifrabile, ma parta da punti cardinali noti, per poi distendersi contorta in un oceano sensoriale del tutto peculiare. L’entrata sul palco è sobria, l’attacco mette bene in chiaro che non ci si potrà lasciare andare e divertirsi con spensieratezza, e si dovrà piuttosto far lavorare la mente, farla ragionare per capire, più o meno esattamente, quanto ci voglia comunicare il quartetto con base ad Atene. Psichedelia cosmica, spirito esplorativo, un’attenzione maniacale ad ogni piccolo aspetto del suono sono tratti essenziali di questo progetto, proteso a una forma di metal con molti punti di contatto con la sua visione più tradizionale. Il discorso però si fa in un battibaleno difficile, la batteria si arrovella su tempi dispari dilatati, irregolari, e la voce (femminea) passa da toni calmi ad altri completamente imbizzarriti senza soffermarsi su linee accondiscendenti a una fruizione disimpegnata. Il chitarrismo di Manos è poi qualcosa di esagerato e costituisce il principale differenziale con la concorrenza: questo musicista usa infatti una doppia chitarra, e dimostra di non armeggiare con questo strumento solo per dare spettacolo, tutt’altro. La consistenza e la conformazione dei riff sono unici, hanno una speciale profondità e una pulizia esecutiva abbinata alla pesantezze sentite poche altre volte. E’ difficile oggigiorno ascoltare delle partiture doom che possano dirsi pienamente originali, eppure Manos riesce nell’intento. E se i primi passaggi sono quasi fin troppo studiati, trattenuti, quando il gruppo fa esplodere un po’ di sano rumore allora tutto torna e ci compiacciamo veramente di quanto stiamo assistendo. Recuperando un minimo di carnalità e scendendo dal piedistallo un po’ altezzoso di inizio concerto, gli Universe217 fanno provare inconsuete emozioni ai presenti e da un set di puro ascolto si può passare a una appagante mediazione fra umori ineffabili e scariche elettriche quasi umane. L’ultima fatica del gruppo è l’ep “Ease”, edito a ottobre 2014; il consiglio è di andarlo a recuperare, e proseguire quindi a ritroso coi tre album realizzati in precedenza (l’omonimo esordio, “Familiar Places”, “Never”): potreste rimanere a bocca aperta.

Universe217 - Acherontic - 2015
CASTLE

E poi i tuoi recettori nervosi esplodono di rinfrancante piacere, scoprono un’oasi heavy metal di cui sapevi l’esistenza, ma ancora non ne avevi provato la mirabolante essenza. Castle, un nome evocante fantasmagorie medievali o fantasy, cruente battaglie per il potere, meraviglie celate a chi tra le possenti mura di un castello non può entrare. I Castle, a dire il vero, sono un trio dai modi chiari, diretti, di quelli che ti fanno capire in un lampo con chi tu abbia a che fare. Non si nascondono dietro astuzie o stratagemmi di scena. Musica, solo musica, quella che ci arriva dal palco. Nobilitata da una voce, una prestanza, una presenza scenica al femminile tra le più autoritarie, carismatiche, che occhio e orecchio abbiano potuto apprezzare in tanti anni di militanza sotto i palchi. Vi diciamo di più, ci allarghiamo: se dovessimo decidere quale sia la nostra frontwoman prediletta, l’unica che dovessimo salvare dall’oblio e dallo sfacelo, sceglieremmo lei, Elizabeth Blackwell, nobildonna del metal incorrotto, incarnazione al gentil sesso di Phil Lynott: abadessa dei nostri sogni, custode di una vocalità difficile da catalogare, consona all’esile ma robusta figura, portentosa nell’estensione come nell’interpretazione enfatica e assieme furibonda, smisurata. La schiettezza dell’hard rock più ribollente e adrenalinico, l’heavy metal inglese fuso ad altissime temperature con quello a stelle e strisce, il doom dei Saint Vitus velocizzato, il nervosismo del punk a sobillare gli istinti e far esplodere ogni singola nota; tutti questi elementi concorrono nella musica del terzetto californiano, la inondano di usi e costumi noti, ma senza dare punti di riferimento così evidenti. Ci sarebbe anche la rivisitazione in chiave rock dell’occultismo maledetto degli Anni ’70, condotto dai Castle a una forma per nulla stereotipata, di irrefrenabile esaltazione ritmica. Il basso della Blackwell e la batteria sono indomiti, pronti a scatenarsi in un incedere motorheadiano vorticoso e imprevedibile; a metterci la classe necessaria a far volar via ogni brano, a farlo entrare nella galleria di piccoli capolavori di cui l’heavy metal classico di oggi è un po’ avaro, ci pensa l’estro chitarristico dell’altra mente del progetto, Mat Davis, sospeso tra Tony Iommi, Dave Murray e Dave Chandler. Se le band precedenti hanno dato ampie soddisfazioni, i Castle travolgono tutto e tutti, con una prestazione memorabile che fa capire cosa possano combinare tre individui dotati di talento e attributi a tonnellate, quando cooperano per diventare un’unica entità inscindibile. Gli autori di “Under Siege”, da poco fuori con il nuovo singolo “Deadhand Hexagram”, meritano di entrare nelle case di chiunque si professi metallaro duro e puro, fedele adepto dei racconti leggendari sul filo del pentagramma di tre decenni orsono.

Castle - foto Acherontic - 2015
SULPHUR AEON

A circa metà concerto, in un momento in cui gli elementi infuriavano a più non posso e si stava facendo palpabile la sensazione che, da un momento all’altro, il soffitto si squarciasse per lasciare passare un immenso tentacolo, il sottoscritto si è trovato in uno di quegli stati d’animo che sempre vorrebbe avere durante i concerti. Un misto di ammirazione, shock, esaltazione e vero e proprio terrore per quello che si ha davanti. I Sulphur Aeon sono così, un gruppo impossibile da osservare e basta, oppure tramite il quale lasciarsi andare al mosh o all’headbanging. No. I Sulphur Aeon mettono a dura prova l’immaginazione, la comprensione di quanto stia avvenendo sul palco, scuotono le interiora e fanno girare a mille il cervello, espandendone oltremisura la capacità di concatenare eventi noti, estrometterli dal loro alveo primigenio, e unirli assieme per dare vita a un mondo a parte, bellissimo e spaventoso assieme. Con due soli dischi, questi musicisti tedeschi hanno ridisegnato il death metal secondo una connotazione epica e fragorosa, esorbitante nel suono e rigonfia di tutte le emozioni più fantasmagoriche che la grande letteratura horror, la storia classica, il cinema più visionario possono suscitare in noi. Chitarre di inusitata profondità intellettuale riecheggiano di un epos infinito, un concentrato di tutte le battaglie più sanguinose ed eroiche che la storia ricordi, buttateci in faccia con un’aggressività da kolossal, una legione di soldati infernali e invincibili in marcia per la conquista dell’intero mondo conosciuto. Se su disco la musica dei Sulphur Aeon suona grandiosa, immensa e intransigente, nel contesto live tutti gli aspetti conosciuti si amplificano, travalicano qualsiasi limite. Se i fraseggi chitarristici sono la pietra angolare del funambolico e granitico edificio sonoro dei Nostri, il resto della formazione non è da meno nel suffragare l’hype underground verso “Swallowed By The Ocean’s Tide” e “Gateway To The Antisphere”. La voce lascia allibiti, è un ottimo growl capace di incamerare pure una teatralità ferocissima e di ridare continuamente slancio ai pezzi, assecondandone i continui cambi di direzione atmosferici. Pressione e fantasia viaggiano di pari passo dal vivo, all’Acherontic lo scuotimento diventa insostenibile grazie a luci aggressive quanto la musica: raggi di luce bianca sparati in faccia, improvvisi abbassamenti di luminosità con il rosso sangue, il blu e un verde alla Type O Negative a dominare la scena alternativamente, quasi cambiando le sembianze e la percezione dei musicisti. Costoro, tutti schierati quasi sulla stessa linea a ridosso del limitare dello stage, sono sembrati un unico corpo, un solo organismo e, tanto per richiamare nuovamente la cover dell’ultimo disco, una piovra dal gigantesco corpo centrale e tentacoli di dimensioni altrettanto incommensurabili. Fatto un doveroso plauso a una sezione ritmica meno protagonista di altri ensemble death moderni, ma altrettanto decisiva nell’indirizzare la performance di Oberhausen su territori elitari, resta da segnalare il giro vita di tutto rispetto del bassista, l’unico un po’ sui generis nella vestizione con il suo saio col cappuccio, e il ritmo impossibile dell’esibizione. I Sulphur Aeon hanno ridotto le pause al lumicino, così da far sembrare i tre quarti d’ora disponibili un’ora e mezza, tanta è stata la foga e l’istinto omicida messi in campo. Non sappiamo quando e se passeranno dall’Italia durante l’anno, dovesse succedere l’unico consiglio possibile sarebbe: andate a vederli, andate a vederli, andate a vederli, andate a vederli…

Sulphur_aeon - foto Acherontic - 2015
VANDERBUYST

Tenere arzillo il pubblico a seguito dell’apocalisse scatenata dai Sulphur Aeon, è impresa erculea. Il percettibile cambio di registro sonoro, dal death metal all’hard rock metallizzato dei Vanderbuyst, aiuta e non aiuta a far restare vigili. Misurarsi su un terreno totalmente diverso da quello degli extreme metaller tedeschi toglie pressione da un certo punto di vista ai tre olandesi, dall’altro rende oltremodo evidente la relativa leggerezza di uno dei gruppi meno oscuri e più fuori contesto della manifestazione. E’ anche vero che gli uomini capitanati dal cantante/bassista Willem Verbuyst sono abbastanza conosciuti in zona Nord Europa, e pur scontando qualche spazio vuoto in più di chi li ha preceduti si possono permettere un seguito decoroso, in quella che è una delle selezionate tappe della loro tournee d’addio. Una ritirata dalle scene annunciata con largo anticipo, che non va comunque a velare di malinconia un’esibizione degna di quanto prodotto in passato in studio, e messo in ottima luce dal vivo. La camicia da “Febbre del Sabato Sera” del leader, una sorta di nipotino di Phil Lynott nelle fattezze e nelle pose, fa capire quali possano essere i toni della serata: un viaggio a trecentossesanta gradi fra metal cromato di scuola inglese e americana, con giri chitarristici così struggenti da scomodare proprio i Thin Lizzy e schemi ritmici maledettamente coinvolgenti, a metà strada fra certe astuzie degli ZZ Top degli Anni ’80 e il power metal melodico statunitense. Oltre a un pizzico di glam della caratura più spessa e pregiata. Un’atmosfera d’altri tempi, quindi, avvolge la Turbinenhalle, e la risposta dell’audience non sarà magari quella data agli headliner o ad altre band dalle striature sinistre e misteriose viste nei due giorni, ma si rivela comunque all’altezza della piccola storia di talento, dignità, sudore e passione del terzetto dei Paesi Bassi. Il frontman ride e scherza nella pause, e non si fa fregare dall’emozione neanche quando ricorda che i Vanderbuyst cesseranno di esistere entro l’anno. La scaletta va a toccare tre album sui quattro rilasciati, tenendo stranamente fuori qualsiasi estratto dal secondo full-length “In Dutch”. Dall’apertura autocelebrativa di “Flying Dutchman” al tambureggiare irresistibile di “Roller-Coaster Ride”, fino alla programmatica chiusura di “Welcome To The Night”, il gruppo fa di tutto per farsi rimpiangere, fra polifonie vocali, assoli torrenziali, pulsazioni di basso fra il lynottiano e l’harrisiano. Un bel modo di celebrare una storia breve, intensa, forse un po’ trascurata. Almeno per quanto riguarda i dischi, c’è tempo per rimediare.

Vanderbuyst _ foto Acherontic - 2015
ATTIC

In Germania, loro paese natale, gli Attic stanno salendo di popolarità nel circuito classic metal, ed è quindi giusta e sacrosanta la collocazione appena prima degli headliner Atlantean Kodex. Alle qualità musicali, i ragazzi di Gelsenkirchen – praticamente giocano in casa – abbinano un concept visuale molto affine al nume tutelare King Diamond, e con l’ampia area a disposizione a Oberhausen possono dare sfogo a tutta la loro fantasia in tema di visioni ed evocazioni sinistre. Tra la cancellata vicino ai monitor, l’enorme crocifisso capovolto al centro dello stage, candelabri fiammeggianti e l’odore di incenso, gli Attic si sbizzarriscono nel creare un tipico set da film horror, a metà strada tra il cimitero e il vecchio maniero infestato dai fantasmi. La band è solita partire a razzo e travolgere l’ascoltatore, sorprendendo magari chi non li dovesse conoscere benissimo e si aspettasse uno show con molta atmosfera. All’Acherontic Arts Festival Meister Cagliostro e compagni inaspriscono questa componente di aggressione luciferina, e giovando di volumi alle stelle assaltano l’audience come una muta di lupi mannari a digiuno da una settimana. Più che un gruppo di proseliti del metal dardeggiante ottantiano pare di trovarsi di fronte a degli Exciter ammantati di un briciolo di occultismo: ubriacante e doloroso. L’impeto assassino dei cinque fa quasi impallidire l’ultima, eccellente, esibizione da noi ammirata all’Eindhoven Metal Meeting 2014: allora erano risaltate meglio la pulizia esecutiva e gli intrecci chitarristici tra NWOBHM e Mercyful Fate, in questo caso è la violenza insensata a spadroneggiare. Il singer canta ancora meglio delle altre due occasioni in cui l’avevamo visto all’opera, non rifugiandosi in tonalità più basse di quelle, lancinanti, udibili su disco. L’abbiamo già detto, ma lo ripetiamo volentieri: vi sfidiamo a trovare qualcuno che padroneggi meglio al giorno d’oggi il falsetto. I chiaroscuri delle luci donano un’apparenza mefistofelica a tutti i musicisti, grondanti assenza di misericordia alla stregua di un ensemble black/death accasato presso la Iron Bonehead o la Nuclear War Now!. Una mattanza, a colpi di “Funeral In The Woods”, “Join The Coven”, “Satan’s Bride”, che lascia interdetti anche chi ha ormai una certa familiarità con il gruppo e i suoi brani, tratti dall’unico full-length “The Invocation” e dal poco altro materiale rilasciato finora. Adesso speriamo diano un seguito al disco d’esordio, risalente al 2012. Contiamo su di loro.

Attic - foto Acherontic - 2015
ATLANTEAN KODEX

Il saccheggio delle magliette e dei vinili, al banco degli Atlantean Kodex, comincia molto presto. C’è attesa. I ragazzi bavaresi quest’anno stanno suonando dal vivo più del consueto – sono passati anche dall’Italia a gennaio – ma non sono di certo il gruppo che si può vedere all’opera tutti i giorni. Hanno attorno un’aura magica, dettata dall’essere vere icone dell’underground, quello poco restio a mettersi in mostra, centellinante uscite discografiche e apparizioni live. Non è nemmeno da sottovalutare il modo molto dimesso con cui i cinque si pongono nei confronti dei propri fan: sono tutte persone che potreste trovarvi di fianco in ufficio, in fabbrica, in negozio, in qualsiasi normale posto di lavoro. E non farebbero nulla per farvi sapere cosa fanno nel tempo libero, né si metterebbero su un piedistallo per le loro attività artistiche. Con quest’aria da uomini della strada, contrapposta ai modi da selvaggi degli Attic, l’impatto iniziale della stupenda, ma non immediatissima, “Enthroned In Clouds And Fire” è un po’ freddino. Markus Becker, capello corto alla Harry Conklin, sembra quasi un po’ a disagio nel ruolo di frontman. Canta bene, però pare un po’ sforzato, e l’atmosfera generale ne risente leggermente. L’andamento irregolare del pezzo fa il resto, e le nostre prime impressioni sono positive fino a un certo punto. Che gli Atlantean Kodex dal vivo perdano parte del loro fascino? E’ un dubbio che dura pochissimo, il tempo dell’attacco a cappella di “Sol Invictus”. Ci diamo dei deficienti per avere anche solo dubitato dell’efficacia on-stage del quintetto! Non avranno mai movenze feline e quelle pose plastiche che piacciono tanto al pubblico uso a guardare più all’apparenza che alla sostanza, ma per chi bazzica contesti come questi, dove la musica è tutto e il contorno è un surplus, non il punto centrale del discorso, gli epic metaller teutonici sono il massimo della vita. L’epos privo di asperità, fuori da qualsivoglia contesto bellico, rivolto piuttosto a un’erudita ricerca nel campo della storia e del pensiero europeo, è materia da trattare con rispetto e cultura, e in questo gli Atlantean Kodex non sono secondi a nessuno. La pulizia esecutiva degli album e del mitico “The Pnakotic Demos”, che ne aveva diffuso il verbo prima del debutto, sono ricalcate con sapienza e feeling dal gruppo tutto, esempio di coesione e compattezza quasi fraterna. Becker, scaldata la voce e messosi in piena sintonia con un pubblico in visibilio come per nessun altro nei due giorni, sfodera una prestazione stellare, che ben pochi singer di metal classico sono in grado di pareggiare: su “Heresiarch” va molto alto, e non perde in enfasi né in potenza, concedendo anche agli astanti di andargli dietro e di dargli il cambio nei refrain. Poco importa se i suoi compagni sono piuttosto statici, quello che sanno provocare con gli strumenti basta e avanza: il piccolo grande uomo Michael Koch, stoico per come tiene il palco visti i problemi di salute che lo affliggono – lo si vedrà uscire zoppicando vistosamente, il soundcheck lo aveva fatto da seduto – sciorina assoli che sono raggi di luce accecante nella notte più profonda; il suo contraltare ritmico Manuel Trummer gli regge il gioco bilanciando pesantezza e nitidezza, mentre basso e batteria compiono un lavoro oscuro ma preziosissimo. Il concerto ormai è decollato, e Becker guadagna terreno anche sul piano dell’intrattenimento, con introduzioni ai singoli brani che suonano quasi cattedratiche, perché in poche parole il singer spiega il significato del pezzo che si andrà a sentire, facendone percepire ancor prima che venga suonato tutto lo studio e il lavoro che vi sono dietro. L’ampia scaletta rende omaggio equamente a entrambi i full-length, con gli estratti di “The Golden Bough” a bilanciare nel tiro il misticismo di quelli di “White Goddess”. Il personale highlight di chi scrive è rappresentato dalla costellazione di strofe drammatiche come una guerra dei mondi di “Twelve Stars And The Azure Gown”, posta appena prima dell’inno “The Atlantean Kodex”. Acclamata dal pubblico, incurante che siano quasi le due, la band esce a dare un ultimo saggio della sua classe con “Temple Of Katholic Magick”. Altro profluvio di cori e controcori, a chiusura di un’ora e mezza praticamente effettiva, con pochi attimi di respiro e tanto epic metal al platino. Che la leggenda degli Atlantean Kodex prosegua in eterno…

Setlist:
Enthroned In Clouds And Fire
Sol Invictus
Heresiarch
From Shores Forsaken
Pilgrim
A Prophet In The Forest
Lucifer’s Hammer (cover dei Warlord)
Twelve Stars and an Azure Gown
The Atlantean Kodex

Encore:
Temple of Katholic Magick

Atlantean_kodex - foto Acherontic - 2015
CROM DUBH

Il secondo giorno di festival si apre nel segno del metal estremo. La seconda giornata sarà impostata su sonorità sensibilmente più pesanti e si entra subito nel mood giusto con i Crom Dubh. Inglesi, approdati da poco all’esordio con “Heimweh”, guardano ai miti e alla storia della loro terra, e ci conducono verso un black metal mediante atmosfera e velenosità, secondo canoni piuttosto tradizionali e una predilezione per i riff lunghi ed avvolgenti. Il gruppo, un po’ per gli ampi spazi vuoti davanti al palco – col passare delle ore l’affluenza migliorerà, ma per i primi gruppi gli effettivi saranno minori che nella prima giornata – un po’ per la sua staticità e una proposta non sorprendente, ma sviluppata secondo modalità che non prevedono chissà quanta immediatezza, lascia in principio freddini i valorosi già presenti. Complice anche un abbrivio un poco scontato, che lascerebbe presagire un concerto truce e molto scarno. Quando ci si accorge del ventaglio emotivo a disposizione dei quattro, incorniciati nel loro immobilismo da efficaci luci azzurre, del loro epos sotterraneo in emersione controllata fino a un taglio eroico raffinato e strutturato, allora la percezione dell’operato degli albionici cambia. Tanto che quando, sommessamente, ci salutano dopo mezz’ora di show, rimaniamo con la sensazione che si fosse appena cominciato a fare sul serio. C’è margine per crescere, questi musicisti avranno di che lavorare sulla presenza scenica, mentre sul fronte contenutistico possono già andare in giro a testa alta.

Crom_dubh - foto Acherontic - 2015
CARONTE

Un pezzo d’Italia all’Acherontic Arts Festival. Sono i Caronte, il secondo album è uscito proprio per Vàn Records a fine 2014 e nel momento in cui va in scena il festival hanno appena iniziato un tour europeo in compagnia dei compagni di etichetta Attic. Qualche piccolo problema nel soundcheck innervosisce leggermente Dorian Bones e soci e li porta a tagliare l’intro. Quando arriva l’orario di iniziare, ogni dettaglio va al suo posto e i suoni si rivelano essere equilibrati, pieni e “grattati” come lo stoner/doom esoterico dei parmigiani richiede. C’è un nuovo disco da supportare, e allora viene presto il turno di gustare “Maa-Kheru’s Rebirth”, “Temple Of Eagles”, “Wakan Tanka Riders”. Qualcosa è cambiato nello stage-acting di Bones, frontman di alto livello e solito muoversi quasi sonnambulo e in trance per lo stage, in modo molto scenografico. L’ultima volta che il sottoscritto aveva visto i Caronte in azione era ad inizio 2013 di supporto ad Angel Witch e Grand Magus, e vi era allora meno fisicità nel modo in cui il cantante si rapportava agli astanti. Adesso le sue mosse paiono poco studiate e dannatamente istintive; i vocalizzi lontani, grigi e sofferti, sono sempre gli stessi, ancora più rabbrividenti di quelli udibili su disco, mentre le pose sono rabbiose, convogliano umori meno ampollosi e più ferini. E’ sempre una grande emozione sentire “Horus Eyes” e “Ode To Lucifer”, emanazione di sospiri esoterici tutt’altro che manieristici o posticci, una contemplazione e dissertazione dell’occulto profonda e scevra da facili sensazionalismi. Riff arrotati, neri con gradazioni di cobalto, ribollenti come lava di un vulcano, esondano su di noi, infusi di una potenza ispida e irrequieta che non teme confronti con Cathedral e Danzig. Una prestazione molto positiva si chiude con l’hit della band, “Black Gold”, e anche la compassata audience teutonica pare ravvivarsi per questa ulteriore iniezione di energia. Un inizio-tour avvincente e convincente, in poche parole.

Caronte - foto Acherontic - 2015
SALIGIA

Inizia il festival delle candele. Dai Saligia ai Necros Christos, chi più chi meno riempirà il palco di fiammelle: ogni band con la sua particolare disposizione, dettata dal desiderio di officiare un rito tutto suo. I primi a collocarsi in questo circolo morboso, a ficcarci la testa dentro con la convinzione non degli uomini di spettacolo ma tipica di chi si sente in armonia con entità che le masse preferiscono non conoscere, o si ritraggono davanti ad esse, sono i norvegesi Saligia. Si rappresentano e vogliono indurci a credere che siano rimasti legati alle gesta della Norvegia Anni ’90; comportamento distaccato, sguardi torvi, face painting approssimativo e stazzonato. Il cantante ha proprio del frontman black metal vecchio stampo, segaligno e con il volto raggrinzito in una smorfia di odio implacabile. Come per chi li ha preceduti, ci vuole tutto il primo pezzo a farci digerire pienamente la band. Il problema evidente è che i Saligia non sanno adottare un comportamento consono al contesto live: lanciano occhiate attorno un po’ spaesati, i due altarini con le candele posti molto ravvicinati inoltre non li aiutano a mettersi bene in mostra. L’occupazione degli spazi provoca più di un problema, il singer tende a dare le spalle all’audience e denota qualche piccola imperfezione nell’intonazione. Fortunatamente gli autori di “Lvx Aetyernae”, ep vecchio oramai due anni, non sono degli sprovveduti, e vincono le nostre diffidenze professando un lotto di canzoni teatrali, fortemente cupe e impiastricciate di sangue nerastro. I quattro recuperano le istanze dei Mayhem di “De Misteriis….” e dei Darkthrone di “Panzerfaust”, permeandole di una carica mistica elevata e, per quanto possibile, non strettamente aderente a cliché arcinoti. Anche l’approccio vocale diventa sicuro e malevolo a sufficienza per farci provare qualche brivido lungo la schiena, e alla fine pure i Saligia si guadagnano la nostra approvazione.

Saligia - foto Acherontic - 2015
SORTILEGIA

Scende il buio. Una notte greve, senza stelle, cala di colpo sulla Turbinenhalle. Il ricco sistema di luci del palco viene messo temporaneamente a riposo, quando è il turno dei Sortilegia salire sul palco. In primo piano, un altare improvvisato con un drappo nero, uno sfavillio di lugubri candele e un calice appoggiativi sopra; dietro, un’esile bionda nascosta da un lungo mantello con cappuccio e un face-painting spettrale. Non sappiamo cosa attenderci da uno dei due soli gruppi – l’altro sono i Castle – provenienti dal continente nordamericano. Non conosciamo – ahinoi quanto siamo impreparati! – il numero dei musicisti impegnati. Sono in due. La signorina a cantante e voce e un batterista che sarà praticamente invisibile ai nostri occhi durante l’intera esibizione. Questi canadesi, a conti fatti, sono quanto di più old-school si possa trovare nel giro del black metal odierno. Puri, purissimi, senza altre inflessioni che non siano quelle misantrope dei Mayhem e dei Darkthrone meno rifiniti, o dei Gorgoroth. Un’essenzialità dirompente, ripetitiva, un viaggio alle radici del culto della Nera Fiamma, uno scampolo di passato approdato chissà come in pieno 2015. Attenzione, certe più o meno velate evoluzioni rispetto ai canoni ferrei del suono norvegese, alcune misurate “sciccherie” e segnali di modernità di gruppi quali Misþyrming e Svartidaudi, il respiro melodico dei giganteschi MGLA, qua non ci sono. Il quantitativo di odio inconsulto è raggelante, la voce di Koldovstvo è una fetida annunciazione di morte, dolore e raccapriccio; i lunghi brani si srotolano dissennatamente in una sfrenata, monocorde, degradazione e disintegrazione di umanesimo e misericordia. La cantante beve dal calice e ringrazia con un cenno del capo, per rituffarsi immediatamente in altre lubriche fantasticherie mortuarie. Non sappiamo dirvi se i Sortilegia siano una delle new sensation dell’underground estremo internazionale (l’esordio “Arcane Death Ritual” è uscito a dicembre 2014), siamo tutt’ora allibiti da questa incompromissoria adesione alle regole basilari del genere, e non abbiamo capito del tutto se dobbiamo considerarli uno scherzo ben fatto, oppure una band dotata di un reale spessore artistico. La distinzione ancora non ci è chiara. Mentre sull’abbassamento di temperatura nel nostro corpo durante il concerto, su quello possiamo mettere una mano sul fuoco. Malvagità glaciale.

Sortilegia - foto Acherontic - 2015
URFAUST

Già il primo giorno si era visto in giro un quantitativo di maglie degli Urfaust a dir poco sconcertante. Il secondo, quando il sulfureo duo è effettivamente in programma, è chiaro come gli olandesi siano attesissimi, e ci viene in mente che, visto quanti li stanno aspettando, anche una collocazione da headliner avrebbe scontentato ben pochi. Quando un’affascinante velo di dense luci violaceee va a posarsi su IX, cantante e chitarrista, e il batterista VRDRBR, lo stesso dei metal/punker Heretic, lo spazio antistante il palco diventa fittamente popolato, e si scorge una bramosia sconosciuta per tutti gli act precedenti. E, come vedremo, non si raggiungerà nemmeno per i The Ruins Of Beverast. Vi confessiamo di non aver capito i motivi di tale rapimento, e soggiacimento estatico, per una proposta che dir minimale non rende l’idea. Ad orecchie novizie dell’operato di questa entità esoterica, il tutto suona ripetitivo e monocorde, incanalato su nenie stordenti e pregno di una specie di arroganza, un compiacimento nella reiterazione, di difficilissima digestione. I tempi di batteria ridicolizzano, in termini di univocità di soluzioni, i combo stoner/doom più drogati e avviluppati da lentezza catatonica; ci si può concentrare quanto si ha voglia sull’operato di VRDRBR, ma di grandi cambiamenti nei suoi pattern, così come di un minimo di dinamismo, non se ne sentirà traccia alcuna. La sei corde non ci regala nulla di pittoresco o suggestivo, i riff sono lunghi e scarni all’ennesima potenza, piuttosto fascinosi se presi singolarmente, deprecabilmente amorfi se considerati nell’insieme, visto che alla fine si assomigliano tutti… La narrazione in tedesco, salmodiante, non ci dispiace, eppure anch’essa finisce per far assopire, non si stacca mai dalle stesse due/tre tonalità mescolate sempre secondo le stesse alternanze. Quella degli Urfaust è musica costruita per far piombare in un sonno ipnotico, e non far risvegliare più. Dovessimo circoscriverla a un ambito ben preciso, parleremmo di doom nell’accezione più ampia e indistinta del termine, con i retaggi black metal di cui i Nostri dovrebbero essere portatori, francamente, pressoché invisibili. Con una durata limitata a mezz’ora al massimo, ce la saremmo cavata senza eccessivo tedio: peccato che, scientemente, il gruppo se ne infischi dei paletti orari e, anche dopo numerosi solleciti, continui a suonare ignorando lo stage manager che si sbraccia, incazzato nero, per farli smettere. Alla fine tale individuo dovrà andare direttamente da IX e mettergli l’orologio davanti agli occhi per interrompere il concerto! Boriosi e un po’ maleducati, questi “celebrati” Urfaust….

Urfaust - foto Acherontic - 2015
NECROS CHRISTOS

Notevole come le circostanze in cui un gruppo si trovi ad operare influenzino radicalmente il giudizio sul suo operato. Al Wolf-Throne, i Necros Christos avevano fatto un’ottima figura, ma scontavano una minore poliedricità e ricercatezza rispetto a chi li aveva preceduti, configurandosi come un gruppo “normale”, seppure di valore, al confronto di famigerati pesi massimi quali Acherontas, Lvcifyre, Maveth. In una giornata contraddistinta da ottimi concerti, ma con minore “concorrenza” nello stesso ambito di manovra, i Necros Christos salgono di livello, confezionando una delle migliori prestazioni della seconda giornata del festival. Sarà anche una questione di maggiore familiarità acquisita con quanto sanno offrire, o della potenza scenografica di uno stage come quello della Turbinenhalle, oltre che del consueto, imponente, sonoro; fatto sta che alambicchi e ampolle di esoterismo e disdicevole aggressione, modellata con la passionalità di strumentisti che incarnano, non solo suonano, la propria musica, si infrangono di colpo e aspergono un’infusione di misticismo e dolorosa penitenza sull’audience. I cadenzati ci paiono più efficaci, le marce apocalittiche a tutta velocità prove di resistenza per conquistarci una purificazione venefica ed appagante. Un solo corpo e una sola anima, questo sono i musicisti assoldati nei ranghi dei Necros Christos, che rifulgono di una convinzione suprema nell’arte promulgata, impegnandosi al massimo per trasformare un semplice concerto in un momento impagabile e non ripetibile. Lo status di questi ragazzi sulla scena è oramai di quelli importanti e il fragore della risposta, per giunta in patria, era ampiamente nelle previsioni; canzoni come “Curse Of The Necromantical Sabbath” o “Black Bone Crucifix” sono entrate a far parte della porzione nobile della cultura metallica germanica, ed europea, e contando anche sul carismatico frontman in tunica e bandana Mors Dalos Ra i Necros Christos trionfano anche oggi, sull’ennesimo palco prostratosi sinceramente ai loro piedi.

Necros_christos - foto Acherontic - 2015
DEATHRONATION

Ci sembrava strano che su due giorni di concerti non si presentasse nemmeno un gruppo dal suono “tedesco” fino al midollo. Uno di quei manipoli di uomini irsuti e borchiati, in preda a rancori distruttivi, che peccano impunemente riportando in un contesto death metal la cultura extreme thrash della sacra triade, dei Darkness, dei Projector, dei Violent Force. Arrivati a questo punto della giornata, ci sta un set di mero assalto, privo di ambizioni artistiche, uno dei meno interessanti dal punto di vista esecutivo, ma pregno di una violenza primitiva degna della nostra approvazione. Via le candele e gli altri simboli occulti caratterizzanti questa lunga serata nell’ex sala turbine, sul palco si presentano in quattro, uno più cattivo dell’altro. I Deathronation tengono fede a nome e immagine e pigiano sull’acceleratore senza guardare in faccia a nessuno. Un feeling molto ottantiano permea la performance dei musicisti di Norimberga, protesi a esacerbare ogni riff, ogni rullata di batteria, infiammandoli di un fuoco sacro che non cessa di regalare frutti malevoli per tutti i tre quarti d’ora di concerto. Si riaccende un po’ di mosh, i ritmi old-school death metal rinfocolano ardori tenuti sopiti nelle altre esibizioni, anche se l’attenzione generale non si eleva più di tanto, proprio perché al di là di un ferale impatto il gruppo non ha moltissime carte da giocare. Magari si potrà discutere sul posizionamento così in alto nel bill, ma in un festival tanto “democratico” come questo, dove le differenze nel minutaggio disponibile sono minime, ci sembra un discorso poco significativo. Ciò non toglie che gli autori di “Hallow The Dead”, album d’esordio uscito a ottobre scorso, non abbiano espresso la miglior musica dell’Acherontic Arts Festival.

Deathronation - foto Acherontic - 2015
GRIFTEGARD

Copiosi omaggi ai Signori degli Inferi lasciano clamorosamente spazio, per qualche decina di minuti, a un act che pare avere a cuore le forze del Bene piuttosto di quelle del Male. I Griftegard, svedesi, frequentano il doom di connotazione impetuosamente angelica dei While Heaven Wept, con una diluizione dell’impeto e un’erezione di granitici piedistalli sonori secondo una percezione e modellazione della materia degna dei Reverend Bizarre e della loro propensione all’immobilismo. La batteria contiene il numero dei battiti a livelli bradicardici, i chitarristi dispongono della sei-corde come fosse una campana, ogni movimento della mano un rintocco lungo e gigantesco, un’ode celestiale ricolma di potenza ultraterrena. Pesantezza incalcolabile e celestialità sono presenti in simultanea nelle monolitiche composizioni di questi doomster nordici, impreziosite dalla voce al limite del lirico del corpulento – riduttivo – e bravissimo singer Thomas Eriksson. Una vocalità cristallina e priva di increspature la sua, angelo di rudi fattezze e grande cuore, che dietro un leggio declama con drammaticità di poeta e sacerdote, quasi raccogliendo l’eredità di Eric Clayton dei Saviour Machine, da una parte, e di Rain Irving dei già nominati While Heaven Wept. Una sofferta epicità promana dall’operato del gruppo, bravissimo nel rimanere sui binari della classicità rimanendo praticamente fuori dal raggio d’azione di gruppi più noti, coevi o del passato, anche se non vanno a reinventare e rivoluzionare il genere di competenza. Le lungaggini degli Urfaust, ahinoi, hanno quale vittima principale proprio i Griftegard, che vedono ridotto di un buon quarto d’ora il set: un peccato, perché l’impressione nella mezz’ora e spiccioli in cui restano sul palco è quella di una band ben superiore alla media. Il preziosismo nell’ultimo brano in scaletta, a mitigare la delusione di saperli a fine show, è la cover di “The Four Horsemen” degli Aphrodite Child, uscita sull’ep eponimo (sarebbe meglio parlare di 7’’, la pubblicazione concerne questo brano e la b-side “A Beam In The Eye Of The Lord”) lo stesso giorno del festival. Per l’occasione, sale sul palco anche Farida, così che il duetto in studio sia riproposto fedelmente dal vivo. Vuoi il valore e la rinomanza del pezzo, vuoi l’esclusività dell’occasione e l’affetto nutrito dal pubblico per l’ex singer dei The Devil’s Blood, la lunga estasi in vertiginosa progressione, assistita da cotanta forza espressiva nelle voci, si colloca tra i migliori momenti della manifestazione. L’atmosfera durante l’esecuzione di “The Four Horsemen” è, senza paura di essere retorici, magica: una toccante comunanza delle medesime sensazioni di positività e serenità tra band e pubblico, entrambi purificati da cotanto sfoggio di tatto e forza immaginifica applicati alla musica.

Griftegard - foto Acherontic - 2015
THE RUINS OF BEVERAST

Headliner della seconda giornata, e ultima band a comparire sul palco della Turbinenhalle, sono i tedeschi The Ruins Of Beverast. Ci vuole qualcosa di molto sfizioso per tenere deste persone sull’orlo del sonno e un po’ intorpidite al termine di due giorni davvero molto intensi. Il gruppo che per primo siglò una partnership con l’etichetta organizzatrice del festival (l’esordio “Unlock The Shrine” è stata la prima pubblicazione in assoluto nella storia della Vàn, nel 2004) rende onore al proprio ruolo, confezionando un concerto stupendo, entusiasmante sia per i fan di lungo corso, sia per coloro ancora poco addentro alle dinamiche di questa originale entità estrema. Chi scrive è rimasto notevolmente impressionato sia dalla natura della musica, sia dall’interpretazione fornita on-stage. I The Ruins Of Beverast hanno trovato il classico “uovo di Colombo”, abbinando ricercatezza, complessità, ordine e un certo rigore estetico nella propria proposta, oggi come oggi difficilmente accostabile a chiunque altro. C’è l’eleganza del black sinfonico, l’opprimenza poetica del gothic/doom inglese di primi Anni ’90, la ferocia del death metal, parti lercissime ed altre di melodiosità cristallina. Le legature armoniche, frutto di due chitarre dialoganti e complementari come in un combo metal classico, una tastiera inserita benissimo nel contesto e centrale nell’assemblato sonoro senza esserne né succube né prevalente, sono ricche di inventiva e molto immediate; la sezione ritmica persegue inoltre scelte abbastanza inusuali, andando a impostare passaggi molto quadrati tipicamente germanici, e altri finemente lavorati per creare straniamento e tratteggiare, assieme a sei corde e tasti d’avorio, scenari da incubo molto vividi e magnificenti. Risonanze di un passato crepuscolare, atrocità medievali, eroismi e gesta supreme sembrano prendere vita nella musica di questi artisti, letali quando c’è da afferrare al collo l’ascoltatore, passionali e quasi ampollosi – in senso positivo – nel momento in cui tessono melodie ambigue e le sovrastano con triplici incroci vocali dove anche il pulito si guadagna il suo bello spazio. Poco intrattenimento, oltre alla musica, se si eccettua l’ennesimo light show coi fiocchi; in questo caso, tonalità rossastre e azzurre mistificano le apparenze degli strumentisti, attorniati da grandi nuvole di fumo, forse per esacerbarne la connotazione misteriosa e deumanizzarne un poco l’aspetto. Misura azzeccata, perché il concerto assume un’ambientazione quasi sacrale che ben si confà alla sfuggente identità artistica dei tedeschi: per certi versi, potrebbero ricordare i Bolzer, uno dei pochi gruppi facilmente inseribili nel filone estremo senza poterne infine dare una descrizione più precisa. E’ quasi l’una e mezza quando i The Ruins Of Beverast chiudono, davanti a un’audience ancora nutrita e rumorosa. Andiamo verso il nostro albergo contenti e soddisfatti, per un festival organizzato in modo eccellente e dalla qualità e varietà musicale enorme. Per il 2016, fateci un pensierino…

The_ruins_of_beverast - foto Acherontic - 2015

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