Report a cura di Nicola Merlino
Fotografie di Davide Serafini
Warrnambool. Tranquilli, non è una brutta parola, è bensì il nome di una piccola città costiera dello stato di Victoria, situata a tre ore di macchina da Melbourne al termine occidentale della Great Ocean Road. Trentamila anime o poco più, un campo da golf con diciotto buche, una pista ovale per stock car, oltre a tutta la tranquillità che solo le distese australiane sanno dare e che ne fanno il posto ideale per chi ha l’hobby del whale watching. E’ qui che, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, mamma O’Keeffe, invece di trattare l’iperattività dei figli con grandi dosi di Ritalin, intuisce che forse è meglio lasciare che i piccoli Joel e Ryan si sfoghino con chitarra e bacchette; ed è sempre qui che i due fratelli dopo aver studiato la lezione degli dei del Rock (e soprattutto di un’altra specifica band australiana), nel 2003, formano gli Airbourne. Quattordici anni più tardi, dopo quattro album, svariati tour trascorsi suonando insieme ai nomi più grandi del globo terracqueo e un numero incalcolabile di lattine di birra prosciugate sul loro percorso, i Nostri si abbattono sul Vecchio Continente per la seconda tranche di date europee in supporto a “Breaking Outta Hell”: in programma un’unica data italiana il 15 giugno all’Arena Alpe Adria di Lignano Sabbiadoro. Saltato per ragioni climatiche il concerto dei Dream Theater, spetta proprio agli Airbourne, con il supporto dei local Fake Idols, dare il kickoff all’estate heavy dell’estremo Nordest italico. La temperatura è rovente, la brezza marina poco può contro l’afa del Friuli Vietnam Giulia e l’atmosfera che si respira è quella che precede un concerto ad alto numero di ottani. Sarà così? Scopriamolo!
FAKE IDOLS
Complice il successo di critica del loro ultimo nato “Witness”, quello dei Fake Idols è un nome che ultimamente si sta facendo notare con convinzione crescente nel circuito underground italiano. Si è parlato molto del pedigree artistico guadagnato dai componenti della band nei loro progetti precedenti, così come dei nomi di prestigio che hanno collaborato alla realizzazione dei loro due album, ma la sensazione è che il concerto di stasera sia una sorta di prova del nove per il quintetto pordenonese: di fronte a una sfida che sembra cucitagli addosso, riusciranno a mantenere le premesse e a confermare la carica hard&heavy impressa in sala di registrazione? Presto detto, la risposta è un convintissimo sì. Puntuali sulla tabella di marcia, i Fake Idols non perdono tempo, lanciandosi in un assalto all’arma bianca che non avrà flessioni per tutto lo slot. Con una setlist saggiamente improntata più sulle ultime derive hard rock che sulle influenze a-la Avenged Sevenfold degli esordi, la band risulta galvanizzata dalle dimensioni generose del palco, che lascia libero sfogo alla grande presenza live dei cinque. Suoni nitidi e volumi adeguati permettono di apprezzare al meglio la performance vocale maiuscola del frontman Claudio Coassin, delle chitarre duellanti di Ivan Odorico e Cristian Tavano e il grande lavoro della sezione ritmica formata da Ivo Boscariol al basso ed Enrico Fabris alle pelli. La presa sul pubblico presente è palpabile, tanto da sfociare naturalmente in un moshpit sotto il palco durante il singolo “Mad Fall”. Trentacinque minuti per otto pezzi al vetriolo e un successo confermato dalla ressa al tavolo del merch. Che dire, qui, a parte il nome, di ‘fake’ non c’è nulla.
AIRBOURNE
Rapido cambio palco dove calano i teli che nascondevano sommariamente un vero muro di amplificatori formato da dodici full stack per il wattaggio complessivo di un treno ad alta velocità. Davvero non rimangono molti dubbi su quello che ci attende. Neanche il tempo di allacciare le cinture di sicurezza che nell’Arena risuonano le note epiche del tema di “Terminator 2” accogliendo i quattro aussies sugli accordi di “Ready to Rock”…ed è subito il Joel O’Keeffe Show. Definire il frontman un animale da palcoscenico è quasi riduttivo, forse potremmo inquadrarlo più come un diavolo della Tasmania in perenne stato di sovraeccitazione che imbraccia una Gibson Explorer: eccolo correre da una parte del palco per un salto con spaccata volante, poi via dal lato opposto per una posa enfatica con annessa smorfia posseduta, di nuovo al centro dello stage per caricare il pubblico con una gara di urla e, come di consueto, spaccarsi una lattina di birra sul cranio; questo ed altro senza mai un’incertezza alla chitarra, meritandosi l’onore della spotlight per tutto il concerto. Quasi defilati negli angoli meno visibili del palco gli altri membri della band, che portano comunque a segno in modo egregio la loro missione: suonare alla grande del maledetto, rude, arrogante rock n’ roll come dei collaudati manovali del quattro quarti, sempre di vitale supporto al tarantolato capomastro. Da questo punto di vista il recente cambio di formazione appare totalmente indolore, con il nuovo entrato Harri Harrison alla chitarra ritmica perfettamente integrato in uno schema compatto, con un sound iconico a base di riff monolitici che paga un sincero e costante tributo ai loro padri putativi Ac/Dc. La scaletta scorre spedita come una palla di cannone tra i pezzi tratti dalla loro ultima fatica in studio, tra i quali vale la pena segnalare la dedica a Lemmy con “It’s All For Rock n’ Roll”; ma ancora oggi sono i segmenti del loro dirompente esordio discografico a costituire la spina dorsale del concerto, con ben cinque canzoni, su un totale di dodici, provenienti da “Runnin’ Wild”. Sorge quindi un interrogativo: con una setlist praticamente sempre uguale a se stessa data dopo data, e con le novità negli anni misurate con il contagocce, viene da chiedersi se tanta apparente spontaneità non sia altro che una serie di colpi da teatro studiati a tavolino, uguali replica dopo replica. E’ qui che forse sta il più grande asso nella manica degli Airbourne, ovvero la capacità di rivestire con una patina di sincero trasporto uno show in buona parte scritto a priori, che scorre in modo fluido e inesorabile come un meccanismo ad orologeria, ma che non manca di coinvolgere a pieno per tutta la sua (breve) durata, grazie ad una showmanship a prova di bomba che nel corso degli anni li ha spinti tra i favoriti del pubblico dei festival europei. Inaspettatamente, proprio all’audience va forse l’unica nota stonata della serata. Complice la vicinanza della venue ai confini di stato si possono ascoltare almeno quattro idiomi diversi da parte di un pubblico variegato, ma in definitiva piuttosto contenuto rispetto alla capienza dell’anfiteatro lignanese, tristemente mezzo vuoto a discapito del colpo d’occhio, ma non del calore profuso dalle poche centinaia di sopraggiunti. Conclusa la prima parte dello show, ovviamente non prima di un’ultima scampagnata tra il pubblico del buon Joel in groppa a un fedele roadie e di un’altra birra sacrificata a colpi di scalpo, l’encore viene annunciato da una sirena antiaerea suonata sul palco, seguita da “Live It Up” e da una torrenziale versione dell’eponima “Runnin’ Wild”, dove la band dà sfogo alle ultime energie producendo una spinta sonora tale da innescare l’antifurto dell’Arena. Vittoria! Gli Airbourne si congedano quando il cronometro sfiora l’ottantesimo minuto promettendo di tornare presto a farci visita, a conclusione di uno spettacolo privo di reali sorprese ma ad altissimo tasso di adrenalina, dove per una volta si sono viste più corna levate al cielo che telefoni. E scusate se è poco.