A poco meno di un anno di distanza dall’ottimo concerto tenutosi al Live di Trezzo sull’Adda, l’immortale ed entusiasmante Alice Cooper ritorna in Italia con il suo “No More Mr. Nice Guy Tour”, testimonianza evidente che dopo oltre quarant’anni di attività, l’artista americano non ha ancora intenzione di gettare la spugna. Questa volta lo show si svolge all’aperto, più precisamente all’ippodromo di San Siro, cornice ideale che almeno sulla carta dovrebbe permettere allo show di acquisire maggior impatto visivo. A sorpresa, spetta ai poliedrici Baroness l’oneroso compito di caricare la folla, con il loro rovente sludge metal, che nel recentissimo doppio album “Yellow And Green” si è ammorbidito, assorbendo palesi influenze che richiamano sia l’hard rock che il progressive rock dei seventies. Riusciranno questi redneck a conquistare i favori di una platea in gran parte attempata? E riuscirà ancora una volta Alice Cooper a stupirci, nonostante conosciamo a memoria tutte le sue truculente illusioni?
BARONESS
Questi quattro ruspanti ragazzotti provenienti dallo stato sudista della Georgia salgono sul palco in jeans e maglietta: senza troppe cerimonie imbracciano gli strumenti e per una buona mezzoretta ci regalano uno show intenso, compatto e privo di sbavature. Nel giro di poche battute, il combo guidato dal barbuto John Dyer Baizley (artefice delle splendide copertine dei loro album) riesce a conquistare le simpatie di una buona fetta dei presenti, snocciolando i brani più dinamici della loro breve discografia. Graziato da una buona acustica, un brano come “A Horse Called Golgotha” – incastrata da un intricato e dinamico riffing che richiama le strutture dei più famosi Mastodon (guarda caso, provenienti dalla stessa area geografica), – riesce a far volare le quotazioni dei Nostri. Le trame più snelle e catchy di “March To The Sea” e “Take My Bones Away”, evidenziano la svolta melodica intrapresa con l’ultimo studio album. A fine concerto non ci stupiamo di notare che un piccolo gruppo di rocker si rechino al banchetto del merchandise per acquistare i loro album. Obiettivo raggiunto.
ALICE COOPER
Chi scrive ha deciso di non lasciarsi sfuggire l’opportunità di assistere ad un concerto della vecchia zia Alice per la terza volta in meno di due anni. Quali sono i motivi che fomentano ancora una volta il nostro entusiasmo, pur essendo consapevoli di partecipare ad uno show praticamente identico a quello offerto lo scorso anno? Idolatria nei confronti di una delle rock star più influenti della storia? O forse coviamo la recondita speranza di veder nuovamente il frontman in azione con il suo boa constrictor disteso sulle proprie spalle come ai vecchi tempi? No, qui c’è davvero molto, ma molto di più. C’è l’appagante consapevolezza di uscire soddisfatti alla fine di uno spettacolo di eccellente qualità, offerto da un professionista, il quale, dopo aver sconfitto definitivamente i propri demoni, che hanno rischiato di mandarlo anzi tempo all’altro mondo, ha scelto di concedersi un’altra chance, incidendo dischi di buona fattura, promossi da faticosi tour itineranti per tutto il mondo. Aggiungiamo anche la notevole preparazione tecnica e scenica dei musicisti che lo accompagnano ed il gioco è fatto. Quando cala il sipario non ci troviamo dinanzi ad un triste clown intrappolato nel mito del proprio personaggio che cerca di rinverdire (invano) la propria immagine ed il proprio portafogli svuotato da vizi ed eccessi di svariato tipo. A conti fatti, Vincent Furnier ha spento sessantatrè candeline, ritrovandosi in una forma psicofisica semplicemente strepitosa. Alice regge, o meglio, domina letteralmente il palco come lui solo sa fare per un’ora e mezza, senza patire una minima caduta di tono o di stile, e come un grande illusionista cattura nel giro di poche battute le fantasie di tutti i presenti, risvegliando molteplici ricordi legati all’ascolto dei suoi brani. Quattro grandi classici degli anni’70 come “I’m Eighteen”, “Under My Wheels”, “Billion Dollar Babies” e “No More Mr.Nice Guy” non hanno bisogno di alcun lifting o di essere riarrangiati: sono semplicemente autentici capolavori del rock che continuano a mietere vittime di generazione in generazione. E cosa dire delle hit forgiate una decade dopo, come “Poison”, “Hey Stoopid” e “Feed My Frankenstein”? Svecchiate dal sound artificiale degli anni’80, questi episodi assumono nuove smaglianti cromature, decisamente più attuali e genuine delle originali, interpretate peraltro da musicisti di caratura assoluta. Pensiamo ad esempio alla chitarrista Orianthi, che sfoggia un’attitudine ed un carisma che potrebbero rendere invidiosi molti chitarristi di sesso maschile. Forse per la prima volta abbiamo visto una bella donna come lei suonare come un diavolo partiture ritmiche e assoli eseguiti in maniera certosina, senza mettere in evidenza le proprie grazie, dando così una bella lezione di stile a molte sue colleghe. L’unica differenza che rimarchiamo dal concerto precedente è il rientro nella line up del chitarrista Ryan Roxie, che ha militato nella band dal 1996 al 2006, ed il reclutamento del batterista Jonathan Mover, che in passato ha collaborato con artisti del calibro di Aretha Franklin ed Elton John. “School’s Out” ed “Elected” – quest’ultima utilizzata come bis – ci conducono alla fine di questa esperienza ad alto tasso emozionale, mentre dal pubblico qualcuno acclama Alice Cooper come prossimo presidente del pianeta Terra. Non male come idea, vero?