PROTEST THE HERO
I gruppi canadesi sono noti per lo sfoggio, senza troppi fronzoli, di una tecnica invidiabile. I Protest The Hero sono una delle tante conferme: le strutture progressive, le ritmiche sincopate, i lunghi intermezzi musicali sono resi purtroppo confusi da un suono leggermente impastato. Tuttavia questo non sembra scoraggiare il pubblico che risponde alla grande acclamando la band alla fine di ogni brano. L’ottimo cantante Rody Walker alterna un bello scream a picchi vocali di matrice heavy, con una facilità sorprendente. Il tutto condito da una presenza scenica notevole. I suoi colleghi di avventura invece sul palco sono un po’ statici, ma giustificati in ciò dalla complessità e difficoltà oggettiva delle canzoni, eseguite peraltro con sicurezza. Si percepisce tanto potenziale in questi cinque ragazzi e, oltre alla tecnica sopraffina, si nota una versatilità degna di grandi nomi della scena progressive metalcore (vedi Between The Buried And Me). Promettenti e soprattutto da rivedere con suoni migliori.
ARCHITECTS
Vedendo salire questi ragazzini sul palco viene da domandarsi a che tipo di esibizione si assisterà. La frangia del frontman Sam sulle prime lascia un po’ perplessi a microfoni ancora spenti, ma è con estremo piacere che invece ci ricrediamo nella maniera più totale, e gli inglesi Architects ci pregiano di un’esibizione veramente convincente. Le strutture dei brani a tratti progressive, con qualche inserto simil Underoath, riescono ad essere efficaci e trascinanti anche in sede live. Manco a dirlo, il pubblico risponde con caloroso entusiasmo all’incitamento di Sam, e quest’ultimo poi non si tira di certo indietro, e sulle note di “You’ll Find Safety” si butta sul pubblico che lo trasporta a destra e a manca, il tutto senza smettere di cantare e incitare i fan. Gli altri ragazzi della band sono parte integrante dello show e sciorinano riff a ripetizione balzellando da una parte all’altra divertendosi un mondo, sorridendo alla grande accogliendo tutto il calore riservato loro. Anche questi inglesi quindi vengono promossi in sede live, poi col tempo magari impareranno ad affilare le lame, lavorando su personalità e linee vocali da perfezionare. I presupposti perché in futuro si senta ancora parlare spesso di loro ci sono tutti.
DESPISED ICON
Mai introduzione fu più azzeccata: sulle note della colonna sonora del film “300” i Despised Icon mettono a ferro e fuoco il Vidia. Quasi tutta la pista viene travolta da un moshpit selvaggio, violentissimo e, aggiungeremmo, al limite dell’incosciente. Braccia che mulinellano, calci volanti, spinte e gomitate, sembra davvero di stare nel bel mezzo alla bolgia della battaglia delle Termopili. I canadesi ovviamente si godono tutto l’entusiasmo che il pubblico riserva loro e, ripercorrendo un po’ tutto il repertorio, sudano una performance di altissimo livello. Preferiscono proporre brani con influenze più hardcore piuttosto che canzoni dallo spirito brutale, si può ben intuire quindi il putiferio scatenato da un pezzo come “Furtive Monologue”, o dalla title track dello splendido ultimo album “The Ills Of Modern Man”. I due vocalist, Steve ma soprattutto Alex, sono perfettamente a loro agio alternandosi le parti di scream e growl, coinvolgendo anche gli altri della band che, dalla loro, oltre a non sbagliare praticamente una sola nota hanno una potenza sonora che fino a quel momento della serata non avevamo ancora sentito. Il pubblico chiede a gran voce di essere guidato in un wall of death, e naturalmente i Despised Icon non si fanno pregare, separano le acque e fanno partire un putiferio sonoro con “Retina” che eseguiranno con precisione chirurgica. Insomma, un peccato avere assistito soltanto a una manciata di canzoni, bellissima l’empatia col pubblico, ottima presenza scenica, strumentalmente professionali: i Despised Icon sono stati forse i migliori della serata… e intanto ci si scalda per gli Unearth.
UNEARTH
Onestamente non abbiamo capito per quale motivo la band di Boston non abbia suonato da headliner a questa manifestazione. I cinque stanno dimostrando, album dopo album, di avere tutte le carte in regola per prendersi un posto di spicco nella ricca scena metalcore e non solo. Per gli Unearth comunque questo sembra non essere un grosso problema e, ripercorrendo principalmente pezzi vecchi, soprattutto tratti da “Oncoming Storm”, ci regalano la prevista egregia prestazione. La loro presenza sul palco è veramente debordante, in particolar modo Ken Suzi è il classico animale da palco, ricorda un po’ l’amico e produttore Adam Dutkiewicz dei Killswitch Engage. Ipercinetico e istrionico, sempre in continuo dialogo e incitamento con le prime file, si mette in piedi sulle impalcature, alza microfoni per incitare il pubblico, si fa ruotare attorno al collo la chitarra… il tutto senza perdere mai il tempo né commettere errori. Funambolico! Il frontman Travor è in headbanging costante e incita in continuazione la folla, tutti fanno il loro show e si divertono un mondo a scorrazzare da una parte all’altra del piccolo palco. La scaletta, come dicevamo, è basata principalmente su pezzi di “The Oncoming Storm” e “III In The Eyes Of Fire”, lasciando spazio anche per un paio di brani dell’ottimo “The March”, con i quali i nostri sembrano avere già una certa confidenza. Non ci resta che aspettarli per un ritorno da band principale a presentarci l’ultima fatica, intanto confermiamo l’indiscusso valore di questa band, anche e soprattutto in sede live.
PARKWAY DRIVE
Ultima band a calcare il palco del Vidia sono gli australiani Parkway Drive, scelta che, a parere di chi scrive, risulta quanto meno discutibile, visto e considerato il livello delle band precedenti. C’è da dire però che i cinque vantano schiere di fan che letteralmente impazziscono per ogni loro singola movenza, nota e parola. La loro proposta musicale è derivativa, un deathcore con forti ispirazioni nei confronti di gruppi di matrice svedese, nulla di particolarmente innovativo, quindi, ma evidentemente questo è quello che piace al loro pubblico che li acclama senza sosta. La loro performance di questa sera è molto valida, i ragazzi hanno un bellissimo rapporto con i fan. Più che a un semplice concerto, si ha l’impressione di assistere a una suonata tra amici. Gli australiani incitano tutti a salire sul palco per buttarsi in stage, sono in costante movimento e dal punto di vista di tenuta del palco si dimostrano già maturi ed esperti. Si susseguono brani che fanno breccia sull’audience scatenando cori vorticosi circle pit, saltelli e deliri vari, mentre verso la fine della performance alcuni componenti delle band precedenti (Architects) partecipano alla festa buttandosi in tuffo sul pubblico che calorosamente li accoglie, e senza mai smettere di cantare li porta in trionfo in giro per il locale. Quando si accendono le luci si scorgono volti provati, magliette strappate e fradice di sudore, sguardi stanchi e capelli bagnati. Scenari apocalittici per un Never Say Die Tour pienamente riuscito!