Report a cura di Giovanni Mascherpa
La presa d’atto di avere raggiunto il limite, che un proseguimento sarebbe stato eccessivo, forzato, inutile e dannoso. La decisione di fermarsi, sul più bello, all’apice della parabola creativa. Lasciando dietro di sé il ricordo di un’esperienza meravigliosa e sfuggente. Gli Altar Of Plagues avevano lasciato di stucco nel 2013 annunciando lo scioglimento, solo pochi mesi dopo la realizzazione del terzo disco “Teethed Glory & Injury”. Uno spaccato musicale dei nostri tempi ancora oggi difficile da comprendere appieno, con dei lati nascosti che chissà mai se si riusciranno a sondare in tutto il magnifico significato ivi contenuto. Poi, sulla spinta di uno smarrimento collettivo tra tutti coloro che erano stati rapiti e non più rilasciati dalle concettualizzazioni del trio irlandese, la concessione a donarsi ancora una volta, per un tour d’addio che ponesse un epilogo degno di una storia breve ma fiammante, una stella che ha brillato forte in tempi ristretti, e ora sta cadendo lasciando una scia che in cielo non ne vuol sapere di morire. La tappa di Brescia, la seconda italiana a seguito di quella bolognese del Freakout, chiude il tour iniziato a Parigi il 20 marzo con il supporto dei connazionali Malthusian: seguiranno ancora una manciata di concerti, a soddisfare solo in parte la grande richiesta pervenuta da tutta Europa di poter accogliere questi tre giovani e schivi musicisti, ma il significato dell’evento non cambia. Questa è proprio la fine e va vissuta con serenità, augurando il meglio a individui che hanno saputo regalare arte tanto preziosa a questo mondo che di una bellezza così indescrivibile, sorprendente e appagante ha sempre un famelico bisogno.
MALTHUSIAN
La serata inizia con una mezz’ora di ritardo su quanto era stato indicato, e così dobbiamo aspettare le dieci per vedere soddisfatta la nostra fame di musica. Saremo cinquanta-sessanta, a occhio e croce, e non era francamente lecito attendersi numeri molto diversi. Ambiente tranquillo, raccoglimento e concentrazione tra i presenti, l’atteggiamento è quasi quello tenuto durante una funzione religiosa. I Malthusian non fanno nulla per rompere l’incantesimo, presentandosi on-stage dando le spalle al pubblico. Una coltre di fumo aleggia sul palco, mentre luci rosse e blu risaltano sui musicisti. I suoni sono discreti, non delineati al meglio come accaduto per i Bolzer e Ascension, ma almeno per la band di apertura non ci possiamo lamentare. Ci sono ottimi motivi per affezionarsi a questo quartetto, formato da musicisti esperti (il drummer è lo stesso degli Altar Of Plagues) e assecondante il trend del blackened death metal che tante cancrene e pestilenze sta causando nei festival europei. Siamo sulle coordinate di degenerati come Vassafor, Ævangelist, Mitochondrion, e come per i nomi citati veniamo subissati di chitarre limacciose, impregnate come spugne di tutta la sporcizia che si possa raccogliere tra le abiezioni di questo mondo. Aggressioni ignoranti, lapidarie decontestualizzazioni doom, malevolenza black metal si nutrono a vicenda, secondo schemi noti fino a un certo punto, e per il resto quantomeno enigmatici e non proprio riconoscibili. Il merito di questi inghippi, travianti le composizioni e causanti un andamento sconnesso e irregolare, sono i pattern allestiti dietro i tamburi da Johnny King; il suo tocco coi Malthusian non è poi così diverso da quello denotato con i più noti Altar Of Plagues, e porta a spezzettare in tronconi sghembi le lunghe composizioni dateci in pasto stasera. Esse rifulgono di arrangiamenti non per forza estrosi, ma abbastanza sfuggenti il normale canovaccio black/death, e si fregiano inoltre di un triplo cantato nient’affatto manieristico. Urla inconsulte e growl hanno il loro bel da fare a tenere il passo dei disgraziati fregi strumentali, e quasi soccombono rispetto al cantato effettato, salmodiante come un monaco tibetano in preghiera, del bassista Pauric Ghallagher. Assiso sotto il microfono, gorgheggia su toni monocordi ma di grande effetto, completando un quadro d’insieme indubbiamente positivo. Ovviamente, non si può chiedere nulla alla band dal punto di vista scenico: il pubblico è come se non esistesse e non scorgiamo neanche sguardi di intesa o altri segnali che i musicisti si accorgano della presenza l’uno dell’altro. Mezz’oretta scarsa, e gli autori dell’ep “Below The Hengiform”, in uscita in questi giorni per Invictus Productions, lasciano il palco del Colony. Da tenere d’occhio.
ALTAR OF PLAGUES
Il copione è noto. Quasi tutti i presenti (il sottoscritto tra i pochi esclusi, per vezzo proprio) hanno già analizzato la scaletta delle date precedenti, sanno cosa aspettarsi. La discografia del trio è contenuta nelle pubblicazioni, intensissima e densa nei contenuti; tre dischi, tre ep, un demo e uno split con i Year Of Not Light che hanno segnato indelebilmente il modo di rapportarsi alla materia black metal, ne hanno svelato porte segrete, in diretta comunicazione con ambienti crepuscolari e fascinosi. Poi, all’ebbrezza della scoperta, hanno aggiunto una meticolosa dissezione e celebrazione, all’interno di un percorso di crescita e autoanalisi vertiginoso, fino all’ineffabile conclusione di “Teethed Glory And Injury”. Se le tappe di questo “ultimo desiderio del condannato” – il condannato sarebbe il fan medio della band, consapevole del valore inestimabile dell’occasione di stasera – sono note, non possiamo sapere quale sarà la risultanza degli sforzi degli irlandesi e il modo di vivere l’evento. Voi come ve l’immaginereste l’epilogo di un gruppo tanto schivo nel rapporto con pubblico e critica, che da sempre ha rifuggito il protagonismo dei singoli per mettere davanti a sé soltanto le fattezze della propria musica? Semplice, un concerto come gli altri, avaro di parole e dialoghi, vissuto nella penombra, alla stregua di chi ha già passato il momento della decisione, crediamo ardua, di deporre le armi, e suona con serenità e senza rimorsi una musica che poi andrà in soffitta, nel baule dei ricordi. Per non scivolare nell’aulico e cercare di fornire una descrizione dell’esibizione il più oggettiva possibile, vi diciamo chiaramente che non è stato il momento perfetto e magico che ci saremmo aspettati, anche se l’esibizione andrà gli atti con un giudizio lusinghiero: in primis, l’audio ha fatto le bizze, a causa della traccia di basso venuta a mancare a circa tre quarti della seconda canzone, e poi riapparsa sporadicamente nel resto del concerto. Una mancanza che ha assottigliato il carico di angosce, ha spogliato di parte dell’impatto le singole composizioni, ma non è riuscito ad intaccarle, a ridurle nella formidabile essenza. In secondo luogo, è stato tagliato l’ultimo tassello della scaletta, “All Life Converges To Some Centres”, una privazione non da poco, trattandosi di un affresco multistrato di quasi un quarto d’ora, tra i più attesi. Ma veniamo al dunque, lasciamo per strada considerazioni asettiche, e incamminiamoci con spirito libero, mente aperta e suggestionabile, in quest’ultimo viaggio nella decadenza post-industriale dei nostri giorni, nel grigiore metafisico di un lungo tramonto in una città in rovina, visibile a perdita d’occhio. I colpi secchi, legnosi, della batteria dettano i tempi, le chitarre screpolate e in incessante trasformazione veleggiano spiritate nella fredda desolazione di edifici abbandonati, dove il gelo invade l’anima e poi la trasfigura per introdurla in un nuovo stato trascendente. Dal vivo, le fluttuazioni noise ed elettroniche si smussano in un approccio industrialoide più essenziale, ma non meno esaltante; la voce roca di James Kelly giunge lontana, un’eco di passate presenze in luoghi ora privi di vita. I brani di “Teethed Glory And Injury” (l’introduttiva “Mills”, “God Alone”, “A Remedy And A Fever”, “Scar Scald Of Water”) aumentano di scorrevolezza, depurati da effetti e rumori bianchi, e si stagliano crudi e spavaldi, installazioni di opale e basalto riflettenti soltanto toni di luce amorfa, avvizzita. Diventano però quasi riduttivi, se confrontati a quei monumenti, quegli arazzi smisurati, inenarrabili nelle fattezze e nelle pulsioni suscitate, di “Neptune Is Dead” e “Feather And Bone”, dal secondo album “Mammal”. Illusoria redenzione, calma apparente, frenesia ammorbante, carpiature ritmiche e frenetiche rasoiate chitarristiche, si mescolano, si adombrano, si infrangono e scompaiono l’una nell’altra, alternando la velenosa furia del black metal, le visioni deliranti dell’avanguardismo più coraggioso, progressioni laceranti e stagnanti sfumature da soundtrack. Ogni stacco un brivido, ogni cambio di rotta un tuffo al cuore, ogni linea vocale una lacerazione netta ed evidente su orecchie e costato; ripetiamo, il suono in uscita dalle casse non è grosso e pastoso come avremmo desiderato, ma ci passiamo sopra. Quella degli Altar Of Plagues è musica che oltrepassa confini, si tinge di gradazioni di colore irripetibili, sfodera un armamentario di soluzioni pressoché infinito senza perderne il controllo. Solo cinquanta minuti e spiccioli per il nostro piacere, il commiato è frugale e disidratato di emozioni. C’è un po’ di delusione per l’anticipata cesura, ma viene mitigata da quanto di buono abbiamo apprezzato. La domanda aleggia nell’aria: è davvero la fine? La risposta è ineluttabile: sì.
Setlist:
Mills
God Alone
Neptune Is Dead
A Remedy And A Fever
Scald Scar Of Water
Feather And Bone