Introduzione a cura di Elio Ferrara
Report a cura di Roberto Guerra ed Elio Ferrara
Fotografie di Matteo Musazzi
Unica data italiana all’Alcatraz di Milano per una triade svedese di tutto rispetto, composta da Amon Amarth, Arch Enemy e Hypocrisy. Basterebbe notare come questi ultimi abbiano suonato come gruppo di apertura per lasciare intendere il livello del concerto in programma. La band di Peter Tagtgren si prepara ad un deciso rilancio, presentandosi sul palco con la solita formazione live a quattro, dimostrandosi peraltro davvero impaziente di suonare, al punto da iniziare persino con qualche minuto di anticipo rispetto all’orario previsto, ovvero le 19.00. A seguire gli Arch Enemy, che tornano a Milano dopo la performance al nostro Metalitalia.com Festival di quest’anno, ma che in effetti, dando un’occhiata alle tante mani alzate su specifica domanda di Alissa White-Glutz, possono contare su parecchie persone che sono qui a vederli per la prima volta, magari attirati ulteriormente da un bill così prestigioso. Infine gli Amon Amarth, un gruppo che risulta palesemente in continua e grandissima ascesa, lanciatissimo in questo suo Berserker World Tour. In apertura il combo scandinavo ha scelto come intro “Run To The Hills” degli Iron Maiden: ebbene, come riflessione post-concerto, proprio in seguito a questo piccolo omaggio, ci è venuto da pensare che, in effetti, al giorno d’oggi, se c’è una band in grado di competere con la Vergine di Ferro per quanto riguarda lo spettacolo di luci e di effetti scenografici, questa è proprio gli Amon Amarth; infatti, al di là dell’aspetto prettamente musicale, Hegg e compagni hanno per l’ennesima volta dimostrato di saper curare anche tutto quello che riguarda l’aspetto visivo in maniera assolutamente coerente con le loro tematiche vichinghe. Complessivamente dunque un grande show, che si è protratto (compresi i cambi palco) per quasi quattro ore!
HYPOCRISY
Ha un che di paradossale il fatto che la band più iconica della serata sia anche quella con meno tempo a disposizione per esibirsi, nonché con l’arduo compito di riscaldare gli animi del pubblico presente, prima dei due atti successivi di questa serata tutta made in Sweden. Nonostante ciò, riteniamo sia piuttosto arduo che un pazzoide come Peter Tagtgren scelga di relegare il proprio ruolo a quello di una sorta di aperitivo, optando piuttosto per un approccio in linea con gli standard degli Hypocrisy, in grado letteralmente di far tremare le pareti alla sola pressione di una corda di chitarra. Nonostante la breve setlist si componga principalmente di brani oscuri e cadenzati come la iniziale “Fractured Millennium” o la ben nota “Eraser”, il cui ritornello urlato riecheggia tra i confini dell’Alcatraz come un richiamo di pura follia, non mancano anche le smitragliate terremotanti quali “Adjusting The Sun” e “War-Path”, sulle quali iniziano a formarsi i primi accenni di moshpit che giocheranno un ruolo non indifferente nel corso del concerto di tutte e tre le formazioni. L’espressione stupefatta di alcuni ascoltatori più giovani, evidentemente ignari dell’esistenza di questa band così rappresentativa per quello che è ancora oggi il melodic death metal, la dice lunga sulla suggestività e l’efficacia di uno show come quello messo in piedi dagli Hypocrisy, che in poco tempo riescono a gettare un alone nero e malvagio su tutta la location, creando una coltre all’interno della quale si esibiranno le due realtà successive, sicuramente legate al medesimo filone musicale, ma anche molto differenti nel proprio modo di interpretarlo e/o confezionarlo. Dopotutto, l’orecchiabilità è un elemento importante quando si parla di un genere comunque melodico, ma il genio sta anche nella capacità di dare un tono così folle, eppure così tagliente, col rischio di non riuscire ad incontrare il favore di ogni possibile ascoltatore più o meno occasionale. Personalmente a noi gli Hypocrisy piacciono tantissimo e, dopo i rintocchi finali di “Roswell 47”, non possiamo che chiamare a gran voce un’ultima canzone; magari una saettante “Valley Of The Damned”, che purtroppo non arriverà. A questo punto il nostro più grande desiderio non può che risiedere nella possibilità di avere presto sul mercato un degno seguito di “End Of Disclosure” con relativo tour da headliner in giro per il mondo; potrebbe essere la volta buona che gli Hypocrisy saranno nuovamente protagonisti indiscussi di una serata dedicata principalmente a loro.
(Roberto Guerra)
Setlist:
Fractured Millennium
Adjusting The Sun
Fire In The Sky
Eraser
War-Path
The Final Chapter
The Gathering (intro)
Roswell 47
ARCH ENEMY
Gli Arch Enemy cominciano ad essere quasi delle presenze abituali a Milano, se si considera che questa è la terza volta che si esibiscono nella città meneghina dal 2018: prima insieme ai Wintersun e poi lo scorso giugno quali headliner della prima giornata del nostro Metalitalia.com Festival; va comunque considerato che il loro ultimo studio album è “Will To Power” del 2017, al quale è seguito (e sta seguendo) un lungo tour; ovviamente, per la band di Michael Amott sarebbe stato un peccato sprecare l’occasione di mancare a questa tournée tutta svedese, oltretutto potendo ‘disporre a piacimento’ del folto plotone vichingo dei fan invasati degli Amon Amarth. In realtà, rispetto proprio all’esibizione tenuta per il nostro evento il tempo a loro disposizione é stato inferiore, per cui, se da una parte non sono state riservate grosse sorprese, dall’altra la setlist era per forza di cose ridotta se paragonata all’apparizione succitata. Pur con le opportune differenze, la band scandinava si mantiene dunque sulla stessa scia e non propone grosse modifiche al liveset: d’altronde parliamo di uno show particolarmente curato nei dettagli, che evidentemente Amott e compagni preferiscono non stravolgere. Persino la cantante Alissa White-Glutz veste sempre allo stesso modo, con il suo abito munito di lembi somiglianti ad ali di pipistrello attaccati alle maniche. Impeccabile è pure la loro performance: la sezione ritmica è precisa e devastante, ma anche gli assoli sono splendidi e travolgenti, con un Jeff Loomis che è sempre meno un ex-Nevermore e sempre più calato nel suo ruolo all’interno del gruppo. Per quanto riguarda la singer, sembra magari partire leggermente in sordina, ma le sue performance crescono man mano che la voce si riscalda, diventando sempre più incisiva. Inoltre, da autentica frontwoman di razza, salta e corre per tutto il tempo come un folletto, approfittando degli assoli per giocherellare lanciando il microfono o roteando l’asta, oppure, ancora, salendo sul piano rialzato dove è allocata la batteria di Daniel Erlandsson, in modo da poter essere anche meglio visibile da parte del pubblico. La apprezziamo inoltre come istrionica guida nell’ondeggiare di braccia che accompagna un pezzo più tecnico come “My Apocalypse”, o ancora quando sventola una bandiera nera (coerente al titolo del brano) in “Under Black Flags We March”. In generale, si è trattato sicuramente di un concerto divertente, coinvolgente ed in linea con la professionalità e la bravura a cui la band è avvezza. La setlist, come accennato, è stata un po’ accorciata rispetto alle recenti apparizioni milanesi ma, almeno rispetto ad altre date di questo tour con Amon Amarth e Hypocrisy, se non andiamo errati, una piccola novità è stata rappresentata dal fatto che tra i bis è stata suonata “Dead Bury Their Dead” prima della conclusiva “Nemesis”. Finita l’esibizione, tutta la line-up si ripresenta sul palco, sulle note dell’outro “Enter The Machine”, prendendosi ancora alcuni minuti per raccogliere gli applausi, ringraziare il pubblico e scattare i selfie di rito.
(Elio Ferrara)
Setlist:
Set Flame To Night (Intro)
The World Is Yours
War Eternal
My Apocalypse
Ravenous
Under Black Flags We March
The Eagle Flies Alone
First Day In Hell
Saturnine (base registrata)
As The Pages Burn
No Gods, No Masters
Dead Bury Their Dead
Nemesis
Enter The Machine (Outro)
AMON AMARTH
Con la sola vista di un enorme telo nero, rigorosamente marchiato con le due rune simbolo degli Amon Amarth e volto a celare ciò che sta avvenendo sul palco in fase di allestimento, ci prepariamo a essere letteralmente travolti dalla carica furente di tutti gli aspiranti vichinghi presenti all’interno di un Alcatraz pieno e colmo di adrenalina ancora da sfogare, dopo le due ottime esibizioni precedenti. Finalmente, dopo la sopracitata intro maideniana, i corvi prendono il volo sulle note di “Raven’s Flight” e il battagliero spettacolo di una delle line-up svedesi più popolari del momento può avere inizio. Un trittico di chiara fama composto da “Runes To My Memory”, “Death In Fire” e “Deceiver Of The Gods” si abbatte come le onde di un mare in tempesta sulla chiglia di una drakkar, e il pubblico risponde nel più violento e coinvolto dei modi, prima di fare un salto in avanti nel tempo con le varie “First Kill”, “Fafner’s Gold”, “Crack The Sky” e “The Way Of Vikings”. L’imponente Johan Hegg ruggisce sempre come un vero condottiero vichingo, cogliendo anche l’occasione tra un brano e l’altro per scherzare con il pubblico a colpi di battute, bestemmie e, ovviamente, martelli a due mani da agitare a ritmo di musica; il tutto mentre alle sue spalle spicca l’imponente elmo decorato con due grandi corna – noto falso storico, dal momento che i vichinghi non hanno mai indossato corna sugli elmi – in cima al quale il drummer Jocke Wallgren colpisce imperterrito le sue percussioni da guerra. Volendo trovare un difetto allo show degli Amon Amarth sarebbe senz’ombra di dubbio la prevedibilità, in quanto l’andamento, i siparietti e la scaletta sono più o meno gli stessi che ci siamo visti propinare nelle varie occasioni precedenti, in concomitanza di qualche festival più o meno importante. Eccezion fatta per la graditissima “Prediction Of Warfare”, anche l’ultimo terzo di spettacolo non sorprende per esecuzione, sempre su ottimi livelli di professionalità e impatto, o per repertorio proposto: dopo la recentissima “Shield Wall” si passa alla immancabile “Guardians Of Asgaard” e alla festaiola “Raise Your Horns”, che precede anche il telefonatissimo encore a base di “Pursuit Of Vikings” e “Twilight Of The Thunder God”, con tanto di versione gonfiabile del leggendario serpente Jormungandr a spiccare nella parte posteriore del palco.
Dopo soli quattordici brani da parte degli headliner, l’intero concerto può concludersi, permettendo a tutti i presenti di recuperare le forze prima di avviarsi verso l’uscita, con una forte sensazione di entusiasmo ma anche con una punta di amarognolo sulla lingua, nel nostro caso, poiché dopo parecchie occasioni non ci dispiacerebbe se le band principali decidessero di stupire i propri estimatori confezionando dei concerti un po’ meno prevedibili e più ricchi di sorprese e momenti di esaltazione inattesa, anziché rifugiarsi come sempre nel proprio guscio di popolarità per quelle che sono ormai le gemme più blasonate del proprio repertorio. In ogni caso, è anche vero che squadra che vince non si cambia, quindi prendiamo le cose come vengono e torniamo a casa con un sorriso e qualche livido sul corpo.
(Roberto Guerra)
Setlist:
Run To The Hills (intro)
Raven’s Flight
Runes to My Memory
Death In Fire
Deceiver of the Gods
First Kill
Fafner’s Gold
Crack the Sky
The Way of Vikings
Prediction of Warfare
Shield Wall
Guardians Of Asgaard
Raise Your Horns
The Pursuit of Vikings
Twilight Of The Thunder God