Siamo tornati a Lignano Sabbiadoro, nel giro di sole due settimane, per il secondo maxievento metal di quest’estate: niente male per una location rimasta per anni fuori dai radar della musica estrema, e che in questa occasione ospita la tappa italiana del tour estivo dei colossi del death melodico a tinte vichinghe Amon Amarth, accompagnati come da programma da Insomnium e Kanonenfieber, band di supporto in questo “Heidrun Over Europe 2024”.
Un bill essenziale e piuttosto ghiotto per un’ampia fetta di ascoltatori di metal estremo (ma non troppo), che infatti rispondono in massa alla chiamata alle armi: com’era prevedibile la serata registra un numero di partecipanti molto vicino al sold-out, grazie anche alla nutrita partecipazione di fan tedeschi e austriaci (presenze numerose e costanti sulle spiagge dell’Alto Adriatico) e sloveni, complice la – strana – mancanza di una data del tour nel loro Paese.
Se il riscontro da parte del pubblico è estremamente positivo, altrettanto possiamo dire dell’organizzazione, che affronta preparata i numeri più elevati rispetto a quelli comunque molto buoni registrati con il recentissimo “Black Over Festival” raddoppiando l’offerta di cibi e bevande, mentre non si registrano problemi di code agli ingressi, che fluiscono regolarmente a partire dall’orario indicato.
È un pomeriggio uggioso quello che ci vede passeggiare per le vie dello shopping prima dello show, con cielo nuvoloso e foglie caduche che tappezzano i marciapiedi: è piovuto tutta la mattina e c’è nell’aria un filo di quella malinconia tipica di fine estate, mentre intorno a noi magliette nere, capelli lunghi e anfibi si mescolano ai prendisole colorati e le infradito dei vacanzieri.
A tempo debito torniamo all’ovile per gustare una serata all’insegna del death (e black) melodico, di cui vi raccontiamo i particolari.
KANONENFIEBER
Attorno alle 19:00 varchiamo i cancelli e quando facciamo il nostro ingresso nell’Arena c’è già la coda allo stand del merchandise, e sono già moltissime le persone che si dividono tra platea e spalti.
C’è molta curiosità rispetto alla band bavarese del mastermind Noise, che si è guadagnata un ampio apprezzamento grazie al debutto autoprodotto “Menschenmühle”, capace di far approdare rapidamente il progetto alla major Century Media, attraverso la quale i tedeschi rilasceranno presto il secondo full-length. Il concerto si apre proprio con due anticipazioni tratte dal disco: “Grossmachtfantasie”, totalmente inedita, e l’ottima “Menschenmühle”, uno dei singoli resi disponibili negli ultimi mesi.
Per chi non avesse familiarità con la proposta della one-man band tedesca, il concept si basa interamente sulla Prima Guerra Mondiale, rispetto alla quale Noise – polistrumentista la cui identità resta sconosciuta – si pone come cantore, facendosi portavoce delle esperienze devastanti a cui sono andati incontro milioni di soldati poco più che adolescenti.
La Grande Guerra ha non solo decimato un’intera generazione di giovani uomini, ma ha lasciato sui sopravvissuti i segni indelebili di un’esperienza mostruosa, sia nel corpo che nella psiche e nell’anima; sono molte le testimonianze – fotografiche e scritte – che documentano il loro vissuto, ed è proprio partendo dai reperti storici che i Kanonenfieber traggono ispirazione per i loro pezzi.
Inutile dire che il mix di black e death metal melodico si sposa molto bene con le tematiche trattate, con ritmiche marziali, rallentamenti corali e fraseggi epici a fare da manifesto sonoro alla violenza estrema della guerra, che investe impietosa gli ideali dei tanti partiti volontari, senza per questo impedire atti di grandissimo eroismo. Particolare e d’impatto il cantato in lingua madre, che alterna harsh vocals a linee vocali più pulite, e in ogni caso sempre abbastanza intelligibili.
Il gruppo sale sul palco puntualissimo alle 19:15 e come accennato guarda all’immediato futuro pescando dal prossimo “Die Urkatastrophe”, per rivolgere poi lo sguardo al proprio passato: lo spazio riservato ai tedeschi è piuttosto esiguo, e il set pesca più dai due EP che dal debutto, toccando così un po’ tutta la (breve) carriera discografica del combo.
Ciò che appare da subito evidente è la sicurezza con la quale la band – e in particolare il leader e cantante Noise – tiene il palco: il piglio è istrionico, con movenze molto enfatizzate, mentre i costumi di scena incarnano perfettamente il concept del progetto; i musicisti si presentano sul palco in divisa militare (ad eccezione della camicia, che è bianca) e i loro volti sono resi irriconoscibili da un passamontagna nero di nylon. Se in un’altra occasione potremmo sbadigliare annoiati di fronte all’ennesima formazione che ricorre a questo trucchetto delle identità tenute celate, in questo caso particolare la spersonalizzazione risulta funzionale alla volontà di essere una sorta di monumento al Milite Ignoto in forma di musica.
Non per nulla le uniformi indossate dal gruppo – che cambieranno più volte – sono prive di bandiere, mostrine e segni di riconoscimento evidenti, a voler incarnare le vite e le sofferenze di tutti i soldati, a prescindere dalla casacca indossata.
Fa in parte eccezione la conclusiva “The Yankee Division March”, introdotta da un frammento originale di canti militari, che i ragazzi eseguono portando la tipica camicia dei marinai statunitensi, bianca a mezze maniche con ampio scollo quadrato e doppia riga blu.
L’aspetto scenico è fondamentale – benché non esasperato – per lo show dei bavaresi, che scelgono di trasformare il palco in una trincea, con sacchi di sabbia e filo spinato a delimitarne i bordi: il risultato complessivo è di sicuro impatto di per sé, se poi consideriamo di essere a poche decine di chilometri dal Carso, allora la cosa assume anche un’aura solenne.
Nel complesso i Kanonenfieber utilizzano al meglio i trenta minuti a loro disposizione, dando vita ad un’esibizione energica, granitica e coinvolgente, alla quale il pubblico risponde con entusiasmo: tra i ragazzi in platea parte più volte il mosh, qualcuno fa stage diving e si crea anche un wall of death, sotto le istruzioni di Noise, che non ha certo bisogno di farsi pregare per ottenere la complicità degli astanti.
Un bel concerto, che ci lascia la voglia di ascoltare con più attenzione il materiale inciso sotto questo moniker e fa ben sperare per il futuro. Peccato solo che mezz’ora sia davvero poca e il tempo sia passato in un lampo.
Kanonenfieber setlist:
Grossmachtfantasie
Menschenmühle
Dicke Bertha
Ubootsperre (Intro)
Kampf Und Sturm
Die Havarie
Over There (Intro)
The Yankee Division March
INSOMNIUM
Un cambio palco veloce ed è il turno dei doom-deathster finlandesi, la cui proposta si colloca nel solco della tradizione nordica iniziata nei tardi anni ‘90 da Amorphis, Omnium Gatherum e Dark Tranquillity. La band, che – quasi incredibilmente – vanta ancora per tre quarti la stessa line-up dall’esordio datato 2002, è autrice di un death metal melodico e malinconico, con frequenti incursioni in territori doom.
I ragazzi capitanati da Niilo Sevänen hanno alle spalle una lunga carriera discografica di livello sempre buono quando non addirittura ottimo e, pur non essendo mai riusciti a sfondare il tetto dei gruppi di ‘fascia media’ si sono costruiti negli anni un buon seguito di pubblico.
All’Alpe Adria intanto si è fatto l’imbrunire, e il cielo nuvoloso crea una cornice perfetta per le atmosfere sognanti e brumose dei finlandesi, che hanno nel DNA – come tutti i loro conterranei – un gusto particolare per le melodie, tanto semplici quanto evocative.
L’Arena ormai è gremita e il pubblico segue con attenzione l’esibizione, anche se – va detto – lo stile del quartetto risulta forse un filo troppo melodico a fronte dell’esibizione tutta nervi e adrenalina dei Kanonenfieber, e un po’ dell’energia ancora presente nell’aria finisce per disperdersi nei rallentamenti atmosferici e gli assoli melodici che stemperano la ruvidità death metal delle composizioni. Per la verità è proprio in questi momenti che abbiamo maggiormente la possibilità di apprezzare le doti dei due chitarristi, Markus Vanhala e Ville Friman; quest’ultimo inoltre dà man forte a Niilo alla voce, inserendosi sporadicamente con fraseggi di voce pulita, che fanno da contraltare al growl incisivo, anche se non particolarmente profondo, del frontman.
In ogni caso i ragazzi si dimostrano ancora una volta ottimi musicisti, affiatati e precisi, oltre che persone affabili: Niilo si rivolge spesso al pubblico con qualche parola in italiano, ringrazia i presenti e sembra entusiasta di un bill che definisce ‘molto pericoloso’, immaginiamo nel senso di davvero esplosivo.
La scaletta predilige l’ultimo album da studio, “Anno 1696”, ma c’è spazio anche per alcuni estratti dai lavori più recenti, mentre vengono lasciati completamente in disparte i primi dischi del gruppo e – ovviamente – “Winter’s Gate”. Proprio all’ambizioso album, composto da una lunga suite, suddivisa semplicemente in parti, i Nostri avevano dedicato nel 2018 un tour che aveva toccato per tre date il nostro Paese, e del quale conserviamo un ottimo ricordo.
Forse la dimensione del club, più intima e raccolta, è più congeniale a far sprigionare al meglio i sentori di neve e i paesaggi romantici e solitari contenuti nella musica degli Insomnium, ma in ogni caso la band porta a casa una buona prova, conquistata con entusiasmo e cuore, tra l’incedere roccioso di “Unsung” e l’alternanza tra aggressività e struggenti melodie di “Pale Morning Star”. Non era un compito facilissimo, ancora una volta bravi.
Insomnium setlist:
1696
Valediction
White Christ
Pale Morning Star
Lilian
Unsung
While We Sleep
Karelia
AMON AMARTH
È calato il buio intorno a noi e c’è una fervente attesa nell’aria: l’elettricità esplode in un boato appena i cinque vichinghi fanno il loro ingresso sulla scena; ci guardiamo intorno e constatiamo come il pubblico abbia serrato i ranghi e riempito quasi ogni spazio disponibile.
Chi scrive non vedeva in azione la band di Stoccolma dal lontano 2009, un’epoca nella quale gli svedesi avevano all’attivo solo ottimi dischi, e nonostante questo aveva ancora senso farli esibire in locali di grandezza media come il New Age Club di Treviso (che ha una capienza di poco superiore alle 300 persone).
Quindici anni dopo ci troviamo ad apprezzare il gruppo in un contesto la cui grandezza è praticamente decuplicata (!), sintomo del balzo in avanti in termini di popolarità e vendite che i ragazzi svedesi hanno ottenuto nel tempo. La cosa era già nell’aria all’epoca, ma è aumentata a livelli forse difficilmente immaginabili, tra posizionamenti nelle classifiche di diversi paesi, dischi d’oro, collaborazioni con nomi storici dell’heavy metal (Doro, Biff Byford dei Saxon) e un range infinito di gadget e memorabilia a marchio Amon Amarth, dal puzzle ai calzini.
Se quindi i più intransigenti li hanno abbandonati dopo il debutto-capolavoro “Once Sent From The Golden Hall”, se non addirittura prima (parliamo del mini album precedente, quel famigerato “Sorrow Throughout The Nine Worlds”, mai ristampato ufficialmente forse a causa della copertina, una croce celtica in fiamme), sono invece moltissimi i fan guadagnati successivamente da Johan Hegg e soci, in barba a critiche e sfottò. E difatti l’audience accorsa questa sera è in buona parte composta da giovani e giovanissimi, ai cui estremi troviamo una bimba che passa tutto il concerto sulle spalle di chi la accompagna, le braccia perennemente alzate nel gesto delle corna, e un signore con capelli bianchi e camicia di lino, che si complimenta con i ragazzi all’ingresso perché dice “finalmente niente musica latino-americana questa sera”.
Gli Amon Amarth sono storicamente una sorta di macchina da guerra in sede di live, e con questo concerto ci provano che in tal senso nulla è cambiato: la band – compatta sin dalla sua formazione nel lontano 1992, ad eccezione delle pelli, dietro cui siede dal 2016 il cileno Jocke Wallgren – si presenta in ottima forma, con il frontman Johan Hegg a prendere immediatamente le redini dello show.
Non ci sono particolari sorprese per quanto riguarda la scaletta (e del resto non potrebbe essere diversamente avendo ormai scavallato la metà di queste date estive, in piena epoca social) che alterna vecchi classici e nuovi successi: purtroppo gli svedesi scelgono di lasciare da parte gli albori della propria discografia, concentrandosi in particolare su “Berserker”, “Jomsving” e l’immarcescibile “Twilight Of The Thunder God”; curiosamente viene scelta solamente la folkeggiante “Heidrun” come estratto dall’ultimo “The Great Heathen Army”, un disco che ha ricevuto pareri estremamente contrastanti.
Tra le critiche mosse al combo di Stoccolma c’è quella di aver ammorbidito troppo il suono con inserimenti di heavy metal, ma per la verità troviamo queste incursioni in territori maideniani piuttosto piacevoli, anche nel contesto dal vivo: e a guardare i volti dei giovanissimi nel pubblico verrebbe quasi da pensare agli Amon Amarth attuali come un potenziale volano verso sfumature di metal più classico. Per quanto riguarda la qualità delle ultime uscite invece, è innegabile che questa continui ad essere altalenante, con momenti più riusciti di altri e un certo grado di autocompiacimento à la Manowar nel riproporre soluzioni ormai tipiche e un po’ gigione.
Nonostante questo (e forse in parte grazie a questo) la band non cessa di conquistare fan e mandarli in visibilio: praticamente per tutto il concerto una buona fetta del pit sarà impegnata nel mosh e a fare stage diving, senza necessità di alcun invito dal palco a muoversi.
E così, tra momenti più tirati ed altri maggiormente anthemici e scanzonati, il set prosegue implacabile, coadiuvato dai figuranti che duellano sul palco o sventolano alti i vessilli della band, con Johan che riceve un corno gigante (ben oltre quello da litro che porta in cintura) dal quale beve dopo aver brindato idealmente con il pubblico al termine di “Raise Your Horns”. Sono tutti momenti progettati a tavolino e ripetuti ogni sera, va da sé, ma il risultato è comunque intrattenente e piacevole, soprattutto per chi li vive per la prima volta.
Gli Amon Amarth non sono mai stati un gruppo di rigorosi filologi, e per noi va bene così: certo, la ferocia e l’intensità drammatica degli inizi sono caratteristiche che ci piace poter rivivere maggiormente (almeno nel contesto dei tour) ma il risultato è, nel complesso, assolutamente soddisfacente. Chiaramente sono i classici come “Guardians Of Asgard” e “The Pursuit Of Vikings” a lasciare maggiormente il segno, ma comunque non ci sono cali di tensione in quella che resta una performance di altissimo livello. E se il condottiero Hegg da frontaman navigato si prende quasi completamente la scena, le due asce Olavi Mikkonen e Johan Söderberg hanno i loro momenti di gloria proprio durante gli assoli, le cui melodie sono spesso cantate a squrciagola dal pubblico, si veda l’epica “As Loke Falls”, che vede anche l’ingresso in scena dello stesso dio Loki, raffigurato come un essere mostruoso e cornuto a causa del suo ruolo ambiguo e controverso nel pantheon norreno.
Più in generale in ogni caso l’intera formazione dà vita ad una prova granitica e compatta, con i due chitarristi e il bassista Ted Lundström costantemente impegnati a muoversi sul palco, facendo headbanging e dando vita a ‘trittici plastici’ à la Iron Maiden/Judas Priest che concentrano su di loro gli sguardi durante i momenti strumentali. Inutile dire che l’ormai non più nuovo acquisto Jocke Wallgren (con un solido passato in diverse formazioni black/death/thrash, tra le quali Valkyrja, October Tide e Ondskapt) completa perfettamente la trama ritmica con un drumming tellurico e implacabile.
La scenografia è quella che conosciamo da ormai alcuni anni, con la batteria incastonata sulla riproduzione di un elmo con le corna e gli imponenti elementi laterali che cambiano con il procedere dello show: prima la coppia di guerrieri che ricordano le statue messe a protezione dei cancelli di Argonath ne “Il Signore Degli Anelli”, a rappresentare i Guardiani di Asgard, poi le prue di drakkar, che introducono “Put Your Back Into The Oar”, il singolo che celebra i raid vichinghi sulle coste inglesi, durante il quale un nutrito gruppo di ‘rematori’ si siede a terra e mima il gesto del vogatore. Si tratta di una tradizione recentissima (la canzone è uscita solo due anni fa) ma assolutamente consolidata e spontaneamente riproposta dal pubblico ad ogni concerto della band (sintomo dell’enorme presa che gli svedesi hanno sui loro fan).
Infine abbiamo ancora il perfido serpente di mare Jǫrmungandr (Miðgarðsormr) – la creatura mostruosa dalle dimensioni di enorme drago che secondo il mito è stato confinato da Thor sul fondo degli abissi marini – del quale vediamo la testa e la coda: sarà lo stesso Hegg ad impersonare la leggenda, colpendo il serpente con un martello gigante: in pratica siamo di fronte al ‘live action’ della copertina del fortunato lavoro del 2008, quel “Twilight Of The Thunder God” che sta per essere tributato.
A questo punto siamo alla fine del set, con l’ultimo brano dell’encore: il cielo, che aveva minacciato pioggia per tutta la sera, si decide a far scendere una pioggerellina fresca e leggera, in perfetto sincrono con la grandiosa “Twilight Of The Thunder God”, alla quale fornisce un contorno perfetto.
Si conclude così un’ora e mezza di grande show, tra la soddisfazione dei presenti e i ringraziamenti che la band profonde verso il pubblico, con tanto di foto di rito. Tutto come da copione, siamo d’accordo, eppure sentiamo che rimane una sorta di energia nell’aria. Del resto non è proprio questo il grande potere derivante dalla ritualità, con formule e gesti ben codificati che si perpetuano nel tempo?
Amon Amarth setlist:
Intro
Raven’s Flight
Guardians Of Asgaard
The Pursuit Of Vikings
Deceiver Of The Gods
As Loke Falls
Tattered Banners And Bloody Flags
Heidrun
War Of The Gods
Put Your Back Into The Oar
The Way Of Vikings
Under The Northern Star
First Kill
Shield Wall
Raise Your Horns
Encore:
Crack The Sky
Twilight Of The Thunder God