A cura di Lorenzo “Satana” Ottolenghi
Fotografie di Francesco Castaldo
Non si può parlare di questo evento senza prima dirimere una questione annosa che ha fatto storcere il naso a molti: Amon Amarth headliner e Testament di supporto (insieme ai Grand Magus). Possibile? No, per alcuni che considerano l’importanza storica di una band imprescindibile. Sì, per altri (compresi, immaginiamo, gli organizzatori del tour) che reputano le vendite attuali e l’appeal sul pubblico il criterio principale, se non unico, per decidere chi, tra un certo numero di band, sarà la “prima in cartellone”. Possono, poi, entrare anche altre considerazioni (il target di età è sovrapponibile tra Testament e Amon Amarth, ma con una fascia più giovane interessata più agli svedesi ed una meno giovane, e forse più intransigente, attirata più dai thrasher californiani). In fin dei conti, però, si tratta proprio di…conti, ed il pubblico presente alla serata di Milano sembra dar ragione alla scelta degli organizzatori. Diciamo che, visti i nomi delle band, il prezzo del biglietto era tutto sommato onesto, così alcuni hanno scelto di lasciare la venue dopo l’esibizione dei Testament. Non sta a noi giudicare una scelta di questo tipo, ma ci sentiamo di dire che, forse, c’è un po’ troppo accanimento verso gli Amon Amarth che, se non sono e probabilmente non saranno mai una band storica come i Testament, hanno dalla loro una notevole dose di coerenza stilistica ed hanno sempre suonato il loro genere (personale, anche se non originalissimo) con onestà. Fatta questa doverosa premessa, vi raccontiamo ciò che davvero conta: i tre concerti. Buona lettura.
GRAND MAGUS
I Grand Magus danno il via alla serata e, nonostante il tour sia di supporto e promozione all’utlimo “Sword Songs” (come testimonia il banner dietro il palco), la setlist del trio di Stoccolma cerca di coprire un po’ tutto il repertorio della band, estraendo un unico pezzo dal suddetto disco. Se la scelta era comprensibile e condivisibile quest’estate, con il disco appena uscito ed il pubblico dei festival che si aspetta scalette più immediate, ci è parsa un po’ strana in questa sede. Nonostante questo, però, il pubblico gradisce ed i fan partecipano con molti sing-along, guidati da un JB in ottima forma. Ormai, anche dagli arrangiamenti del materiale più datato, si può notare come la componente doom degli esordi sia virata totalmente verso un epic che, comunque, mantiene tinte cupe e – a tratti – opprimenti. I cavalli da battaglia dei Grand Magus (“Steel Versus Steel” e “Iron Will”) creano una grande partecipazione, che ci guiderà fino alla fine dello show con l’immancabile “Hammer Of The North” ed il suo coro epico e potente che il pubblico riprende e canta. Tutto sommato possiamo dire che i tre svedesi non deludono mai ed, aprendo per due band dalla portata enorme, possiamo capire che abbiano optato per una setlist più diretta. Il compito è svolto egregiamente ed il pubblico (già numeroso nonostante l’orario un po’ infelice) è pronto per il resto della serata.
TESTAMENT
In perfetto orario i Testament fanno il loro ingresso sul palco, nell’ormai consolidata formazione da brividi con Gene Hoglan alla batteria e Steve DiGiorgio al basso. I thrasher californiani, a differenza dei Grand Magus, pescano abbondantemente dall’ultimo “Brotherhood Of The Snake” e dai precedenti “Dark Roots Of Earth” e “The Formation Of Damnation”, senza dimenticarsi gli esordi con incursioni in “The New Order” e (una) nell’epocale “The Legacy”. Si parte subito ‘a cannone’ con un Chuck Billy in gran forma che sporca la voce solo quando necessario e resta su registri puliti quando necessario. Non si può dire nulla su una band come i Testament: oltre la già citata sezione ritmica (tra le migliori che si possano immaginare nel panorama metal) ed un frontman potente e navigato come Chuck, assistiamo anche ad una grande prova di Skolnick (un altro talento incredibile), coadiuvato da un Peterson forse un pelo impacciato sui pezzi estratti dall’ultimo disco, ma – per il resto – all’altezza dei suoi compagni. Dobbiamo annotare, però, che il tiro della band cala un po’ col proseguire del concerto, anche se il pubblico non sembra accorgersene o, comunque, non dà grossa importanza a questa flessione che, a tratti, ci dà l’impressione che i cinque di Oakland eseguano un po’ il classico ‘compitino’. Certo, con brani come “Disciples Of The Watch” e “Over The Wall” si scatena l’inferno nel moshpit e non potrebbe essere altrimenti visti i pezzi in questione. Alla fine i Testament ci regalano uno show sicuramente all’altezza del loro nome anche se, forse, risultano la band meno coinvolgente della serata o, semplicemente, quella meno rispondente alle alte aspettative.
AMON AMARTH
Per ultimi salgono sul palco gli Amon Amarth. Basta uno sguardo alla folla accorsa per capire che, piaccia o no, i veri headliner della serata sono loro, nell’accezione di band che attira il maggior numero di persone. Dopo una breve intro, anche i vichinghi di Stoccolma partono subito al massimo, aprendo con “The Pursuit Of Vikings”, cavallo di battaglia della band che richiama dalle primissime note il primo sing-along del concerto. Rispetto alle prove un po’ fiacche cui avevamo assistito negli ultimi anni a Wacken e all’Hellfest, Johan Hegg e soci ci sembrano subito molto più convincenti; difficile dire se la band si trovi più a suo agio in un club rispetto alla dimensione open air o se anche una band del calibro degli Amon Amarth subisca la pressione del pubblico oceanico dei due eventi citati prima. Anche il nuovo batterista Jocke Wallgren, primo cambio nella lineup della band dal 1998 ad oggi, sembra già perfettamente inserito e padroneggia egregiamente tutto il materiale proposto dal gruppo: una setlist che mette in risalto l’ultimo disco “Jomsviking” (di cui vengono proposti ben sei pezzi su dieci che compongono l’intero disco), ma che attinge a piene mani anche dal passato più e meno recente degli svedesi. Così, in un continuo alternarsi di materiale vecchio e nuovo (citiamo, alla rinfusa, “First Kill”, “Cry Of The Black Birds”, “The Way Of Vikings”, “Deceiver Of The God”, “One Thousand Burning Arrows”, “Runes To My Memory” e la splendida “Death In Fire”), il concerto scorre rapido e coinvolgente, anche grazie ad una coreografia formata da due guerrieri che alternano duelli, frecce puntate verso il pubblico e lance che scandiscono il tempo, fino alla chiusura con “War Of The Gods”. Chiusura finta, perchè tutti sanno che il concerto non può chiudersi senza alcuni pezzi. Così ecco gli Amon Amarth tornare sul palco per proporre “Raise Your Horns” (pezzo recentissimo ma già entrato nel cuore dei fan) e “Guardians Of Asgaard”, altro grandissimo loro classico. Si spengono le luci, ma non è ancora finita: si scatena una tempesta, Johan fa il suo ingresso con un gigantesco martello e tutti sanno che è giunto il momento della conclusiva “Twilight Of The Thunder God”. Ottimo concerto dove tutto ci è sembrato ben concepito: dall’alternanza tra i pezzi dell’ultimo disco e quelli del resto del repertorio della band, fino all’ottima prova tecnica dei cinque vichinghi, passando per una scenografia azzeccata e Johan Hegg (sempre lui) ormai grandissimo frontman, capace di coinvolgere il pubblico, anche con quel pizzico di malizia che è giusto trovare in chi si esibisce sui palchi di mezzo mondo da quasi venticinque anni. Gli Amon Amarth lasciano un pubblico sfinito ma in visibilio e dimostrano di essere ormai una band matura, dalla grande portata ed in grado di riunire, sotto l’egida del martello di Thor, metallari di tutte le età e dai gusti più disparati.