Introduzione a cura di Carlo Paleari
Report a cura di Davide Romagnoli
Sebbene si stiano avvicinando ai quarant’anni di storia, i Marillion non sono una band che ama adagiarsi sugli allori del proprio passato. Ne avrebbero tutto il diritto, avendo scritto più di una pagina della storia del rock, sia nella loro incarnazione con Fish alla voce, sia con la solidissima formazione che, immutata da quasi trent’anni, ha calcato il palco del Teatro degli Arcimboldi di Milano. La band inglese, infatti, si presenta al pubblico forte di un album, “FEAR (Fuck Everyone And Run)”, che ha convinto tutti per la freschezza, l’eleganza e la ricercatezza espressa. Non stupisce, dunque, la scelta coraggiosa di suonare il nuovo materiale praticamente nella sua interezza, andando a rafforzare, nota dopo nota, quella connessione emotiva con la platea così importante per Hogarth e soci. Perché i Marillion, pur non essendo certamente degli artisti votati al rock più sanguigno e diretto, vivono a pieno il rapporto con il proprio pubblico, un rapporto così stretto da voler trascendere perfino le barriere architettoniche dell’elegante e austero teatro meneghino, come si scoprirà nel corso della serata. Nessun opening act per il concerto dei Marillion, non ne hanno bisogno, dato che da soli regalano al pubblico due ore e mezza di enorme intensità, contornate da una messa in scena curata e di gran classe anche sotto l’aspetto visivo. Il momento è giunto, il sipario si alza e la magia comincia…
Sembra difficile che una formazione di questo calibro non sia quasi mai presente quando si parla dei grandi gruppi rock che ancora calcano i palchi senza pensare solamente alla mera riproposizione/coverizzazione di se stessi. I Marillion sono sicuramente uno di quei gruppi che non hanno mai deluso on stage e la cui prestazione live rimane sempre oggetto di una venerazione che contraddistingue da tempo immemore la loro grandissima fanbase. La cornice dell’Arcimboldi viene addirittura trascesa dall’estro di un H. in piena forma, che invita la gente ad arrivare fino a bordo palco, nella buca dell’orchestra, durante quella “Easter” che ormai è diventata l’emblema della seconda generazione Marillion. Poco importa se la comunione per vicinanza dura solo due brani, prima che si venga costretti a ritornare ai propri posti – giustamente, sottolineiamo, per la probabile impossibilità della pavimentazione in quel settore di reggere più che un’orchestra – perché la sinergia che i Marillion riescono a creare con il proprio pubblico resta sempre impeccabile. La serata dell’Arcimboldi è stata decisamente tale. Anche tutto il nuovo “FEAR” sembra addirittura goderne, per una presentazione live che accentua ancora di più il lato provocatorio ed esaltante di quella critica al sistema economico e politico tirata in mezzo dai gentlemen di Aylesbury (rappresentata, oltre che dallo slogan dell’acronimo, anche dal fatidico ‘Why is nothing ever true?’, tratto dall’ultima parte di “The New Kings”). Le tre suite dell’album e i due singoli brani, “White Paper” e “Living In Fear”, guadagnano – oltre che tramite l’impeccabile traduzione sul palco – soprattutto con un comparto visuale che dà sfogo anche a quel sentore ‘datato’, visto soprattutto quanto presente in numerose produzioni odierne, che però non ricade nel kitsch, se applicato ad una formula così autentica come quella che la personalità e la performance dei musicisti raffigurano. Particolare non da poco, anche se ormai consueto per la band, è quello di presentare delle variazioni di setlist per ogni serata. Se è un piacere, infatti, risentire una “Afraid Of Sunlight” dedicata alla scomparsa del grande Tom Petty e una “The Great Escape” per ricordare l’ottimo “Brave”, entrambe che sembrano essere tra le canzoni più suonate di quest’anno (insieme a “Go”), è quasi un onore sentire “Waiting To Happen” nell’encore, uno dei pezzi migliori di un altro grande album come “Holidays In Eden”, e una psichedelica “The Space”, nascosta tra i grandi classici di “Season End”, che però ben si affaccia ad una prosecuzione di “FEAR”. Splendida forma, oltre che per Hogarth, ormai idolo dei fan più fedeli, anche per il buon Steve Rothery, di una pulizia chitarristica sopraffina, progressive old school, e un Pete Trewavas che rimane ancora ‘the coolest member of the band’, come si leggeva tempo fa in qualche t-shirt al merchandise ufficiale. Immancabili risultano “The Man Of A Thousand Faces”, ormai uno dei brani migliori presentati live, soprattutto nella sua versione originale e non tagliata della mirabile coda, e l’evergreen “Neverland”, anch’essa dotata di un finale sempre emozionante. Nemmeno qualche problema tecnico e qualche sbalzo di volumi riescono a scalfire una performance che, seppur non perfetta, non intacca minimamente lo status incredibile di una band immensa, autentica, viva e pulsante, che da trent’anni a questa parte continua a portare avanti un’idea di musica onesta e vicina ai suoi fruitori con l’abito da lord ed un cuore fanciullo.
Setlist:
El Dorado: I. Long-Shadowed Sun
El Dorado: II. The Gold
El Dorado: III. Demolished Lives
El Dorado: IV. F E A R
El Dorado: V. The Grandchildren of Apes
Living in F E A R
The Leavers: I. Wake Up in Music
The Leavers: II. The Remainers
The Leavers: III. Vapour Trails in the Sky
The Leavers: IV. The Jumble of Days
The Leavers: V. One Tonight
White Paper
The New Kings: I. Fuck Everyone and Run
The New Kings: II. Russia’s Locked Doors
The New Kings: III. A Scary Sky
The New Kings: IV. Why Is Nothing Ever True?
The Space…
Afraid of Sunlight
The Great Escape
Easter
Go!
House of the Rising Sun
Man of a Thousand Faces
Waiting to Happen
Neverland