Report a cura di Carlo Paleari
Fotografie di Daria Manganaro
Una serata che vede esibirsi una coppia di artisti del calibro di Alcest e Anathema è una di quelle da non perdere. Da una parte abbiamo la formazione francese capeggiata da Neige, che continua a riscuotere consensi anche grazie alla pubblicazione di “Kodama”, che li riporta in territori a loro conosciuti dopo il coraggioso ma controverso “Shelter”. Dall’altra gli Anathema, che con “The Optimist” provano a raccontarci la storia del protagonista di “A Fine Day To Exit”, il tutto senza sfociare nel ritorno al passato, ma portando avanti coerentemente il loro percorso musicale, sempre più lontano dal passato e dal metal, ma non per questo svenduto o di scarsa qualità. Il pubblico milanese non rimane insensibile di fronte ad un evento che unisce proposte molto diverse eppure adiacenti per profondità emotiva e, quando arriviamo nei pressi dell’Alcatraz, troviamo ad accoglierci una lunga fiumana di persone che si snodano lungo il perimetro del locale in attesa dell’apertura. Un pubblico variegato che unisce chi, come chi vi scrive, segue gli Anathema da più di un ventennio, attraversando tutto lo spettro della loro evoluzione, chi li ha conosciuti quando già la loro musica aveva preso strade alternative, e anche chi (non pochi) si sono presentati quasi esclusivamente per godersi la performance degli Alcest. Una volta entrato, in poco tempo il pubblico inizia ad assieparsi sotto il palco e l’Alcatraz, nella sua versione con il palco laterale, risulta piacevolmente popolato; la serata però non sarà esattamente all’altezza delle aspettative, prestando il fianco a luci ed ombre e lasciandoci alla fine con un retrogusto un po’ amaro nell’esibizione degli headliner.
ALCEST
Puntualissimi, alle 19.30, salgono sul palco gli Alcest, che entrano subito nel vivo dello spettacolo con la title-track del loro ultimo album: l’impatto è allo stesso tempo potente e delicato, con quella capacità della band di infondere dal vivo ancora più vitalità e forza alla fanciullesca serenità che accompagna la sua musica. I suoni non sono perfetti, soprattutto in una posizione più avanzata, ma retrocedendo verso il mixer la situazione migliora e il concerto risulta assolutamente godibile, con solo qualche problema di bilanciamento che penalizza eccessivamente la voce di Neige. Gli Alcest possono godere di un tempo assolutamente degno: un’ora di concerto, poco meno rispetto ai settantacinque minuti del tour da headliner visto qualche mese fa assieme ai Mono. Lo sfruttano al meglio delle loro potenzialità, creando un flusso costante, che fluisce e rifluisce vivendo di sfumature e cambiamenti. Con le chitarre e la sezione ritmica così in primo piano, la performance della band diventa quasi strumentale, con la voce ad inserirsi in una trama senza guidarla o prenderne il comando. Unica eccezione, lo screaming di Neige che, quando abbandona il canto pulito, si eleva, acuto e piangente, ad infondere rabbia e dolore ai brani. Buona anche la messa in scena visiva, con il fondale che proietta semplicemente il logo della band e molte luci posizionate alle spalle del gruppo, in modo da accentuare le silhouette degli strumentisti e sottolineare quella sensazione di viaggio in un mondo incantato e lontano dalla realtà che caratterizza la musica degli Alcest. La scaletta, di soli sette pezzi, vista la durata media considerevole dei brani, si concentra ovviamente sull’ultima fatica del gruppo (“Kodama”, “Eclosion” e “Oiseaux De Proie”), ma anche “Les Voyages De L’Âme” riceve ampio spazio con la riproposizione di “Là Où Naissent Les Couleurs Nouvelles” e “Autre Temps”, quest’ultima accolta da una vera e propria ovazione. Chiudono il concerto la sempre magnifica “Percées De Lumière” (da Écailles De Lune”) e “Délivrance”, unico estratto da “Shelter”, che pone una nota conclusiva luminosa e chiara ad una performance di alto livello. Il pubblico dell’Alcatraz risponde con trasporto e si abbandona alla musica, con il buon Neige che, con pochissime parole, ringrazia della calda accoglienza e annuisce sorridente e soddisfatto alle acclamazioni che provengono dalla platea. Peccato solo non aver potuto ascoltare nulla dal meraviglioso album di debutto della band, da poco ristampato in occasione del decennale della pubblicazione. Si tratta di un dettaglio, comunque, che non ha inficiato la qualità di un concerto che conferma, ancora una volta, il livello altissimo raggiunto dai transalpini.
Setlist:
Onyx (Intro)
Kodama
Là Où Naissent Les Couleurs Nouvelles
Oiseaux De Proie
Eclosion
Autre Temps
Percées De Lumière
Délivrance
ANATHEMA
L’inizio del concerto degli Anathema, grazie al video proiettato sullo sfondo, ci riporta immediatamente su quella spiaggia ritratta sulla copertina di “A Fine Day To Exit”, andando a ripercorrere idealmente ciò che è successo all’anonimo protagonista della storia dopo quel tuffo liberatorio nel mare. È lo stesso punto di partenza del nuovo album, “The Optimist”, e il pubblico è attento e ansioso di percorrere questo viaggio assieme agli Anathema. Fin da subito, però, ci si accorge di una nota stonata negli equilibri del gruppo: al drumkit, infatti, non troviamo come di consueto John Douglas, bensì Daniel Cardoso, che normalmente si occupa delle tastiere. La data italiana non è la prima a vedere questa soluzione anomala, anche se ancora non è stato chiarito il motivo dell’assenza di Douglas, e ovviamente una configurazione imprevista avrà un impatto importante sul risultato finale dello show. Tutta la prima parte del concerto, infatti, vede la band un po’ tesa sul palco, con alcuni errori in fase esecutiva e i musicisti più impegnati a portare a casa un risultato quantomeno professionale, senza riuscire a creare quel feeling e quell’atmosfera fondamentali per una proposta musicale come quella degli Anathema. Cardoso, da parte sua, fa tutto il possibile per non far sentire la mancanza di Douglas e, bisogna dirlo, pur ricoprendo un ruolo non suo, il risultato finale è encomiabile. La gestione delle tastiere viene equamente divisa tra Danny e Vincent Cavanagh e, purtroppo, abbonda anche l’uso di basi per compensare ciò che non viene suonato live. Dei tre fratelli, Jamie resta quello più defilato a lato del palco; Vincent svolge bene il ruolo di frontman, dimostrandosi comunque sorridente ed efficace; mentre quello che appare più a disagio, invece, è proprio Danny. Chi segue da tempo gli Anathema sa benissimo che il chitarrista sa essere spesso l’ago della bilancia nelle loro esibizioni: Danny è l’elemento più umorale della band, quello più istintivo, e questa sera non sembra nella forma migliore. Non parliamo solo di quella fisica, che comunque è sottotono, ma soprattutto di quello che traspare dal suo viso: il chitarrista appare cupo, quasi arrabbiato. Svolge il suo compito senza quel trasporto che lo contraddistingue; talvolta scherza col pubblico ma la nostra sensazione è che lo faccia con una punta di sarcasmo e, sebbene dalla posizione in cui ci troviamo non riusciamo a capirne perfettamente la dinamica, ad un certo punto si ritrova a mandare affanculo qualcuno nelle prime file, con tanto di plateale dito medio. Il motivo, anche se non ne siamo certi, potrebbe essere perché lo spettatore era troppo impegnato a filmarlo piuttosto che a seguire il concerto. La situazione migliora nella seconda metà dello spettacolo e forse non è un caso che questo cambio di atmosfera coincida con l’esecuzione di “Ariel”, canzone scritta da Daniel per la figlia, questa sera presente tra il pubblico: il chitarrista termina il brano e la saluta con affetto dal palco, agitando il braccio e regalandole il primo vero e sincero sorriso della serata. Se già questo brano rappresenta di per sè una novità, rispetto alla scaletta vista nel tour fino ad oggi, il pubblico milanese può godere di un’altra chicca con l’esecuzione della vecchia “Deep”, un fuori programma scelto praticamente sul momento che risulterà uno dei pochissimi estratti dalla discografia passata degli Anathema. Ne esce fuori una versione un po’ arrugginita ma allo stesso tempo emozionante e il pubblico, finora piuttosto compìto, si lascia finalmente andare con trasporto. In generale la scaletta del concerto è pesantemente sbilanciata (anche troppo) nel presente degli Anathema, con molti brani estratti da “The Optimist” e dai due dischi immediatamente precedenti, ma trovano comunque spazio l’ottima “Pressure” e “Closer”, guidata come di consueto dal vocoder di Vincent. Nei bis, invece, ci vengono regalate ancora un paio di novità: prima un estratto dal nuovo album solista di Danny Cavanagh, intitolato “The Exorcist”, che però non ci ha convinto appieno, forse a causa di una struttura troppo classica, sia sul fronte della melodia che da un punto di vista lirico. Poi una piacevole rilettura di “Glory Box” dei Portishead, suonata dal solo Daniel alle tastiere e cantata con trasporto da Lee Douglas. A concludere la serata troviamo infine il classico della band per eccellenza, “Fragile Dreams”, questa volta introdotto dal tema strumentale di “Shine On You Crazy Diamond” dei Pink Floyd. Al termine del concerto è difficile formulare un giudizio complessivo: certamente la band ha dovuto affrontare una difficoltà oggettiva e non dipendente dalla loro volontà e non si può dire che non l’abbia fatto con professionalità ed impegno. Mentre ci avviamo verso l’uscita captiamo qualche parere e una grossa fetta del pubblico appare soddusfatto del risultato finale. Dal canto nostro non possiamo dire di aver assistito ad uno dei migliori concerti dei fratelli Cavanagh e ci auguriamo che si tratti semplicemente di una giornata storta, come può capitare a chiunque nella vita on the road. Sarà per la prossima volta, noi ci saremo!
Setlist:
San Francisco
Untouchable, Part 1
Untouchable, Part 2
Can’t Let Go
Endless Ways
The Optimist
The Lost Song, Part 3
Ariel
Deep
Pressure
Lightning Song
A Simple Mistake
Closer
Encore:
Firelight
Distant Satellites
Springfield
Back To The Start
The Exorcist
Glory Box
Fragile Dreams