Introduzione e report a cura di Davide Romagnoli e Giovanni Mascherpa
Anche se il nome poteva sembrare meramente pubblicitario, la line-up di questa serata è quanto di più succulento si potesse trovare nel mese di aprile in ambito di musica distorta. Una carovana, una vagonata, un’orda di post-metaller (se proprio si dovesse trovare un termine agglomerante) infesta per circa sette ore il palco del Lo-fi di Milano. Tre tour convogliati in un’unica serata: Botanist e Kayo Dot, assolutamente superiori a qualsiasi etichetta di “gruppi d’apertura”, City Of Ships e Junius, che riportano il sound a lidi più umani ma pur sempre potenti e di buon gusto, e l’accoppiata finale formata dall’eclettismo targato Minsk e dalle botte batteristiche dei Floor. Un filotto di gruppi esagerato, che ha determinato come unico effetto collaterale l’allungamento dei cambi palco e tempistiche di concerto abbastanza ridotte. Uno stato di necessità, dettato dalla voglia di cavalcare l’abbondanza, che a conti fatti ci ha permesso di osservare da vicino sei realtà di tutto rispetto dell’attuale scena underground, anche se concerti un po’ più estesi sarebbero stati graditi. Macello dalle ore 19.00 alle ore 2.00, quasi come una giornata lavorativa; tutto all’insegna di una musica caleidoscopica, che esplora a trecentosessanta gradi l’universo artistico odierno delle sette note, tirando in mezzo strumenti diversi, generi diversi, impatti compositivi diversi, tour diversi, per convogliarli in una serata di sicuro, grande valore. L’affluenza è stata discreta: da un po’ di tempo a questa parte, almeno al sabato, il Lo-fi non ha vuoti preoccupanti, e l’originalità dei gruppi all’opera, per una volta, non ha costituito un freno alla conservatrice audience italica, spingendo i cultori della materia a presenziare attentamente a questa maratona di bislaccherie, disegni inconsulti su un pentagramma, visioni strambe del reale e del surreale. Difficile che l’evento finale, ossia il SoloMacello Fest 2015, superi l’anteprima.
BOTANIST
Concept botanico/ecologista, assenza di chitarre, vestizione un po’ particolare, il salterio e un simil-organetto. Diciamocelo: ce n’era abbastanza per rimanere a bordo palco qualsiasi cosa fosse saltata fuori dalle casse, anche una lagna fastidiosa e irritante. Pensare a del “black metal senza chitarre” era uno sforzo immaginifico abbastanza arduo per chi non aveva mai provato ad ascoltare il materiale dei californiani, e la prova dei fatti ha dimostrato che una tale operazione ha un suo spessore artistico, non è una mossa balzana per guadagnare qualche consenso in forza di un esotismo fumoso e senza costrutto. Il palco si presenta coi due salteri (si dice così al plurale?) ai lati e una specie di “scatola magica” al centro (ipotizziamo un organo mignon, ma causa ignoranza non ci metteremmo la mano sul fuoco…), che verrà azionata dal cantante. Basso e batteria non presentano dettagli particolari, e diventano essenziali per mantenere un certo peso ‘offensivo’. I ragazzi, dopo un certosino soundcheck (sarà una costante delle band impegnate stasera, tre su cinque avevano molti strumenti da mettere d’accordo…), procedono alla vestizione, composta da un ruvido saio monacale con un’immagine floreale al centro. Il delicato mix fra suoni sottili e quasi fiabeschi e una sezione ritmica metallica al cento per cento fa subito una discreta impressione: i dialoghi melodici si sentono bene, i tocchi con le bacchette di legno sulle curiose cordicelle ingabbiate nell’armatura lignea fanno scaturire una vestaglia cangiante di fogliame sonico, un condensato di armonie suadenti ma intrise di una certa grinta e passionalità. Su cadenze calme e sospiranti i Botanist si alleggeriscono fin troppo, mentre paradossalmente sono le coltellate dal mood raw black metal a colpire meglio nel segno. In questi casi, anche il coinvolgimento dei musicisti si impenna e fa sorridere vedere i suonatori di salterio impegnarsi in un headbanging forsennato, cercando di non perdere il bandolo di quanto suonato e provando, senza successo, a tenere a posto il cappuccio del saio! Con il susseguirsi dei pezzi ci accorgiamo che gli autori del recente, e acclamatissimo sui siti “alternative”, “VI: Flora”, difettano di un minimo di varietà, forzatamente bloccati dalle possibilità espressive limitate dello strumento cardine. Piacevole e ben integrato con il resto della proposta il suono dell’organo, o quello che è, e sgraziatamente urticante lo screaming. Bravi.
(Giovanni Mascherpa)
KAYO DOT
Gruppo che più succulento non si sarebbe potuto avere questa sera e in questo orario, i Kayo Dot risplendono nella serata come una piccola gemma ruvida e non ancora cesellata. Non sicuramente per il labor limae delle loro composizioni e della loro musica, non sicuramente per il loro eclettismo musicale, di un encomio degno della migliore tradizione cavalleresca. Una gemma che non esprime tutte le sue vere proprietà mistiche e lunari per problemi contingenti e tecnici vari che impediscono, per esempio, il regolare funzionamento del pc presente sul palco, e che fa virare i ragazzi in un cambio/modifica di scaletta talmente immediato e professionale che quasi nessuno si accorge dei vari intoppi che accadono sul palco. Nonostante tutto, i Kayo Dot proseguono imperterriti in quelli che diventano circa venticinque minuti e poco più, con soli tre brani dati in pasto all’audience. Canzoni calde, passionali, a volte umanissime, altre totalmente aliene, sempre denotanti una classe compositiva che può vantare pochi eguali. Due tastiere, un sax, una chitarra usata come arma impropria dalle mille funzioni: mazza ferrata oppure storditore, coltello o delicato pennello, composto di setole morbidissime e utilizzabile, alla bisogna, come rostro d’acciaio d’implacabile violenza. Un attacco torrenziale e schizzatissimo lascia spazio a vagheggiamenti nell’etere, per poi rivedere le stelle in saliscendi allucinanti, scriteriati, un cocktail impazzito di jazz, Fantomas, Naked City, Arcturus, Solefald, The Dillinger Escape Plan e chi ne ha più ne metta. Con il secondo brano si sconfina in un elettro/pop sosfisticato, un po’ darkeggiante, intriso di un senso di assurdo latente tra le righe di una musica che vorrebbe sembrare rassicurante. Lo è fino a un certo punto, e i Kayo Dot, smorzando violenza, velocità, cambi di tempo, ci sotterrano lo stesso con una nenia trattenuta, a un certo punto così rallentata da poter essere scambiata per una sottile presa in giro. Un miracolo di equilibrio, orecchiabilità e atmosfera, doppiato dalla formidabile “And He Build A Boat”. E’ uno dei pezzi topici dello spropositato “Hubardo”, il doppio album che aveva ridato fiato alle trombe di chi vede questa band tra le più geniali e inclassificabili della sua generazione. Potenzialmente è una hit assoluta, i toni da soundtrack si mischiano a una linea melodica subito intrigante, e la voce calda di Toby si insinua dolcemente nella nostra mente, mettendola in uno stato di comfort emotivo appagante. Non se ne vorrebbe più fuggire, e invece abbiamo fatto appena in tempo a entrare nel mood particolare della formazione che è già tempo dei saluti. Rammarico. Profondo rammarico. Ma anche la sicurezza, la gioia di una conferma e lo stupore nell’ammirare dal vivo quanto già si conosceva dei dischi. L’ultimo “Coffins On Io” ha infatti riconfermato la qualità indiscussa della band avant-garde, o più propriamente ormai rock sperimentale, in una versione più affabile e malleabile rispetto al ritorno al marcio di “Hubardo”; riconferma che la band di Toby Driver, dai tempi dei mitici Maudlin of the Well, è rimasta su uno standard (come eufemismo) di un livello ineccepibile, e può permettersi qualsiasi divagazione, girando tutte, o suppergiù, le galassie soniche disponibili nel tempo brevissimo del set di stasera. Occultismo, dream pop, black metal, jazz, musica d’avanguardia, musica estrema, intellettualismo, ambizione, umanità, auto-produzione, successo di nicchia, racchiudono solo in minima parte cosa rappresenti oggi una band di culto come i Kayo Dot.
(Davide Romagnoli – Giovanni Mascherpa)
CITY OF SHIPS
Fuori da poco con il terzo album “Ultraluminal”, i City Of Ships riportano le menti dei presenti a un rock viscerale e relativamente scarno rispetto alle architetture progressive e imprevedibili dei Kayo Dot. Si presentano come il più classico dei power-trio e, saranno anche i camicioni di flanella indosso a bassista e cantante/chitarrista, quello che ci scaraventano addosso è una sorta di grunge evoluto e contaminato da sludge e post-core, rumoroso quanto basta e impreziosito da uno spiccato senso melodico. I City Of Ships, a dispetto della patina intellettuale e atmosferica che sembrerebbero suggerire le copertine dei loro dischi, sono prima di tutto un gruppo che bada al sodo, a tenere alta l’adrenalina, a picchiare duro. Nel farlo però, accompagnano le loro scariche elettriche con linee chitarristiche molto facili, a volte sepolte dai watt, altre ben in evidenza. Leggerezza e ignoranza caotica sembrano convivere con una certa comunione d’intenti nella musica della band statunitense, capace di arrivare dritta al punto con brani piuttosto semplici nello scheletro, che acquistano interesse grazie ad arrangiamenti non scontati, soprattutto quelli di un batterista che massacra i suoi tamburi con grande foga e attenzione ai dettagli. Anche per il terzo gruppo in programma non c’è un minutaggio troppo ampio da sfruttare, ma non dovendo i musicisti impegnarsi in composizioni di ampio respiro, il disagio qui è minore. Nota di merito per le scelte vocali, che mediano intelligentemente urla rabbiose e sentita interpretazione, dando ulteriore colore a una band priva di caratteristiche somatiche degne di meraviglia, ma altrettanto mancante di cadute di tono.
(Giovanni Mascherpa)
JUNIUS
Ispirati dallo pseudonimo dello scrittore-giornalista della Londra di fine-Diciottesimo secolo, i bostoniani Junius ripercorrono quel filone di musica che va dalle influenze più classicheggianti della musica da camera ad una tradizione dark wave, rock oscuro e influenze post-punk di stampo britannico. Impossibile che nel sound live non si ripeschi nelle orecchie l’apertura dei chorus dei Deftones, l’influenza di gruppi come Echo And The Bunnymen, Cure, Jesus And The Mary Chain, evocata soprattutto dal timbro di Joseph E. Martinez, la cui ombra si staglia imperiosa dietro le luci fioche dello sfondo, l’alternative americano dei Sunny Day Real Estate e una sorta di commistione post-rock emblematica e contemporanea come quella di scuola Mogwai. La precisione e la performance dei bostoniani rende merito ad un pastiche di generi che collide in una botta sonora non indifferente per impatto e atmosfera (come in brani come l’anthem “Betray The Grave” e “All Shall Float”), inquadrandosi come uno dei momenti più interessanti della serata. Un fattore decisivo per apprezzare l’operato del quartetto, soprattutto se si è di indole molto metallara e poco si gradisce l’assottigliamento del peso chitarristico, è la scelta di suonare una musica a conti fatti abbastanza “eterea” con dei suoni pazzeschi, siderali e pienissimi. Questo crea una strana, e riuscitissima, dicotomia: volgarizzando il discorso, sembra di ascoltare della normale dark wave (di inappuntabile classe) con i suoni dei primi Cult Of Luna. Un concentrato sonico stordente, il cui effetto viene amplificato a dismisura dal light show della band: luci bianche fortissime vengono puntate sul pubblico, lasciando di converso in controluce i musicisti. L’idea instillata nel proprio cervello è quella di una certa lontananza tra chi è sul palco e chi sta osservando lo spettacolo: le chitarre, invece, sono così possenti e levigate che pare arrivino in pieno volto come dei mattoni rivestiti di piume. Così, per molti sconosciuti, il loro set regala interesse e empatia immediata, figlia di un prodotto musicale che in sede live (oltre che su dischi come soprattutto quel bellissimo “The Martyrdom Of A Catastrophist”) riesce a solleticare il piacere delle orecchie e dell’anima tanto semplicemente quanto catarticamente.
(Davide Romagnoli – Giovanni Mascherpa)
MINSK
Sono tornati. Sei anni di silenzio, prima di riapparire nelle sembianze di un mausoleo di disco qual è “The Crash & The Draw”. Muovendosi poco dallo sludge apocalittico e tribale degli esordi, i cinque dell’Illinois incarnano oggi come ieri lo spirito del metal Neurosisiano più cupo e massiccio, aperto a contaminazioni di sonorità più leggere con molta, molta parsimonia. Per aprirci in due e sbriciolarci le vertebre, non potevano scegliere un attacco migliore che quello di “To The Initiate”, opener dell’ultima fatica in studio e suo brano di punta. Si scivola in una condizione di catarsi e trasmutazione dell’anima, oltre che di atterrito annichilimento, facendosi accompagnare in questo cammino ascensionale dalla particolare struttura del pezzo, un crescendo progressivo ed estatico reso assordante e magnifico dai quadrupli intrecci vocali. I suoni esagerati e ben definiti calzano perfettamente a una proposta che ha nella forza e nella coordinazione dei diversi movimenti strumentali la sua ragione d’essere; la musica cresce di fulgore e pathos, di pari passo a una violenza fisica e concettuale avente un senso di un incontenibile disfacimento simile a quello di una valanga o di un’inondazione. I membri della band non sono esattamente dei grandi intrattenitori, ma quando si entra nelle fasi più concitate e serrate si palesa una rabbia ferina nelle mosse, quella di lupi in catene, pronti a scattare sulla preda con lucido istinto omicida. Il più scosso risulta essere il cantante/tastierista Tim Mead, da cui passa il grosso delle linee vocali, mentre tocca a Chris Bennett elargire le clean vocals, con la stessa naturalezza palesata su “The Crash & The Draw”. Tutto l’apparato vocale, le entrate e uscite in questo sistema di latrati ferini, urlacci hardcore di gola e garbata soavità, è gestito con attenzione e interpretazione che non scade in sbavature grossolane o approssimazioni. “Within And Without” prosegue con pari efficacia la marcia del leviatano-Minsk, con la band più tipicamente metal del festival a sostenere con solidità e ardore il ruolo di alfieri del metal evoluto erculeo e sfaccettato. I Minsk rimangono sul palco una quarantina di minuti, per soli quattro estratti dalla loro inappuntabile discografia, abbastanza per goderne appieno le cadenze gigantesche e le liquide melodie introdotte a mitigarne l’indole squassante e iraconda. Ancora grondanti di sudore, i membri del gruppo si ritroveranno a gestire un discreto nugolo di fan accorsi al banco del merchandise per reclamare un feticcio del concerto: i cinque non sono di certo passati inosservati…
(Giovanni Mascherpa)
FLOOR
Ritornata sulle scene nel 2014 con il nuovo “Oblation”, la formazione stoner/doom capitanata da Steve Brooks, ancora prima della fondazione dei Torche, ritorna a calcare il palco italiano e a mutilare l’atmosfera a suon di riff di chitarre down-tuned e botte esose di batteria. “Oblation” è praticamente il terzo disco in studio in venti anni di carriera, ancora con Anthony Vialon come compagno di chitarra e le bordate di batteria di Henry Wilson a formare questo power-trio incazzoso e d’impatto che risulta essere una grande chicca per la serata. E’ l’una e un quarto di notte quando iniziano le prime note dei Floor, e per coloro che cominciavano ad avere una palpebra calante viene offerto il rimedio delle bordate sfascia-pelli di Henry Wilson, e una musica, quella dei Floor di stasera, che passa dal lento doom alle strutture del pop distorto più affabile e catchy, per virare su velocità hardcore punk e groove stoner rock, eppure rimanendo coesi e uniformi nel loro incedere. Se già durante la serata siamo stati violentati da volumi parossistici, coi Floor il tutto assume connotati ancora più simili all’armageddon. Più che da canzoni vere e proprie, veniamo investiti da tornado di forza elettrica-centrifuga dilaniante, palle di fuoco di distorsione inoculate nelle nostre orecchie senza, apparentemente, un disegno predeterminato: ci sembra di assistere a una torrida jam-session, dove si fa a gara per bombardare i superstiti con quanto più vigore possibile. Vista l’ora e i pochissimi punti di riferimento concessi, un po’ vacillanti per il sonno montante, correndo incontro alla notte ci si trova immersi in una nuvola di rumore bianco sempre più stringente e senza soluzione di continuità. Sicuramente difficile essere ancora in piedi a questo orario, a questi volumi e a questa carneficina; difficile soprattutto, dopo questi ultimi quaranta minuti di schiaffi in faccia, avere ancora qualcosa da obiettare al Dio del Macello.
(Davide Romagnoli – Giovanni Mascherpa)