12/10/2024 - ARCANUM FEST II @ Alchemica Club - Bologna

Pubblicato il 17/10/2024 da

La seconda edizione dell’Arcanum Fest di Bologna, dopo il buonissimo successo registrato lo scorso anno con Darvaza e Asagraum, ha rilanciato quest’anno con un doppio appuntamento (senza dimenticare la serata warm-up svoltasi a Modena la settimana precedente, che ha riportato il nome Inchiuvatu in terra emiliana).
Se il venerdì è stato quasi interamente dedicato al black metal tedesco di casa AOP Records – con Ellende, Groza, Servant ad avvicendarsi sul palco – la data di sabato, che vi raccontiamo, si è dimostrata stilisticamente molto più varia, con tocchi dark wave, doom e punk.
Quando facciamo il nostro ingresso nel cortile del locale troviamo un’autentica atmosfera da festival, con il merchandise ufficiale delle band, alcune distro e una postazione bar esterna, scelta azzeccata considerato il clima ancora piacevole, e la possibilità di sostare comodamente ai tavolini adiacenti.
Purtroppo ci siamo persi, per cause di forza maggiore, la performance dei polacchi Above Aurora, giungendo però al locale in tempo per gustarci il resto di questo percorso tra molte delle infinite sfaccettature che può assumere il metal estremo, fino a giungere ai veterani norvegesi Tsjuder, con il loro eterno tributo alla nera fiamma del black metal scandinavo.

Mancano pochi minuti alle 20:00 quando ci sistemiamo fronte palco per assistere allo show dei NEL BUIO, promettente terzetto lombardo-emiliano formato da membri di Blasphemer ad Electrocution, il cui EP di debutto ci aveva conquistato nei mesi scorsi.
Il rapido check rivela qualche problema di volume in spia, ma nel giro di pochissimo la band, attacca, introdotta dalla breve strumentale “Lei È”, che va a fondersi con “Sola”, autentica scheggia di malessere e malignità. Altro frammento nerissimo, tra ossessività doom rock, ritmi dark wave e pesantezza black/death è “Mi avvelena”, la riuscitissima cover di “Monolith”, brano del duo gothic-dark texano Twin Tribes al quale i Nel Buio regalano una pesantezza perfettamente in linea con il loro stile.
I suoni non sono perfetti e qualcosa si perde in termini di comprensione (per qualche secondo la chitarra di Neil risulta anche inudibile) ma le cose migliorano in corso d’opera e i ragazzi dimostrano in ogni caso grandissima perizia tecnica, in primis il drumming impressionante di Francesco ‘Vellacifer’ Vella.

Clod The Ripper – mastermind, voce e basso – si dimostra incisivo sui diversi stili vocali e narra le angosce urbane che sono l’essenza stessa del progetto con il supporto di Neil ai cori: il look post-apocalittico di entrambi di sposa perfettamente con le tematiche e le suggestioni sonoro che riportano ad un ‘gotico metropolitano’ fatto di anime perse nella solitudine di quartieri di palazzoni, traffico notturno, grigiore bagnato dalla pioggia e rarefatto da smog e nebbia. In quest’occasione il terzetto si esibisce senza l’ausilio di Alessandra Martelli, la performer e ballerina che li ha accompagnati in altre date.
Naturalmente per quanto riguarda la scaletta non serve fare ipotesi o congetture, dato che il gruppo ha solo una manciata di brani all’attivo, ma segnaliamo ancora che il finale affidato a “Nel Buio” e alla sublime “In Silenzio…” registra finalmente di suoni nitidi ed adeguati.
È stato peraltro un piacere poter ascoltare questo debutto per intero, in attesa di un’uscita discografica più corposa.

Rimaniamo nel nostro Paese, spostandoci idealmente in Piemonte, terra d’origine dei PONTE DEL DIAVOLO, una delle nuove realtà che ha destato più interesse, raccogliendo i favori di critica e pubblico. I torinesi, che hanno rilasciato tramite Season Of Mist il loro album d’esordio – “Fire Blades From The Tomb” – pescano proprio da lì la doppietta iniziale, composta da “Demone” e “Covenant”, due brani sicuramente vincenti nel fondere ritmiche post-punk, rallentamenti doom rock dall’effetto lisergico e tocchi di malignità post-black.
La cantante Erba del Diavolo (al secolo Elena Camusso) dimostra di avere la stoffa per essere una frontwoman di tutto rispetto, grazie ad un approccio teatrale al palco, coerente con la vena gotica della band. Le sue movenze catturano gli sguardi del pubblico, ma è il sorriso a conquistare, ora dolce ora lievemente sinistro, indecifrabile come una strega.
Vocalmente si dimostra valida e versatile come su microsolco, spaziando tra voce pulita – ora suadente ora declamatoria – e momenti più aggressivi, ai confini con lo scream.
Non c’è nulla di sforzato, di eccessivo, Elena – che a tratti ci ha ricordato la Cadaveria degli anni ’90 – risulta perfettamente a suo agio nel vestire i panni della cantante dai risvolti luciferini, e a ben vedere è proprio lei l’asso nella manica dei Ponte Del Diavolo, un assoluto valore aggiunto.

Ciò detto, Abro (bassista di Inchiuvatu), Nerium (chitarra) e Segale Cornuta (batteria) si dimostrano ottimi musicisti e tessono abilmente le loro trame sonore, graziati da una resa sonora molto buona: proprio la natura fortemente ibrida della proposta del quartetto da un lato è un punto di forza in termini di originalità e dall’altro spinge l’ascoltatore ad interrogarsi sulla natura del gruppo, che nonostante le contaminazioni estreme non ha mai un suono particolarmente pesante.
Trovano spazio anche un paio di ‘outsider’, “Scintilla”, estratta dal mini “Ave Scintilla!”, intrisa di occultismo come di riff sghembi, e “Un Bacio A Mezzanotte” da “Sancta Menstruis”, che vive su ritmiche nervose post-punk.
A livello di umore generale, il pubblico è interessato e in una certa misura rapito, anche se – prevedibilmente, considerata la proposta affine al black metal solo in senso molto tangente – la musica dei Ponte Del Diavolo, con i suoi rallentamenti doom e la voce pulita femminile, non è nelle corde di tutti i presenti, anche se riteniamo apprezzabile la digressione in territori meno estremi.
Nel complesso una prova positiva, anche se forse ci aspettavamo qualcosa di più, in termini di impatto ed energia, mentre la ‘pacca’ non ci sembra arrivare come dovrebbe. Da riascoltare.

Con i CVINGER entriamo nella seconda parte della serata e torniamo a viaggiare su binari per così dire ‘sicuri’: gli sloveni sono una formazione canonicamente black metal, figlia di quella declinazione più violenta del black scandinavo, tra Dark Funeral, Gorgoroth, Marduk, e (perchè no) Tsjuder.
Il quintetto ha ormai alle spalle dodici anni di esperienza e tre pubblicazioni all’attivo; prevedibilmente “Meditations At The World’s Demise”, l’ultimo uscito, riceve ampia rappresentazione, con diversi pezzi estratti: “Slava” alterna frangenti oltremodo violenti e confusi (à la 1349) a momenti più cadenzati, melodici ed interessanti, mentre “Blood Catharsis And The Mantra Of Depravity” dimostra un approccio più ragionato e delle buone di linee di basso in evidenza.
In generale, la musica dei Cvinger dimostra una scrittura molto tradizionale, con ben poche sorprese: piacevole l’intermezzo folk a tinte tribali di “Cosmic Realm”, che ricorda le atmosfere degli Arkona russi, mentre “Embodied In Incense” – tratta dall’album omonimo – presenta contaminazioni death metal piuttosto evidenti (di scuola Morbid Angel).

A parte questo le composizioni sono, come già accennato, piuttosto uniformi in termini di soluzioni e resa complessiva: i musicisti sloveni giocano sul sicuro, senza azzardare nulla di nuovo ma riescono a proporre comunque soluzioni piacevoli e non eccessivamente scontate quando scelgono di rallentare un pochino i ritmi, lasciando affiorare un afflato vagamente pagan, che si riflette nel piccolo altare posto sul palco, che alle candele nere e i teschi unisce alcune pigne ed altri elementi naturali che richiamano i boschi.
Anche in fatto di look i Cvinger ricalcano gli stilemi del black metal scandinavo più intransigente ed attuale, con face painting ‘semplificato’ e sangue a profusione; tra tutte, la prestazione dietro al microfono di Lucerus si dimostra particolarmente valida: benchè forse ancora un po’ acerba, l’ugola di Nejc Heine si dimostra incisiva e versatile, e l’intera band tiene abbastanza bene il palco, sfruttando al meglio i quaranta minuti di tempo loro concessi.
Sicuramente non un progetto imprescindibile, ma comunque un’esibizione godibile – con alcuni sprazzi realmente interessanti – che riaccende la tensione in sala.

C’è grande attenzione invece nei confronti degli OWLS WOODS GRAVES, giovane progetto polacco di membri di Mgła ed ex musicisti live dei Clandestine Blaze (nonché ex Medico Peste), per la prima volta su un palco italiano con questa unica data nel nostro Paese. La band, nata nel 2015 da The Fall (aka Michał Stępień) alla voce ed E.V.T. (al secolo Piotr Dziemski) si è poi trasformata in un quartetto, spostando contemporaneamente il baricentro del loro sound sempre più verso il crust e il punk.
E in effetti stilisticamente negli Owls Woods Graves c’è qualcosa dei Medico Peste, ma nulla della creatura di Mikko Aspa né tantomeno della pesantezza quadrata ed intensissima dei Mgła (che però ci mettono lo zampino in fase di missaggio): la band ha un approccio grezzo e ‘noncurante’ – quanto genuino non è dato sapere – al black metal, e come già accennato lo mixa a potentissime dosi di hardcore punk e crust.
Tra i primi riferimenti (anche visivi) abbiamo sicuramente i Darkthrone del cosiddetto ‘periodo di mezzo’, i Mayhem di “Deathcrush” e i Celtic Frost, ma anche Misfits, Samhain (si vedano i cori di “Return To Satan” e le strofe melodiche di “Do You Deny The Evil?”) e l’hardcore in generale (“The Spirit Follows Me Till The End Of My Journey”). L’incontro-scontro tra queste sonorità ed attitudini non è appunto cosa nuova (pensiamo alle influenze black’n’roll di band come Craft e Carpathian Forest, con relativa attitudine nichilista) ma in questo caso la componente punk non è mai stata così preponderante.

Il set degli Owls Woods Graves si compone – coerentemente con la loro proposta – di brani prevalentemente corti (sotto i tre minuti di durata), thrashaggianti, nerissimi eppure scanzonati, come ‘l’inno’ “Antichristian Hooligan” o l’autocelebrativa “Owls Woods Graves”: i cori in stile hardcore punk sono un invito a cantare così come le ritmiche invitano al pogo, e in effetti una buona parte di pubblico li segue, almeno nella prima parte dell’esibizione.
L’impressione è però che i tre quarti d’ora a disposizione dei polacchi non filino via veloci come dovrebbero, ed a un certo punto la formula dei ragazzi mostri un po’ la corda, con l’attenzione del pubblico in fase calante.
Di sicuro i musicisti di Cracovia hanno portato una ventata di leggerezza – concettuale e musicale – risultando accessibilissimi e occupando uno spazio scoperto in questo appuntamento con le sonorità oscure.

È infine giunto il momento degli headliner: gli TSJUDER di Jan-Erik ‘Nag’ Romøren (basso e voce) e Halvor ‘Draugluin’ Storrøsten (chitarra e voce) mancavano da qualche anno in Italia, ed è anche per questo che c’è una folta platea ad accoglierli in terra felsinea.
Nonostante la formazione risalga al 1993, i norvegesi sono arrivati lunghi al debutto, infatti “Kill For Satan” arriva solamente all’alba del nuovo millennio; questo ritardo rispetto alle uscite dei mostri sacri del black scandinavo ha fatto rientrare la band in quella seconda ondata che comprende tra gli altri Taake, Urgehal e Sargeist, togliendo forse qualche possibilità in termini di opportunità ai ragazzi di Oslo.
In ogni caso la carriera degli Tsjuder è proseguita in modo costante, nonostante un – in parte fisiologico – rallentamento nel ritmo di uscita degli album dopo il 2004, sempre sulla strada del black metal senza compromessi. Quest’attitudine, legata appunto alla scuola scandinava più intransigente ha portato in parte di pubblico e critica un certo scetticismo verso i lavori successivi al loro capolavoro “Desert Northern Hell”, in buona parte ingiustamente, soprattutto se si guarda ad “Hellvegr”, l’ottimo dischetto che lo scorso anno ha riportato i norvegesi sul mercato discografico.

Da quest’ultimo viene estratta la doppietta iniziale, inserita in una scaletta che premia principalmente proprio “Desert Northern Hell”, ignorando (purtroppo) invece completamente il precedente “Demonic Possession”: ci sarebbe piaciuto ascoltare “Ancient Hate” e invece niente, peccato.
L’attacco con l’immarcescibile “Malignant Coronation” è di sicuro impatto e ci mostra immediatamente come la band sia in forma smagliante: Nag e Draugluin sono due creature demoniache che si scambiano continuamente sul palco; zero scenografia e zero chiacchiere, gli Tsjuder suonano un’ora filata e si conquistano i fan senza alcun trucchetto (pur rivelandosi persone alla mano e disponibili giù dal palco).
Sullo sfondo – per ovvie ragioni logistiche – il giovane batterista Emil Wiksten, unitosi alla band proprio quest’anno, dopo l’abbandono di Anti-Christian Svendsen e un periodo di vuoto dietro le pelli, tanto che “Hellvegr” è stato registrato grazie all’aiuto dell’americano John Rice (il batterista degli Uncle Acid & The Deadbeats, anche live sessionist per i Behemoth). Witkins se la cava decisamente bene, dimostrandosi perfettamente a suo agio: il risultato complessivo è di una formazione compatta, precisa, dotata di un ‘tiro’ veramente notevole.

Aggiungiamo che sia Nag, la voce principale, che Draugluin – che pur essendo accreditato alle backing vocals ha in realtà ampio spazio dietro il microfono – risultano espressivi e convincenti, in grado di modulare perfettamente le atmosfere ora gelate ora spiritate catturate su microsolco; ottime in questo senso “Ghoul”, col suo ritmo trascinante, la devastante “Possessed” e l’incedere catchy e thrasheggiante di “Mouth Of Madness”.
‘Il Diavolo è nei dettagli’ e gli Tsjuder ne sono la prova evidente: troppo facile liquidarli come gruppo ‘caciarone’, capace solo di brani tritaossa: la realtà è che a dare un’anima, garantendo una certa varietà ai brani, ci sono rallentamenti ed inserimenti melodici oscuri e preziosi.
Il pubblico apprezza coinvolto, e chiaramente nei momenti più veloci e tirati si scatena il mosh (mai eccessivo – è pur sempre un concerto black), come nella ‘hit’ “Kill For Satan”, ma anche i pezzi più recenti ottengono un benvenuto caloroso, si vedano l’abrasiva “Iron Beast” e “Prestehammeren”, più complessa e melodica, o “Antiliv” – dall’omonimo disco del 2015 – il brano più lungo ed articolato della serata.
La breve scheggia di violenza controllata “Kaos” chiude uno show che si è rivelato ben oltre le nostre aspettative, un assalto sonoro metodico realizzato con perizia tecnica, tanta esperienza e ancora molto entusiasmo, corroborato da suoni ottimali e reso più godibile dal fatto che – come sempre all’Alchemica – non essendoci un corridoio transennato, si ha la possibilità di vedere assistere al concerto a pochi centimetri dai musicisti se posizionati tra le prime file. Encomiabili.

Tsjuder setlist:
Malignant Coronation
Helvete
Possessed
Kill for Satan
Ghoul
Mouth Of Madness
Slakt
Prestehammeren
Iron Beast
Gods Of Black Blood
Antiliv
Kaos

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