Report di Riccardo Plata e Maurizio “Morrizz” Borghi
Foto di Riccardo Plata
L’annuncio del “Rise From The North” tour aveva creato parecchie palpitazioni negli amanti del melodic death metal svedese, genere ricco di estimatori nel Belpaese: certamente i protagonisti hanno nel frattempo tutti quanti intrapreso altre strade, e il bill odierno non è frutto una coincidenza astrale irripetibile – i diversamente giovani ricorderanno i due co-headliner di stasera in compagnia di Dark Tranquillity e Children of Bodom al defunto Rainbow di Milano un quarto di secolo fa – ma vedere l’Alcatraz strapieno per la terza sera consecutiva, dopo Powerwolf e Cannibal Corpse, lascia comunque ben sperare per il metal nel capoluogo lombardo.
Nell’alternanza tra le due band di punta, stasera tocca a Friden & Gelotte partire per primi dopo i Soilwork, e anche se il voto popolare avrebbe forse preferito l’ordine inverso tutto sommato è andata bene così, visto quello che è successo agli headliner; di sicuro non è stata una bella serata anche per i fotografi accreditati, che oltre ad essere scortati fuori dal locale dopo i primi tre pezzi si sono visti negare all’ultimo il pass foto dagli Arch Enemy, lasciando il campo al fotografo ufficiale della band: una scelta legittima, purché comunicata per tempo e non venti minuti prima dello show. Detto ciò, a voi il report della serata, partendo dall’illustre band di apertura…
Sono passati ventidue anni da quando i SOILWORK calcarono per la prima volta le assi dell’Alcatraz, sempre di spalla agli In Flames: all’epoca la band di Helsingborg era sulla cresta dell’onda sulla scia della pubblicazione di “Natural Born Chaos”, e anche se il successo ipotizzato all’epoca si è avverato solo in parte, va comunque riconosciuto a Speed Strid (unico sopravvissuto dell’epoca insieme al tastierista Sven Karlsson) la capacità di aver tenuto a galla la band, pur con gli inevitabili alti e bassi.
La scaletta di stasera, pur nel poco tempo a disposizione, è un’ottima occasione per ripercorrere le tappe di questo percorso, con ripecaggi di canzoni che non venivano suonate da tempo come “Distortion Sleep” o “Exile” (rispettivamente da “Figure Number Five” e “Sworn To A Great Divide”), affiancate a classici moderni come le più recenti “Övergivenheten” e “Stålfågel”.
Purtroppo, a causa dell’embargo ai fotografi, abbiamo avuto modo di assistere solo alla prima metà dello show, ma per quanto visto e sentito il tiro è rimasto quello dei giorni migliori, per cui aspettiamo di rivederli presto in uno show da headliner (Riccardo Plata).
Sono le 20 e chi scrive ha appena varcato le soglie dell’Alcatraz dopo un’odissea di code e ricerca parcheggi comune a molti dei presenti, quando parte l’inconfondibile intro di “Cloud Connected”. Ci dev’essere un errore, com’è possibile che sia già la fine del set?
La prima persona che incontriamo ci conferma il contrario: a sorpresa gli IN FLAMES sono partiti con uno dei loro principali cavalli di battaglia! Ma non finisce qui, perché la seconda traccia eseguita è la mega-hit da “Come Clarity”, la sola e unica “Take This Life” in genere posta come ultimo encore. Friden e soci si sono ammattiti? Avete mai sentito gli Slayer aprire con “Raining Blood” e “Angel of Death”? Il pubblico è investito da una scarica di adrenalina pazzesca e il frontman, sotto il suo immancabile cappellino, se la ride sornione.
Una mossa del genere non è davvero frequente, cancella quelle sicurezze e quelle abitudini del ‘manca ancora’ insite nella testa dell’ascoltatore e movimenta, con grande sfoggio di sicurezza nei propri mezzi, l’ennesima calata italica della band. Forse è il sano spirito di competizione in un tour da co-headliner, fatto sta che la partenza da zero a cento ha acceso immediatamente un Alcatraz che sfiora il sold-out.
Questa variazione inedita ci mostra però un fatto innegabile, e non parliamo della resa live di un gruppo che, sostituzione dopo sostituzione, si è circondato da musicisti infallibili: ribaltare la scaletta è un trucco che si possono permettere in pochi.
Togliere di mezzo “Cloud Connected” e “Take This Life” nei primi minuti ci fa ricordare quante canzoni maiuscole gli In Flames abbiano in repertorio: così “Deliver Us”, “Paralyzed”, “In The Dark” e le successive, sostenute dalla botta di adrenalina iniziale, si mostrano per gli ottimi pezzi che sono e ci ricordano quanti bei brani e quanti bei dischi questo set di soli successi può celebrare. Prima di “Trigger” e “Only for the Weak”, eseguite a metà setlist, sono tanti i brani ad essere cantati a pieni polmoni dal pubblico; un estratto o poco più da quasi tutti gli album in discografia, a testimonianza di un catalogo spesso sottovalutato a causa delle ripetute e obsolete accuse sulla voce di Friden, a volte sforzata ma del tutto efficace, e dell'”erano meglio i vecchi In Flames“, mantra del tutto soggettivo, peraltro smantellato successo dopo successo.
In un contesto in cui la scenografia è secondaria e gli effetti speciali sono ridotti all’illuminazione, il set è portato a casa da una band affiatata e felice di stare sul palco, dove l’ex Megadeth Chris Broderick è ormai di casa, coccolato dalle battute del frontman, e anche il più recente ingresso Liam Wilson (bassista noto per la permanenza nei The Dillinger Escape Plan) ha modo di far bella figura.
Il finale? “The Mirror’s Truth”, “I Am Above” e “My Sweet Shadow” compongono una tripletta solidissima che chiude un concerto ‘greatest hits’ davvero divertente, in cui la coppia Björn Gelotte/Anders Friden si dimostra davvero dominante (Maurizio “Morrizz” Borghi).
Dopo lo show come quello dei co-headliner non è un compito facile quello che attende gli ARCH ENEMY, il cui ingresso sul palco viene ritardato di una decina di minuti rispetto alla tabella di marcia.
Sono dunque da poco passate le dieci di sera quando, sulle note di “Ace Of Spades” la formazione capitanata da Michael Ammot prende posto sul palco sulle note di “Deceiver, Deceiver”, traccia d’apertura dell’ultimo disco che mostra subito un buon tiro e procede senza intoppi, nonostante a un minuto dalla fine il palco si faccia completamente buio.
Quello che all’inizio sembrava un effetto speciale si rivela in realtà un guasto tecnico alle luci che richiederà una pausa di circa venti minuti, ma soprattutto alla ripresa saranno in funzione soltanto le luci posteriori, creando un effetto ‘intimo’ in sala con la band in penombra e priva per buona parte dello show degli effetti speciali.
Per fortuna l’impianto audio non ha avuto contraccolpi, e da questo punto di vista i cinque possono mettere in palco tutto il loro arsenale: l’ex Carcass resta come sempre il fulcro della band sciorinando assoli come su disco, mentre gli altri tre strumentisti svolgono bene il loro compito pur senza strafare (soprattutto il chitarrista Joey Concepcion, che non ha la presenza scenica di Jeff Loomis); per quanto riguarda Alissa White-Gluz, invece, la prova vocale resta notevole (al netto di qualche incertezza sul pulito), mentre a più riprese sembra giocare come il gatto col topo, alternando spaccate a ridosso della prima fila a momenti in cui quasi sparisce alla vista di fianco alla pedana della batteria.
La scaletta, come prevedibile, pesca a piene mani dagli ultimi due lavori, al punto che complice la pulizia del suono e la penombra, sembra quasi di sentire una playlist con i singoli di maggior successo del periodo 2017 – 2022 (“House Of Mirrors”, “Sunset Over The Empire”, “First Day In Hell”, “The Eagle Flies Alone” e “The World Is Yours”).
Ad anticipare il nuovo album in uscita tra qualche mese c’è invece spazio per un nuovo singolo (“Liars & Thieves”) che non si discosta molto dai precedenti e dà adito ad un tiepido circle-pit, mentre per il problema tecnico occorso in precedenza viene verosimilmente tagliata “Dream Stealer”, altro estratto del prossimo “Blood Dinasty”.
Andando a ritroso, dall’era Gossow vengono ripescate la rocciosa “My Apocalypse”, resa ancora più letale dai fumogeni di scena squarciati dalle luci dei cellulari, la sempre divertente “No Gods No Masters”, capace di far saltare tutto l’Alcatraz (nel frattempo nuovamente illuminato a giorno) e “Nemesis”, tra le migliori della serata insieme a “War Eternal”.
Purtroppo vengono saltati a pie’ pari “Wages Of Sin” (eccezion fatta per la breve strumentale “Snow Bound”) e “Burning Bridges”, mentre anche “Fields Of Desolation” (ripescaggio da “Black Heart”) viene anch’essa tagliata per rispettare il coprifuoco milanese.
Nell’esprimere un giudizio è necessario sicuramente tenere conto delle difficoltà tecniche non dipendenti dalla band, ma per quanto siano stati professionali e formalmente perfetti il derby svedese con gli In Flames può dirsi vinto a mani basse da Friden & Gelotte, meno integerrimi ma decisamente più coinvolgenti sia nello show che nell’interazione con il pubblico. (Riccardo Plata)
IN FLAMES
SOILWORK