Report e foto di Riccardo Plata
Nella prima serata sanremese va in onda all’Alcatraz quello che potremo definire un ottimo pacchetto di mischia tra big (gli Architects), giovani promesse già affermate (Spiritbox) o in rampa di lancio (Loathe), con la curiosità in particolare per questi ultimi al debutto su un palco ‘major’ nel capoluogo lombardo.
Non stupisce dunque trovare il locale già bello pieno alle sette in punto, con un’Alcatraz stipatissimo nonostante il formato inedito (il mixer è posizionato a lato del palco e non a centro pista), creando una condizione ideale per i circle pit, che non mancheranno nel corso della serata. Tra metalcore, nu metal, djent e alternative, prende dunque il via alle sette una serata in cui le due parole chiave sono ‘contaminazione’ e ‘modernità’…
(N.B. non è stato possibile fotografare il concerto degli Spiritbox su richiesta della band)
È un set minimale quello che accoglie i LOATHE (mezzo palco a disposizione a causa dei videowall alle spalle e luci particolarmente buie), ma la band inglese non ha bisogno degli effetti speciali per impressionare un pubblico caldissimo già da quando dalle casse risuona il “Nessun Dorma” di Puccini, avvertimento più che mai superfluo.
Vedendo il locale strapieno in ora aperitivo e i cartelli a loro dedicati, è facile pensare buona parte del pubblico sia qui anche per i Loathe, e l’impressione trova presto conferma nel caos che scatenano tra le prime file “Gored” e “New Faces In The Dark”, tra bordate metalcore e improvvisi squarci melodici degni dei migliori Deftones.
Il frontman Kadeem France si muove tarantolato e impressiona sia a livello fisico che vocale, mentre i suoi tre compagni di palco sono decisamente più rilassati a livello posturale, ma non per questo meno efficaci nella resa sonora: se a sorpresa “Dance On My Skin” vede sul palco anche il guitar tech, con l’intro shoegaze di “Is It Really You” abbiamo modo di apprezzare il chitarrista Erik Bickerstaffe in veste di co-protagonista alle voci pulite, accompagnato per l’occasione dalle luci dei cellulari.
Finale col botto sulle violenti note della deftoniana “Heavy Is the Head That Falls With the Weight of a Thousand Thoughts”, su cui il primo circle pit della serata va a chiudere una mezz’ora ad altissima intensità. In attesa di rivederli con un set più lungo (il successore di “I Let It In and It Took Everything” dovrebbe vedere la luce a breve), possiamo parlare di una gradita conferma per una band che in madrepatria è già nel giro che conta.
Dopo un sold-out al Legend e una data all’Alcatraz la scorsa estate, siamo al terzo show milanese in meno di due anni per gli SPIRITBOX, ma stavolta c’è la novità dell’EP “The Fear Of Fear” che va ad arricchire una scaletta in precedenza basata in larga parte sul full-length di debutto. La partenza tiratissima con “Cellar Door” non lascia alcun dubbio anche sul tiro live della band canadese – incredibile davvero il wall of sound generato dalla sola chitarra di Mike Stringer, così come il ruggito che esce dai polmoni di Courtney La Plante, anche se il massiccio utilizzo dell’elettronica avrebbe meritato un tastierista dedicato – ma con le aperture melodiche della successiva “Jaded” viene alla luce anche il lato più alternative della band, forte anche dell’aiuto ai cori dell’ex bassista degli As I Lay Dying Josh Gilbert.
L’alternanza in scaletta tra brani più djent/core ed altri più alternative verrà pressoché rispettata in tutti i dieci pezzi a loro disposizione, dai breakdown micidiali di “Angel Eyes” ed “Hurt You” ai salti ritmati di “The Void”, ma tra una canzone e l’altra non possiamo fare a meno di notare come Courtney vada a dissetarsi, limitando al minimo le interazioni col pubblico nella prima parte dello show.
Solo verso la fine, per ammissione della stessa cantante, avremo modo di capirne il motivo: arrivata alla data odierna in condizioni non ottimali aveva quasi pensato di rinunciare allo show, ma è stata convinta da Sam Carter ad esibirsi per non tradire l’amore dei fan, che in cambio le tributano uno degli applausi più sentiti della serata. Sciolta la tensione, il finale è un crescendo di emozioni: dopo aver raccolto una giacca gialla lanciata durante “Yellowjacket”, con “Circle With Me” la cantante si lancia in un balletto sul palco insieme ai compagni di band, prima di far esplodere la platea con i pezzi diventati immediatamente di culto “Holy Roller” e “Hysteria”.
Impressionante anche l’operato del batterista Zev Rosenber, capace di funambolismi pur con un drum-kit che oseremmo definire minimale, ma tutta la band stasera ha regalato uno show da ricordare pur nel ruolo di gruppo spalla e in condizioni di forma precarie, confermando a pieno voti la fama di ‘Next Gen’ ed alzando ulteriormente un’asticella già posizionata in alto dai Loathe.
Dopo una doppietta di gruppi spalla del genere non è un compito facile quello che attende gli headliner, ma gli ARCHITECTS ormai da qualche anno sono teste di serie della Premier League musicale (anche se stasera Sam Carter indossa la maglia numero 7 della Nazionale italiana, personalizzata col suo nome). Dopo l’esibizione più ‘beatlesiana’ al Knotfest stasera si respira un’aria maggiormente old-school, nonostante la scaletta sia incentrata per più di metà sugli ultimi due lavori (con “For Those That Wish To Exist” a fare ovviamente la parte del leone).
Sulle note di “Don’t Stop Me Now” dei Queen si spengono le luci e parte lo show con l’ultimo singolo “Seeing Red”, furbescamente a metà tra vecchio e nuovo corso nel suo mescolare i classici ‘bleagh’ con i cori dell’Antoniano dei Bring Me The Horizon. Detto che il pezzo dal vivo rende alla grande, così come “Deep Fake”, è impressionante anche il colpo d’occhio offerto dal palco a tre livelli, con al primo piano la batteria di Dan Searle affiancato da ben due tastiere, cui si alternano il veterano bassista Ali Dean e il chitarrista/tastierista Ryan Burnett. Con tre potenziali chitarre – compreso il turnista Martyn Evans a sostituire il defezionario Josh Middleton – si capisce come il muro sonoro non possa che essere massiccio, e ne abbiamo conferma definitiva nella parte centrale, dove trovano posto il metalcore più old-school di “Hereafter”, “Gravedigger” e “Doomsday”, dedicata allo scomparso Tom Searle.
In mezzo a tanti effetti speciali, dai lead wall al lancio di coriandoli che accompagna “Dead Butterflies”, l’elemento catalizzatore resta sempre e comunque un visibilmente soddisfatto Sam Carter, comandante in capo che dall’alto della balconata sopra la batteria tiene in pugno il locale facendo saltare migliaia di persone su “Little Wonder” (con la classica gimmick del “tutti giù per terra”) e causando un maremoto di corpi con “These Colours Don’t Run With”, apice del circle pit grazie anche all’ausilio di Kadeem France dei Loathe.
In una perfetta struttura a chiasmo, dopo l’incipit recente e il tuffo negli album più vecchi, sul finale si torna ai giorni nostri con “A New Moral Ground” e “Meteor” prima di far sgolare tutti gli astanti con una travolgente versione di “When We Were Young”, paracula finché si vuole ma dannatamente divertente da cantare a squarciagola. Dopo aver costretto i buttafuori a fare gli straordinari – dalla nostra posizione al lato del palco avremo contato decine e decine di stage diving – c’è ancora tempo nei bis per il ripescaggio di “Nihlist” e una travolgente versione di “Animals”, canzone simbolo del nuovo corso della band di Brighton. Difficile a fine serata eleggere un MVP, per la gioia del pubblico che siamo sicuri avrà fatto fatica a prendere sonno dopo una simile scarica di adrenalina.
ARCHITECTS
LOATHE
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