Report a cura di Giovanni Mascherpa
A coronamento di un’intensa stagione di festival, culminata con le esibizioni all’Hellfest e a Wacken, gli Armored Saint celebrano questo impegnatissimo 2015, anno in cui hanno dato alla luce l’eccellente “Win Hands Down”, con la registrazione del loro primo live dvd ufficiale. A inizio agosto, ci troviamo allora a celebrare questo act leggendario, mai abbastanza osannato dal grosso dell’audience metal – per ragioni, francamente, indecifrabili – in un concerto di novanta minuti tondi, pensato apposta per mettere su dischetto ottico con suoni e immagini cristallini tutta la carica live e la classe sconfinata del Santo per antonomasia. L’evento si tiene al Backstage, in una zona semicentrale di Monaco di Baviera, locale dotato di tre sale di diversa capienza e di un’accogliente area esterna, nell’ambito del Free & Easy Festival, festival gratuito che regala notti di festa ai bavaresi dal 22 luglio all’8 agosto, ospitando nomi che vanno dal metal estremo al pop commerciale. Gli Armored Saint vanno in scena sull’Halle, posto dalle dimensioni relativamente contenute, che si rivela ideale per creare un’atmosfera molto calda senza sacrificare la vivibilità per gli spettatori. Quando arriviamo in loco, ci rendiamo conto che non saremo in tantissimi a godere di una serata tanto esclusiva, ma che la maggioranza dei presenti è consapevole di trovarsi a un appuntamento storico, più unico che raro: mai viste così tante magliette degli Armored Saint tutte assieme, alcune risalenti a tour piuttosto datati, e anche l’età media comprende quasi esclusivamente ragazzi oltre i trent’anni, in netta contrapposizione con il frequentatore medio del Backstage in questo periodo estivo, collocabile in un fascia d’età fra i venti e i venticinque anni. Seguiamo distrattamente soltanto uno dei gruppi di supporto, i Mystic Prophecy, autori di un’onesta prestazione a base di operaio power metal teutonico, scontato quanto si vuole ma che davanti ai supporter locali – guai toccare le band di casa ai tedeschi! – si permette perlomeno di scatenare un’apprezzabile partecipazione emotiva. Niente di che, in ogni caso, solo un piccolo riscaldamento nell’attesa del momento clou della giornata.
Dieci e mezza in punto, i teli neri posti a davanti al palco si aprono e gli Armored Saint si manifestano. Non ci sono transenne e non c’è spazio fra pubblico e band, la vicinanza è totale e cogliamo nell’aria una positiva frizzantezza, la febbrile attesa di chi si aspetta di vivere una notte magica. La titletrack di “Win Hands Down” fa esplodere i primi cori e battimani, l’ottimo impianto dell’Halle dà prova di reggere l’impeto esagerato dei californiani, che entrano immediatamente in temperatura e trasformano in qualcosa di ancora più splendido il già ottimo pezzo che stanno suonando. “March Of The Saint” è il primo serio attentato alla salute delle nostre gole, il controcanto di Vera e Duncan strappa una risposta tumultuosa dai presenti, attorno è tutta un’estasi, un’attesa snervante (per alcuni si parla di decenni) ripagata con gli interessi. “Nervous Man” mantiene alto il tasso di eccitazione, si vede che jet-lag, ritardi aerei (se ne sono scherzosamente lamentati i musicisti stessi sul loro profilo Facebook), spostamenti in terra tedesca non hanno influito sulla verve del gruppo. A differenza di più celebri coetanei usi a stucchevoli autocelebrazioni, gli Armored Saint pensano soprattutto a suonare, anche se sono bravissimi nel dialogo con i propri affezionati: nelle pause, ascoltando Bush scherzare e ringraziare chi ha voluto partecipare a quella che è di fatto l’unica data da headliner su suolo europeo, si percepisce una genuinità non così semplice da rintracciare in musicisti di fama e con una lunga e fruttuosa carriera alle spalle. Superato l’unico estratto da “Revelation”, “Pay Dirt”, si alza il tiro con le emozioni, andando verso la malinconia insanabile di “Last Train Home”. Brividi veri ci scorrono dappertutto durante l’esecuzione, uno sguardo dentro se stessi e alle motivazioni sottostanti le proprie azioni cui il Santo ha dato sempre più spazio col passare degli anni. Una maturità di pensiero che si riflette nell’impegnata “An Exercise In Debauchery”, analisi del singer sugli effetti della dipendenza dalla pornografia (quando Bush scandisce la parola ‘pornography’ parte un boato, chissà come mai…). Bush, camiciona biancoazzurra a quadri di ordinanza aperta su canotta bianca – stesso identico look dell’Hellfest – sfodera una voce pazzesca, che non teme confronto con quanto si ode nelle prove in studio. Testa all’indietro, occhio socchiuso, rapito dalla sua stessa voce e dalle tonanti noti dei compagni, il frontman si produce nelle urla alte e maschie che abbiamo imparato a riconoscere in ogni sfumatura, strofa per strofa, chorus per chorus. I tedeschi non saranno mai maestri di mosh, ma se si tratta di mostrare affetto per una band, sono imbattibili: buona parte dei testi, non solo i refrain, sono cantati a memoria dal pubblico, che nonostante l’imperiosa vocalità Bushiana va a volte quasi a sovrastare quanto arriva dal palco. Dopo un paio di canzoni elaborate, dalla costruzione peculiare e unica in ambito heavy metal, si cambia registro chiamando in causa uno degli inni supremi dei cinque: “Raising Fear”! Jeff Duncan e Phil Sandoval non saranno mai abbastanza incensati per quello che sanno combinare, unendo blues, rock’n’roll, fusion all’interno di un guitarwork di acciaio blindato. Vera si muove sinuoso, serpente a sonagli dal morso letale, a tempo con le sfavillanti combinazioni ritmiche estratte dal suo strumento. Gonzo pesta preciso sulla batteria, abbiamo quasi la percezione che aumenti la potenza del tocco con il trascorrere dei minuti, prestandosi anche a uno stage acting più ‘preso’ e infuocato. “Dropping Like Flies” irrompe con le sue stimmate veracemente hard rock, nel tripudio generale, lasciando poi spazio a una piccola pausa, durante la quale Bush fa prima un po’ il brillante e poi richiama tutti alla serietà, introducendo “Mess”, uno scorcio di coraggiosa positività, specchio del tema, molto caro al singer, del rispetto del pianeta. Lo stacco quasi thrash poco oltre la metà, doppiato da un accenno di tribalismi di Gonzo, è uno degli attimi a più alto carico di energia del concerto. Spettacolare l’intreccio fra cori e voce principale, a cui segue un altro dei pezzi clou dell’ultimo scorcio di carriera, “Left Hook From Right Field”, dove Bush scompare per qualche istante dal palco, per lasciare la scena ai compagni durante l’irresistibile apertura. Nelle pose, nella facce di tutti i membri della band, nel modo in cui cercano le prime file, lì a un centimetro da loro, cogliamo tutta la passione che guida questi uomini dagli esordi e non li ha mai abbandonati. Mentre Bush guarda le casse provando a capire se vi siano appigli per una scalata sulle medesime, tipo quella affrontata con successo all’Hellfest – niente da fare stavolta, non ci sono né spazio né appoggi sufficienti – si va veloci verso la conclusione. “Aftermath” con le sue prolungate perifrasi strumentali si concede a una relativa rilassatezza, “Reign Of Fire” è invece il detonatore per un headbanging indiavolato, Bush libera tutti i ‘cavalli’ della sua voce per una delle tracce più travolgenti scritte dagli americani in carriera. “Can You Deliver”, fra piogge di finti dollari con l’effige della band lanciati dal soppalco, chiude la parte ‘regolare’ dello show. Al ritorno, ecco una tripletta mostruosa, tutta all’insegna della velocità e dei riff arrembanti: prima “Chemical Euphoria” (il titolo dice tutto, uno di quei pezzi capaci di provocarvi scapocciamento dissennato anche su un treno di pendolari affollato), quindi “Long Before I Die”, superba; infine la track che il 99,9% dei presenti supponeva sarebbe stata posta come chiusura: introdotta da un ‘siete pronti a entrare in manicomio?’ da parte di Bush, è “Mad House” a sparare gli ultimi botti. I cori di richiamo continuano anche al momento dei saluti, ma non c’è davvero più tempo. Un commento finale? Lacrime, lacrime di gioia sacrosante e doverose. Gli Armored Saint hanno ricevuto troppo poco per il valore dei loro dischi, insieme a Savatage, Riot, Manilla Road, rientrano nella categoria degli ‘intoccabili’, molto più in alto di tante pseudo starlette da strapazzo diventate fintamente importanti per qualche azzeccato singolo. Almeno per una sera, davanti a una platea realmente appassionata e preparata, Bush, Vera, i fratelli Sandoval e Duncan hanno potuto giocare nel ruolo che gli spetta di diritto: quello delle superstar. Ed essere riconosciuti come tali.
Setlist:
Win Hands Down
March of the Saint
Nervous Man
Pay Dirt
Last Train Home
An Exercise in Debauchery
Raising Fear
Dropping Like Flies
Mess
Left Hook From Right Field
Aftermath
Reign of Fire
Can U Deliver
Encore:
Chemical Euphoria
Long Before I Die
Mad House