04/11/2010 - AS I LAY DYING + HEAVEN SHALL BURN + SUICIDE SILENCE @ Rockplanet Club - Cervia fraz. Pinarella (RA)

Pubblicato il 09/11/2010 da

Report a cura di Marco Gallarati
Foto di Emanuela Giurano

Serata di notevole richiamo, quella del 5 novembre scorso, al Rockplanet di Pinarella di Cervia, covo ormai riconosciuto di orde di giovanissimi death- e metal-corers locali, questa volta vistosi però invadere anche da nutrite rappresentanze extra-regionali. D’altronde, il terzetto di band in programma a questo giro è di quelli che non può non richiamare le (relativamente grandi) masse: gli As I Lay Dying sono fra i pochi gruppi a non risentire del calo di popolarità che sta subendo il fenomeno metal-core; gli Heaven Shall Burn sono in costante ascesa, sebbene qui in Italia non riescono ovviamente a riprodurre il seguito oceanico che hanno in patria; i Suicide Silence sono la formazione perfetta nella quale il giovane death-corer alle prime e anche seconde armi riesce ad identificarsi appieno. E quindi che altro fare, se non lasciare lo zaino in albergo, schizzare al locale fendendo una inquietante nebbia marittima, mangiare al volo due pizzette ed entrare nella bolgia?

 

 

SUICIDE SILENCE

E appunto, ci addentriamo nel Rockplanet che i Suicide Silence stanno suonando da circa cinque-dieci minuti. I californiani si trovano davanti un bel marasma di pubblico, appollaiato un po’ ovunque e appeso/innalzato in ogni dove si riesca a vedere qualcosa del palco. E’ quasi deprimente avere l’impressione che la maggior parte dei presenti alla venue sia qui principalmente per il giovane combo autore di “The Cleansing” e “No Time To Bleed”, album alfieri di un pesantissimo death-core costruito per esasperare il concetto di breakdown mosh, ma anche poveri di reali qualità e intuizioni compositive. La band riesce ovviamente a coinvolgere l’audience e, non tenendo conto dei suoni non ideali, bisogna dire che sa il fatto suo, nonostante un repertorio che definire ripetitivo è riduttivo. In mezzora di spettacolo, i Suicide Silence hanno quindi mostrato, nel bene e nel male, tutte le loro capacità. Inutile la richiesta di one more song spassionatamente chiesta dal moshpit, i tempi sono ristretti e con i soundcheck a cui avremo modo di assistere è davvero meglio così…

 

 

HEAVEN SHALL BURN

Si parte infatti con i quaranta minuti di soundcheck imbastiti dai tedeschi Heaven Shall Burn. Già con il cambio totale della batteria si prospettavano delle lungaggini, ma – ahinoi! – sono state le spie di una chitarra a dare più filo da torcere del previsto. Per fortuna la band di Saalfeld è decisamente esperta e preparata dal vivo, quindi riesce comunque a ripagare l’attesa con un concerto degno della sua fama, sebbene la struttura del Rockplanet, pur essendo 100% fucking hardcore, abbia delle notevoli lacune tecniche. Inutile dirvi che, con negli occhi e nelle orecchie del sottoscritto le performance tenute dagli HSB nei vari Summer Breeze, l’esibizione in terra romagnola di Marcus Bischoff e compari è risultata leggermente sottotono e molto meno esplosiva. Setlist incentrata prevalentemente sugli ultimi due lavori del gruppo, quegli “Invictus” e “Iconoclast” che hanno sancito il suo successo internazionale. Non hanno trovato posto diversi brani già vecchi di qualche anno, come ad esempio “The Only Truth” e “Architects Of The Apocalypse”, mentre sono stati tagliati i masterpiece “The Weapon They Fear” e “Behind A Wall Of Silence”, per permettere invece la proposizione di episodi obiettivamente più deboli, quali “Return To Sanity” e “The Lie You Bleed For”. Ma non temete, c’è stato anche tempo di ammazzarsi per bene grazie alle devastanti “Counterweight”, “Voice Of The Voiceless” e soprattutto “Endzeit”, accolta con tripudio da tutto il locale, posers esclusi. Finale affidato come al solito a “Black Tears” degli Edge Of Sanity e mega-surfcrowding di Marcus sulle prime file! Show positivo, quindi, ma anche un pelo deludente per gli Heaven Shall Burn. E ora mettiamoci comodi nell’attesa degli headliner…

 

AS I LAY DYING

…già, perchè anche per la formazione di San Diego, California, il soundcheck risulta di quelli epici. Cambio della batteria, problemi vari, attese inspiegabili, una coppia di fonici degni per indecisione dell’altrettanto indeciso duo Fantozzi-Filini…insomma, un’attesa a dir poco sfiancante! I suoni però, dopo quaranta minuti di calibrazioni, saranno perfetti, direte giustamente voi! Ma manco per idea: dopo il breve intro, ecco la classica apertura affidata a “94 Hours” annegare in un ronzio bassissimo e ovattato che definire suono metal è pura follia. Trenta secondi per tirar su i volumi e capiamo finalmente qualcosa, sebbene la voce di Tim Lambesis sia probabilmente rimasta incollata alla piadina con squacquerone consumata al pomeriggio (è solo un’ipotesi, tranquilli). Tecnicismi e quisquilie a parte, cerchiamo di rientrare nei soliti ranghi professionali: il discusso “The Powerless Rise” è uscito da un bel po’ ormai e, dopo averli visti belli pimpanti al Gods Of Metal 2010, ritroviamo Jordan Mancino e soci ansiosi di fare bella figura in questo tour da co-headliner con gli Heaven Shall Burn. Lambesis, che dal vivo sinceramente non ci ha mai fatto strappare i capelli, ce la mette tutta per non stare fermo un attimo, ma è inevitabile notare come all’arrivo delle clean vocals di Josh Gilbert (playback?) tutta la band si renda conto che quelle parti risultano ai più forzate, nonostante il pubblico canti all’unisono con i due singer. L’ultimo disco e “An Ocean Between Us” vengono per così dire saccheggiati, facendo fare a “Beyond Our Suffering”, “Nothing Left” e soprattutto “Within Destruction” un gran bel botto. E’ però con “Through Struggle” e “Confined” che gli AILD sparano le loro cartucce migliori, almeno per chi scrive. Anche “The Sound Of Truth” è piaciuta parecchio, ma tirando le somme, se si spoglia la performance dai vari aspetti negativi fin qui descritti, si può pure dire che la band abbia tenuto un discreto spettacolo. Durato la miseria di cinquanta minuti, in effetti, ma vorrete forse chiedere di più ad un gruppo di giovani, forti e tatuati americani con alle spalle solo cinque dischi? Non sia mai.

 

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