SLOWMOTION APOCALYPSE
Solo mezzora di spettacolo per i friulani Slowmotion Apocalypse, saliti sul palco con trenta minuti di ritardo e fronteggiati da circa una cinquantina di astanti. Suoni potenti e ben bilanciati hanno fatto partire bene la performance, inaugurata da “Fuel For My Hatred”, uno dei cavalli di battaglia di “Obsidian”, l’ultimo disco dei ragazzi. Il thrash-death con reminiscenze hardcore di Alberto Zannier e soci non fa una piega e, sebbene non tutti i presenti conoscano la band, quest’ultima non ci ha messo tanto a farsi apprezzare ed applaudire. “More Horror Is To Come”, “Burial”, “The Blessing” e la chiosa di “Back From The Grave” hanno preparato bene il terreno a Neaera ed As I Lay Dying e hanno confermato la bravura e la professionalità dei nostri portabandiera. Ci si aspettava la cover di “Be Quick Or Be Dead” degli Iron Maiden, ma niente da fare, probabilmente il giovane pubblico non avrebbe apprezzato a dovere il pezzo (o forse sì?). Comunque sia, bella prestazione. Alla prossima, Slowmotion!
NEAERA
I Neaera – nome che, a quanto pare, si pronuncia ‘niira’ – assieme ai Machinemade God e a qualche altra formazione, sono fra le migliori seconde linee del tellurico movimento metal-death-core tedesco, il quale vede Caliban, Maroon e soprattutto Heaven Shall Burn primeggiare un po’ in tutta Europa. Tre dischi in quattro anni, in un crescendo di violenza stilistica, sono già un bel biglietto da visita e così, quando i cinque ragazzi sono partiti con le loro micidiali scariche di riff, i primi temerari mosher hanno iniziato a scaldarsi per bene. Benjamin ‘Benny’ Hilleke, il classico frontman hardcore dal collo taurino, ha guidato i suoi compagni attraverso una setlist poderosa e senza un attimo di respiro: la band si è dimostrata discretamente brava nella riproposizione di brani ben strutturati quali “Let The Tempest Come”, “Scars Of Gray”, “Synergy” e “The World Devourers”, ma bisogna anche dire che, a ben sentire, ha rischiato di stancare in fretta, dopo solo una ventina di minuti di musica. Infatti, i Neaera non hanno particolarmente brillato per dinamismo e scioltezza on stage: troppo statici i tre strumentisti – peraltro pettinati in modo indecorosamente uguale, à la Duran Duran – troppo monotona la valanga di riff blackish alternati ai rallentamenti mosh, troppo ripetitivi i growl e gli scream di Hilleke. Oddio, nulla di vomitevole, sia chiaro…ci si diverte pure parecchio con il quintetto germanico, però va preso a piccole dosi, questo sì. Un ultimo appunto al cantante, giusto per spirito tricolore: bastava poco per riuscire a sapere il nome della band che ha preceduto il loro show; dire ‘un applauso agli Slowmotion Apocalypse’ sarebbe stato molto più carino che blaterare un quasi obbligato ‘un applauso alla prima band che ha suonato’. Bah…
AS I LAY DYING
A tratti impressionanti per fisicità, professionalità e capacità di muoversi sul palco, gli As I Lay Dying hanno offerto una prova davvero ottima e convincente, un’ora di mosh-core melodico di pura classe, resa tumultuosa dalla calorosa partecipazione della solita ventina di pogatori d’assalto, esaltati soprattutto dai breakdown assassini del combo di Los Angeles. C’era grande curiosità di sentire come se la sarebbe cavata il bassista-vocalist Josh Gilbert nell’esecuzione delle discusse voci clean presenti in abbondanza in “An Ocean Between Us” ed, in minor parte, in “Shadows Are Security”: sufficiente la prova di Gilbert, anni-luce migliore del suo collega Calibaniano – un paragone a caso – ma a volte un po’ insicura e sempre lontana dalla perfezione; Tim Lambesis spesso è intervenuto a sostegno del compagno, comunque tutto sommato non si è trattato di una grossa limitazione alla buona riuscita dello show. Show che è stato aperto, dopo l’intro “Separation”, dalla bella “Nothing Left”, subito seguita dal mini-classico “Forever”, il quale ha immediatamente istigato alla violenza gli animali del moshpit. Tempo di sistemare bene suoni e volumi, di far scaldare la voce al puritano Tim ed ecco gli As I Lay Dying inanellare una sequela devastante di pezzi magnifici: dall’annichilente “Distance Is Darkness” alle bolge di “Meaning In Tragedy” e “Through Struggle”, dai balli di “The Darkest Nights” ai più nuovi “Within Destruction” e “The Sound Of Truth”, fino al momento dolciastro di “I Never Wanted”. Brevissime pause hanno interrotto di tanto in tanto una performance altrimenti inarrestabile, condotta da un Lambesis cordiale, simpatico e scatenato. E’ mancata anche, con somma gioia di chi scrive, la scenetta della chiamata per i bis, visto che gli encore sono stati introdotti dall’intermezzo strumentale “Departed”: “94 Hours” è esplosa quindi in un tripudio di salti e fendenti, probabilmente il brano più pogato della serata, seguito poi dalla conclusiva e stremante “Confined”. Null’altro da dire, quindi, su questo spettacolo in definitiva semplice e con pochi fronzoli, ma studiato e preparato fin nei minimi dettagli e tremendamente coinvolgente. As I Lay Dying quasi perfetti.