A cura di Giovanni Mascherpa
In ambienti alternativi, quanto combinato da Tristan Shone e le sue macchine autocostruite sfiora oramai il leggendario: l’ingegnere americano ha assemblato una serie di aggeggi affascinanti, che gli permettono di sfogare la sua personalità contorta in un suono industrial tra i più raccapriccianti in circolazione. Qualcosa che mette a dura prova anche chi mastica abitualmente le commistioni uomo-macchina di maggiore devianza e ha costituito in questi anni un caso pressoché unico nel panorama musicale internazionale. Raffrontarsi alla concezione sonica degli Author & Punisher, progetto che vede il solo Shone occuparsi di ogni aspetto sonoro, significa confrontarsi con la fonte dell’estremo dolore, la causa intrinseca del rumore fine a se stesso, l’apoteosi della distorsione del suono in un maglio di nausea, schizofrenia e abominio avente nulla a che spartire con una normale concezione di musica, per quanto sovrabbondante di follia essa possa essere. Tale è l’eco dell’estro di Shone e la curiosità, generata dai terrificanti video dei suoi live, di vedere come possa un uomo soltanto causare cotanta scabrosa flagellazione uditiva, che una buona cinquantina di persone si presenta al Magnolia per godersi (si fa per dire…) una delle esperienze live meno rassicuranti che si possano trovare in circolazione. Tanto per ribadire che la sopravvivenza neuronale sarà messa a durissima prova, in apertura ecco un altro saggio di eccentricità con la chiptune di Arottenbit, progetto di musica elettronica generata col mero ausilio di Game Boy!
Con qualche minuto di ritardo sul programma, ecco salire sul palco il barbuto protagonista di Arottenbit, viaggio a trecentosessanta gradi in un universo digitale che ha nella musica per videogiochi, ripassata in acidi pesanti, la sua genuina espressione. Il ragazzo, spesso dietro il mixer del Lo-Fi per alcuni dei concerti più importanti offerti dal locale milanese di zona Rogoredo, concepisce la sua performance come uno spaccato di vita dove lasciarsi completamente andare e scuotersi allo sfinimento nella matassa di beat rimbalzanti generati dalla console portatile più famosa della storia. Sul tavolo di fianco ai macchinari di Shone, che sembrano osservarci severi come strumenti di tortura a riposo, sono predisposti tre Game Boy, alternati nell’utilizzo in modo tale da avere già uno ‘strumento’ disponibile mentre uno degli altri due, provvisto delle sue schedine di campionamenti, sta finendo di risuonare all’interno di un dedalo di rumori incespicanti, zuccherosi e durissimi che rimanda inevitabilmente alle atmosfere ludiche di Super Mario Bros e Pac-Man. Presi un po’ alla sprovvista da sequenze di colpi birbanti, quasi infantili ma risuonanti con l’impeto di un esattore della malavita che spezza rotule dalla mattina alla sera, i presenti osservano straniti e divertiti il dimenarsi da hardcore-hero del personaggio dietro Arottenbit, che accenna anche un po’ di pogo scendendo dal palco e spintonando chi gli capita a tiro. Nonostante la stranezza e la poca dimestichezza col genere, la mezz’ora di gommosità roteanti in un flusso di bit instabile come una matrice di dati in liquefazione su uno schermo in crash risulta godibile, per nulla autoincensante o supponente. Difficile che su disco un tale marasma sintetico possa colpire con la stessa forza dei live, ma restiamo curiosi di sentire il primo album del manipolatore sonoro meneghino per capire quanta sostanza e longevità possa avere il progetto.
AUTHOR & PUNISHER
Val la pena, prima di provare a descrivere cosa possa rappresentare un concerto di Author & Punisher, procedere a un piccolo inventario di quanto presente sul palco. Dello sterminato parco macchine di Shone, al Magnolia mancano solamente le famigerate maschere, quelle che fanno sembrare il Nostro la vittima di qualche scherzetto dei film della serie di Saw L’Enigmista, e poco altro. Sullo stage posto nella nicchia in fondo al locale troviamo allora le throttles (lasciamo il nome inglese per tutti i marchingegni utilizzati per non scadere in grottesche traduzioni letterali), leve azionate per generare feedback gentili come un trapano di grandi dimensioni in funzione al massimo della potenza, posto a un centimetro dal vostro orecchio; il linear actuator, attrezzo di metallo in scorrimento su una guida, che battendo contro un’altra superficie metallica genera percussioni sferzanti come cento scudisciate elargite da una frusta in acciaio inox; il trachea quod mic, fasce incrociate sul collo che tramite le vibrazioni della gola producono inquietanti droni tremolanti; le rack and pinion, sostitute delle tastiere tradizionali, che all’apparenza sono delle semplici piastre in scorrimento su delle sbarre metalliche e in verità sono un complicato sistema atto a regolare stridori, grovigli di elettroni, spine di suono avvelenate raggrumate in antimateria ruvida e tagliente. La magnificenza visiva, l’impressione di essere sul set di un film di fantascienza, trova immediata corrispondenza nell’azione di Shone, che superato un problema tecnico nei primi minuti, legato pare a un irregolare funzionamento delle throttles, può sfoderare il meglio del suo repertorio. L’effetto è quello di un’atroce estremizzazione dei Godflesh più nauseabondi, o di un seppellimento dello sludge più tossico sotto una coltre di elettronica scabrosa, mutilata di quasi ogni orpello di musicalità. Le rack and pinion assumono quello che altrove sarebbe il ruolo delle chitarre, garantendo il contributo più sostanzioso al muro rumoristico in arrivo dal palco. Il suono è così aggressivo che sembra inglobarci nel suo nucleo, scavarci dentro con dei rostri d’acciaio dolorosissimi, dilanianti oltre ogni possibile sopportazione. La voce è scartavetrata da filtri stomachevoli, presenti nella particolare piastra microfono (headgear) deputata ad accogliere quanto proferito, dissezionarlo e risputarlo fuori ridotto a un biascicare ebete contro il mondo intero. Ad ogni cambio di effetto le sinapsi friggono, le orecchie si liquefanno, l’odio digitale ci assale e ci travolge, mentre il linear actuator martella il cranio in diversi punti contemporaneamente, spinto dal braccio destro di Shone. Notevole la coordinazione di tutti gli arti di questo ragazzo, che si muove con grande accortezza per non commettere errori, quasi con delicatezza su alcuni componenti del suo straordinario set tecnologico, riuscendo a non cadere nel caos, nonostante la sua musica bordeggi il puro rumore bianco dall’inizio alla fine. Qualche linea melodica apparirebbe pure, ma presto queste scompaiono, piccoli indizi di sensibilità subito inghiottiti da feedback, frecciate noise, percussioni disturbanti. La reazione del pubblico? Perché, si può forse reagire davanti a un tale olocausto? Si può subire, quello sì. Restare immobili, fra il terrorizzato e l’ammirato, e far passare la tempesta cercando di godere il privilegio di averla vissuta ed esserne sopravvissuti. Passata un’ora di martirio, nel quale i confini fra un brano e l’altro sono stati rappresentati solo da flebili pause, non da veri cambi di registro, Tristan saluta e stacca tutto. Le facce attorno sono abbastanza smarrite: va bene sapere a cosa si sarebbe andati incontro, ma un conto è viverlo in prima persona. E poterne quindi raccontare con ragion veduta.