Report di Riccardo Plata
Agli albori della loro carriera, quando ancora erano una tra le tante band melodic death in arrivo dalla Svezia, gli Avatar si erano fatti notare in apertura a gruppi tra loro molto diversi, dagli Hardcore Superstar agli Avenged Sevenfold, passando per gli Helloween.
Da una dozzina d’anni a questa parte, a partire da “Black Waltz”, i cinque di Gothenburg hanno iniziato a curare di più l’aspetto scenografico, introducendo il look da clown che da allora accompagna il frontman Johannes Eckerström, e soprattutto ad arricchire il proprio sound, divenuto uno strano miscuglio multiforme che mette insieme melodic death, groove metal, power prog, alternative, industrial e chi più ne ha più ne metta.
Un mix esplosivo che ne ha fatto una delle band di fascia media più appetibili nei festival, ma da gustare soprattutto come headliner: a sei anni dall’ultima apparizione all’Alcatraz, la calata milanese nella più intima cornice della Santeria Toscana è un evento imperdibile, e non stupiscono quindi nè il sold-out con largo anticipo e nè il locale pienissimo da subito, nonostante la pioggia che da giorni flagella la metropoli milanese.
Prima dello spettacolo circense, è tempo però di saggiare anche la resa live degli americani Æther Realm, apparentemente alla prima calata italica…
Mancano pochi minuti alle otto quando gli ÆTHER REALM prendono posto sul mezzo palco a loro disposizione, presentandosi sulle note di “Slave To The Riff”. Per quanto relativamente poco conosciuti a queste latitudini, i quattro sono in circolazione da più di dieci anni e possono vantare tre dischi su Napalm, tra cui l’ultimo “Redneck Vikings From Hell” rende bene fin dal titolo l’idea del genere suonato, ovvero un melodic death/viking metal che si presenta come una versione americanizzata degli Amon Amarth o dei Kalmah.
Purtroppo stasera l’impianto sonoro non sembra rendere giustizia alla formazione del North Carolina, e nonostante i quattro sul palco ci diano dentro, quello che arriva alle nostre orecchie è un sound piuttosto impastato in cui la cassa e le chitarre sovrastano la voce nel mix. In tutto questo abbiamo comunque modo di apprezzare i blast-beat di “Swampwitch” e gli assoli a profusione dei due chitarristi di “She’s Back”, mentre il pubblico non fa mancare il proprio incitamento fino ad accompagnare l’intera “Guardian” con un coro ad effetto unito agli accendini, al punto che sembra quasi di essere tornati all’epoca pre-smartphone.
Finale in crescendo con “THMC”, altro pezzo bodomiano ma del periodo “Hate Crew Deathroll”, e “The Sun, The Moon, The Star” con tanto di cornamuse in stile Alestorm, prima di congedarsi dopo tre quarti d’ora tutto sommato piacevoli ma un po’ confusionari dal punto di vista della resa sonora.
Svelato il tendone che copriva la scenografia, alle nove in punto il circo degli AVATAR apre le porte sulle note di “Dance Devil Dance”, traccia d’apertura dell’ultimo album omonimo, e tra fontane pirotecniche e ritmiche marziali sembra quasi di assistere ad una versione su scala e giullaresca dei Rammstein, con Johannes Eckerström che a più riprese beve da una tanica di benzina. A differenza dei tedeschi, però, gli svedesi cercano il contatto con il pubblico, e così fin da “The Eagle Has Landed” comincia uno spettacolo (di magia) nello spettacolo, con un frontman emulo del Joker che trova anche il tempo di stupire gli astanti – come quando fa partire il circle pit sulle note di “Chimp Mosh Pit” con un conto alla rovescia in perfetto italiano.
Al netto dell’ultimo album, la scaletta è un greatest hits che pesca a piene mani dal trittico d’oro (“Black Waltz”, “Hail The Apocalypse”, “Feathers & Flesh”) facendo cantare tutto il locale sulle note di “Paint Me Red” e “Bloody Angel”, mentre in “For The Swarm” riecheggia un eclettismo sonoro degno dei dei System Of A Down. Il momento clou arriva però durante “Puppet Show”, quando approfittando di un break strumentale il cantante scompare dal palco per poi riapparire in mezzo al mixer dove intrattiene gli astanti con palloncini da clown per poi accompagnare il pezzo con il trombone. Un colpo di teatro da mago Silvan, ma anche il resto della band mostra di essere ‘in parte’: dal batterista John Alfredsson che muove gli arti come un’automa alla coppia di chitarristi protagonisti di un’autentica ‘battle of guitar’ a metà spettacolo, permettendo ancora una volta a Johannes di scomparire ed apparire dentro un enorme pacco regalo da cui esce con un bel mazzo di palloncini manco fosse Pennywise.
In un format ben rodato c’è spazio anche per l’improvvisazione (come quando prima di suonare “The Tower” per voce e piano si lancia nell’attacco di “Anima Mia” dei Cugini di Campagna, canzone preferita della suocera), ma quando la band al completo si allinea sul palco (con una minibatteria suonata in posizione eretta) pestando duro con il simil industrial di “Colossus” e il basso slappato di “Let It Burn”, ci si chiede come mai non siano stasera in un locale grande il doppio di questo, anche se la dimensione più intima rende lo show ancora più speciale per i fortunati astanti.
Per non farsi mancare nulla c’è anche spazio per una parentesi techno (con tanto di balletto) prima di “A Statue For The King” (con uno dei due chitarristi vestito appunto da re) che trova continuità anche negli encore (curiosamente preceduti dal coro “Bilbo Beggins carabiniere” dei Nanowar Of Steel) con “The Dirt I’m Buried In”, prima del gran finale con “Smells Like a Freakshow” e “Hail The Apocalypse”, degna chiusura dopo quasi due ore ad altissima intensità.
A giudicare dai commenti raccolti a caldo dagli astanti, uno spettacolo (il termine ‘concerto’ suona perfino riduttivo in questo caso) decisamente da ricordare per una band se possibile ancora più istrionica dal vivo che su disco.