Report di Riccardo Plata
Fotografie di Pamela Mastrototaro
Sebbene le presenze degli A7X nel Belpaese abbiano ormai superato la doppia cifra, era da ben dodici anni che la band californiana non metteva piede in quel di Milano, tra concerti annullati, pandemie e apparizioni ai festival nel resto d’Italia.
C’era quindi grande attesa per questa calata meneghina, anche per poter saggiare dal vivo la resa dei pezzi di “Life But a Dream…”, ultimo disco che ha ulteriormente elevato lo status della band californiana nel panorama modern hard rock ed aggiunto l’ennesimo tassello ad una discografia sempre più camaleontica (dal metalcore degli esordi alla vena più psichedelica degli ultimi due lavori, passando per il glam/sleaze di “City Of Evil” e le sonorità ‘metallichiane’ di “Hail To The King”) .
Nonostante un affollamento di concerti da tangenziale all’ora di punta – in meno di due settimane abbiamo avuto da scegliere tra A7X, Korn, Slipknot, Deftones e Linkin Park… – l’affluenza al Carroponte si mostra massiccia ma commisurata alle dimensioni dell’area, per l’occasione senza pit o postazioni privilegiate, al netto delle due terrazze ai lati del palco.
Quando ancora il sole splende alto sul primo lunedì a scuole chiuse, ci accodiamo dunque ad una fiumana di gente di tutte le età in una coda lunga ma scorrevole, mentre un po’ a sorpresa (almeno per chi come noi si era documentato sulla pagina social dell’evento) iniziano a suonare le prime note del gruppo spalla…
Sono passate da poco le venti quando salgono sul palco PALAYE ROYALE, gruppo spalla annunciato un po’ in sordina – anche perché la band di Las Vegas supporterà circa la metà delle date europee – ma comunque utile a riscaldare la folla che pian piano si assiepa nel carroponte della ex Ansaldo Breda in attesa degli headliner.
Nei quarantacinque minuti circa a loro disposizione la band composta dai tre fratelli – un po’ come gli Hanson, per chi è cresciuto a pane e MTV d’annata – dà ampio spazio all’ultimo album “Death or Glory” e al loro best seller (“The Bastards”), fautori di un glam/alt-rock all’acqua di rose visivamente e musicalmente piacevole ma tutto sommato innocuo e dimenticabile nel giro di poco.
Remington Leith sa come intrattenere la folla sfoggiando gli addominali durante l’esecuzione di “Fucking With My Head” e “Mr. Doctor Man”, così come suo fratello Sebastian Danzig ha evidentemente sfogliato la collezione tutti i poster dei chitarristi dagli anni Settanta ad oggi, ma non bastano un giro in canotto sopra il pubblico e qualche battimani per rendicontare un’esibizione memorabile.
Possiamo parlare però di una gradevole brezza sonora, apprezzata dalla platea nel frattempo stipata fino alla zona mixer anche se molti preferiscono prendere da mangiare e bere nei numerosi punti di ristoro alla destra del palco.
Quando mancano un paio di minuti alle ventuno e trenta, e mentre il tramonto regala l’ultima suggestiva luce nel cielo milanese, parte la base di “Nightcall” (pezzo del DJ francese Kavinsky) e si leva una cortina di fumo per accompagnare l’ingresso sul palco degli AVENGED SEVENFOLD, che attaccano subito sulle note di “Game Over”: l’inizio per la verità non è dei migliori, con qualche problema nella resa sonora che penalizza soprattutto la parte rappata di M. Shadows (per l’occasione in passamontagna), ma le cose si mettono subito al meglio con la successiva “Chapter Four”, ripescaggio dal più datato “Waking The Fallen”, per poi prendere definitivamente il volo con la sempreverde “Afterlife”, in cui Synister Gates e Zacky Vengeance hanno modo di sfoggiare la loro chimica di coppia alla sei corde.
La prestazione musicale di M. Shadows, in passato non sempre ottimale, stasera si conferma perfetta su tutti i registri: la paracula “Hail To The King” – per chi scrive l’unico mezzo passo falso nella discografia della formazione californiana, un tentativo neanche troppo nascosto di replicare il “Black Album” – viene cantata e scandita a gran voce da tutto il pubblico, così come la vena progressive di “The Stage” rende ancora meglio che su disco, ma il momento più emozionante è quello che accompagna le canzoni tratte da “Nightmare”, chiusura di un trittico di album perfetti e primo disco dopo la tragica scomparsa del batterista The Rev.
“Buried Alive” e “Nightmare” vengono cantate a gran voce da tutto il pubblico, mentre “So Far Away” regala un momento da pelle d’oca, con la chitarra acustica e la dedica all’amico che ci guarda da lassù.
Nel mezzo il secondo e ultimo estratto dall’ultimo “Life Is But A Dream”, ovvero “Nobody”: l’effetto anche in questo caso è suggestivo, con Synister Gates sul palco da solo a sparare effetti pinkfloydiani dalla sua Schecter a sette corde in mezzo a giochi di laser e fumogeni, ma pur apprezzandone le qualità d’improvvisazione la resa in questo caso risulta subottimale rispetto alla versione su disco.
Poco male, perchè quello che ci attende è un gran finale con sorpresa, almeno guardando alle scalette delle precedenti date: “Not Ready To Die” e “Creating God” (al debutto in questo tour) scatenano una bella bolgia nelle prime file con le loro ritmiche più massicce, fomentate ulteriormente dal ripescaggio delle storiche “Bat Country” (accolta da un tripudio di smartphone) e “Unholy Confession”, con un accenno di mosh nelle prime file ed un breve ma intenso assolo del batterista Brooks Wackerman (ex Suicidal Tendencies e Bad Religion, a suo agio nel posto che fu di The Rev e Mike Portnoy); il tutto prima della chiusura in bellezza affidata alla minisuite “A Little Piece Of Heaven”, resa ancora più memorabile da un visual a metà tra Tim Burton e “American Psycho”.
Peccato per l’assenza di “Seize The Day”, o comunque per il poco spazio concesso a “City Of Evil”, ma al netto dei gusti personali possiamo parlare di un’ora e mezza di assoluto spessore per una band sempre più sulla cresta dell’onda: speriamo non debbano passare altre dodici anni prima di rivederli da headliner a queste latitudini.
PALAYE ROYALE
AVENGED SEVENFOLD