Report a cura di Marco Gallarati
Special 30-Years-Anniversary Intro di Fabio ‘Ray’ Angeleri
Foto di Lucia ‘Clopine’ Colombo
Nata in un periodo in cui il punk era sinonimo, per le masse, di gioventù degenererata e ribelle senza una causa, una band di ragazzini, all’apparenza non diversi dagli altri punksters (a parte il look forse leggermente più ‘sfigato’), spuntò dal prolifico substrato californiano per mostrare che il punk poteva avere anche coscienza oltre che rabbia. Autori fin dagli acerbi esordi di testi lontani dalle trite tirate punk anti-borghesi, i Bad Religion cantavano un linguaggio che non era quello degli hardcorer più nichilisti e semplicisticamente combattivi. All’inizio, ciò che distingueva i Bad Religion dalla schiera di arrabbiati erano quasi esclusivamente i testi ricercati: alzi la mano chi non ha arricchito del mille per cento il suo vocabolario inglese ascoltando i virtuosismi lessicali del professor (Greg) Graffin, mentre gli accordi e le ritmiche erano quelle ‘d’ordinanza’ tra il punk e l’hardcore di allora. Col trascorrere degli anni, invece, il terzetto+batteria iniziale iniziò ad espandersi, sia numericamente che in qualità, fino alla perfezione artistica, raggiunta con i pezzi degli anni Novanta. Chiunque, anche il più digiuno del genere, saprebbe riconoscere al volo una canzone dei Bad Religion, distinguendola dal ‘solito’ punk commerciale, che peraltro vedeva proprio negli anni Novanta il terreno di sviluppo migliore – grazie proprio e soprattutto alla Epitaph del Bad Religion Brett Gurewitz. Gli inconfondibili riff dal lirismo epico, le perfette sovrapposizioni tra le chitarre, che arrivano in studio ad essere addirittura tre, la sezione ritmica rocciosa e inappuntabile; e naturalmente il trademark dei cori (i leggendari oozin’ aaahs). Passati attraverso tre decenni rimanendo relativamente immuni a scandali, rotture e intrighi tipici da rockstar – il caso dell’abbandono e rientro di Mr. Brett, per i consueti motivi di rehab e di megalomania, si è autoestinto senza clamori, anzi rafforzando la coesione personale creativa della band; sopravvissuti anche a cambi di formazione dovuti a motivi più oggettivi e dolenti, come l’infortunio occorso al povero batterista Bobby Schayer, i Bad Religion hanno ottenuto un traguardo che poche altre band nella storia sono riuscite a conseguire: una carriera pluridecennale senza un vero e proprio successo commerciale. Come hanno fatto a perdurare negli anni senza mai svendersi, né praticamente mai sbandare? Semplicemente non adagiandosi mai sugli allori, anche nei momenti in cui avrebbero potuto permetterselo (e invece Graffin ha avuto il tempo di prendere un secondo dottorato e pubblicare un trattato di filosofia, e la band di creare un fondo per borse di studio per studenti non abbienti), e riuscendo persino a fare rientrare la pecorella smarrita Mr. Brett.
I Bad Religion sono icone. I Sex Pistols sono stati i plasticosi spacciatori del punk per le grandi masse, i Clash saranno sempre i rocciosi e taglienti nonni del movimento, ma i Bad Religion rimarranno per sempre il metro, la pietra miliare con la quale le band punk ed hardcore dell’era moderna dovranno misurarsi per trovarsi più o meno degne del nome e del messaggio che vorranno portare avanti.
Ed assistere ad un concerto dei Bad Religion è sempre un’emozione; e per me, fan trentenne, per non dire trentennale, significa ancora sempre solo una cosa: prima fila, transenna spappola-milza, niente voce per una settimana, ma testa tutt’altro che vuota.
BAD RELIGION
“Quality or quantity / A choice you have to make”
Dopo aver saltato a pié pari l’esibizione dei The Leeches ed aver adocchiato le ultime schitarrate dei punk’n’rollers nostrani The Peawees, ci si appresta a seguire finalmente lo show milanese dei Bad Religion, atto a celebrare il trentennale della seminale punk-hardcore band californiana. Sui monitor dell’Alcatraz, giustamente settato in modalità A per contenere il bel pienone che Greg Graffin e soci hanno richiamato, durante il cambio palco viene mostrata Inghilterra-Stati Uniti, valida per i mondiali di calcio sudafricani, ma agli ormai vegliardi punk-rockers yankee interessa relativamente sapere quanto fanno i loro connazionali, ben decisi ed interessati come sono a far divertire gli astanti accorsi per loro. Un’ora e venti di spettacolo praticamente senza sosta – eccetto per il classico saluto prima dei bis – durante la quale i Bad Religion, in formazione a cinque e senza Brett Gurewitz, hanno spaziato amabilmente attraverso i loro lunghi e gloriosi tre decenni di carriera: come non citare infatti “Fuck Armageddon…This Is Hell”, tratta dal loro primo full “How Could Hell Be Any Worse?”? Oppure le varie “No Control”, “Suffer”, “Do What You Want”, posta in apertura, la spettacolare “I Want To Conquer The World”, “Generator” e la frenetica “Atomic Garden”? Tutti pezzi che riportano impresso nelle loro note il trade-mark melodico e compositivo della coppia Graffin-Gurewitz e che hanno un appeal assolutamente singolare e riconoscibile, vuoi per il timbro vocale di Greg, vuoi per i riff sempre quelli ma mai uguali che trascinano il gruppo da sempre. I suoni, a dire il vero, non sono perfetti: volumi un po’ bassi, probabilmente per tirar su la voce di Graffin, e batteria deboluccia, ma sinceramente quello che più importa è vedere cinque (ormai) signori di una certa età – Hetson e Baker cominciano a dare segnali di vecchiaia ed imbolsimento – suonare e cantare ancora appassionati e partecipi la loro musica senza tempo e carica di significati. “Recipe For Hate” viene omaggiato con la title-track, “Man With A Mission” ed ovviamente la evergreen “American Jesus”, ultima canzone proposta prima degli encores. Non può mancare, fra questi ultimi, il brano forse più noto anche fra chi i Bad Religion li conosce solo di striscio, ovvero “Punk Rock Song”, episodio facilotto e di presa quanto volete ma sempre coinvolgente. Parecchie le tracce più recenti proposte in setlist, a partire da “Overture/Sinister Rouge” ed “Epiphany” fino a giungere a “Los Angeles Is Burning” e alla dolciastra “Sorrow”, che col suo chorus da stampo immediato – chi scrive si è trovato a canticchiarlo per tutta la mattinata seguente il concerto – ha chiuso uno spettacolo semplice e sobrio, ma energico e corroborante. Che davvero quel divieto di dogma, simbolo che rappresenta i Bad Religion da tempo immemore, non possa mai venir dimenticato, né messo da parte.
Setlist
Do What You Want
Overture/Sinister Rouge
New Dark Ages
Recipe For Hate
Flat Earth Society
A Walk
How Much Is Enough?
No Control
Requiem For Dissent
Atomic Garden
Epiphany
Suffer
No Direction
Los Angeles Is Burning
Germs Of Perfection
Man With A Mission
I Want To Conquer The World
Generator
Materialist
Fuck Armageddon…This Is Hell
Along The Way
Infected
American Jesus
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Punk Rock Song
21st Century (Digital Boy)
Sorrow