Report a cura di Dario Cattaneo
In meno di due anni di attività, abbiamo avuto modo di apprezzare diverse volte le proposte di Bakerteam Records, spin-off della più internazionale Scarlet Records. La neoformata label tricolore si sta dimostrando infatti molto attiva, concentrando i propri sforzi soprattutto sul lancio di promettenti giovani realtà italiane e, più ultimamente, anche sul rilancio di realtà già rodate ma in cerca di nuovi stimoli per i futuri lavori. Musicalmente lo sforzo dell’etichetta sembra orientato, più che nella direzione di uno specifico genere, in quella della scoperta di nuove sonorità e di una certa sperimentazione. E’ infatti proprio il diverso punto di vista che le varie band della scuderia Bakerteam danno dei corrispettivi generi a rendere veramente interessante l’etichetta, e quindi accogliamo con piacere l’idea di questo festival, che ci presenta otto tra le sue band più originali ed innovative. Tra metalcore, death melodico, death classico, sfumature black, thrash e tanto tanto metal, ci incamminiamo in un percorso di tre ore e mezza che ci riserverà diverse conferme e più di una sorpresa…
THE RITUAL
Primi a salire sul palco della Rock ‘n’ Roll Arena in questa serata sono i piemontesi The Ritual. Stilisticamente parlando, possiamo individuare nel quartetto alessandrino una sorta di manifesto in piccolo di quanto scritto nell’introduzione a proposito dell’etichetta organizzatrice: la continua ricerca di nuove sonorità e di punti di vista diversi su scene un po’ stantie è sicuramente uno dei punti di forza della Bakerteam e, più in piccolo, lo è anche di questo gruppo. Metalcore dai riconoscibili innesti thrash e death melodico svedese è il genere proposto da questo gruppo; una miscela sicuramente originale e personale che cerca di fare di una visione musicale più ampia il proprio punto di forza. Le brutali accelerazioni, il fraseggio a tratti quasi di marca In Flames, le ritmiche thrashy, il tutto contrapposto a costruzioni vocali catchy e accessibili, sono il marchio caratteristico del debutto “Beyond The Fragile Horizon”, e qui ci vengono riproposte in una maniera forse non precisissima ma certamente solida ed efficace. In mezzo a tre pezzi estratti dal già citato debutto, troviamo anche un inedito, ancora senza titolo, che ci dice che la band sta già lavorando su nuovi pezzi. Nei suoi venti minuti, il concerto ci dice quello che deve sulla band e permette ai quattro musicisti di impostare la performance sui propri punti di forza: la proposta originale e la vigorosa presenza strumentale. Non ci dà però informazioni sulla fruibilità della proposta dei The Ritual su un tempo più lungo e l’impressione che anche solo quaranta minuti di concerto con queste sonorità ci potrebbe annoiare ci rimane. Non è però il caso di parlarne adesso. La prova è stata superata, stasera, qui sul palco della R’n’R Arena.
RHOPE
I lombardi Rhope erano, per chi scrive, la band più attesa del bill della serata. Ancora più dei The Ritual, i quattro milanesi (cinque qui sul palco del locale) ci presentano una proposta musicale contaminata e atipica, appoggiata su una solida base groovy su cui ricamano aggiungendo suggestioni sempre dal thrash, dal death, ma anche e sopratutto dall’industrial e dalla scena alternativa. Lontani dal poter essere definiti anche solo simili a qualsiasi band in giro attualmente, i Rhope ci avevano fortemente coinvolto sui solchi del debutto “Turning Maybes Into Reality”, e quindi siamo curiosi di vedere come possa tradursi dal vivo una proposta così indecifrabile e basata più sulla bellezza di ogni dettaglio che su una compattezza di insieme. La prova è ampiamente vinta perché, puntando sui pezzi maggiormente diretti e accessibili del debutto, i Rhope riescono a renderci pienamente l’idea della propria, eccezionale, varietà stilistica, senza oltretutto perdere un grammo della potenza che i presenti avrebbero voluto vedere uscire dagli amplificatori. I contrappunti vocali melodico/growl ci strapazzano fin dall’opener “Slaves”; “Your Peace” ci trascina in virtù di melodie più marcate che guidano un pezzo estremamente cangiante; mentre sulla finale “False Needs” si torna a picchiare anche più dei The Ritual. Una band possente, di cui attendiamo con ansia i prossimi passi, che ci regala già un primo momento di goduria nella bella serata.
WIND ROSE
Si abbandona il nord Italia per spostarsi in Toscana, nei pressi di Pisa per l’esattezza, con i symphonic metaller Wind Rose. Anche se a prima vista i cinque ragazzi potrebbero sembrare un po’ fuori luogo nel più moderno e innovativo panorama della serata, soprattutto se si considerano sonorità e i vestiti medievaleggianti sfoggiati sul palco, i Nostri riescono già dalla prima canzone a convincerci che la loro proposta merita più di un ascolto, e che nasconde più di qualche sorpresa. Non solo power si trova infatti nella musica dei cinque toscani, ma anche tanti inserti sinfonici e neoclassici e tanto progressive, il tutto mescolato in una mistura sapientemente dosata che, anche se manca dell’aggressività e dell’impatto delle altre band presenti, ci colpisce per la pulizia e la perizia tecnica. In uno show tra i tecnicamente più precisi della serata vediamo una band sicura dei propri mezzi, ben guidata dal carisma forse un po’ troppo espansivo del frontman Cavalieri, e che si dimostra ampiamente in grado di dire la propria in un contesto live. I venti minuti a disposizione strozzano l’esibizione ai Wind Rose più che alle altre band: disponendo di poche canzoni dal minutaggio generalmente elevato, i toscani riescono a proporci solo tre brani, dandoci una visione limitata del loro buon debutto “Shadow over Lothadruin”. Non sappiamo se abbiano aperto breccia nel cuore dei presenti, sicuramente più amanti di sonorità estreme, ma ci sentiamo di dire che i Nostri non hanno sfigurato, tenendo il palco con la propria ben marcata personalità e non cercando di mutare atteggiamento per conformarsi al resto delle band. Orgogliosi.
LAHMIA
La seconda vera bomba della serata, dopo la conferma dei Rhope, ci arriva dai romani Lahmia. Definiti in sede di recensione come una buona band, tecnicamente preparata ma scarsamente originale, dal vivo ci devastano completamente, rendendosi protagonisti fin dalla prima canzone di uno show perfetto dal punto di vista del coinvolgimento e della presenza sul palco. Stilisticamente simili ai Dark Tranquillity più lineari e meno sperimentali, i Lahmia cercano però di smorzare la similitudine con la propria influenza principale tramite degli input che pescano dalla scena death tutta: si parte dai Sadist dei primi album per arrivare ai Children Of Bodom, passando anche dai Novembre. I Lahmia, musicalmente, non si fanno mancare nulla: le melodie sono al loro posto, presentate con tutta la ferocia del singer Amerisi, i fraseggi alla sei corde dei due bravissimi chitarristi fanno pensare subito ad Alexi Laiho, e la virulenta irruenza del death più classico è pronta a spaccare le ossa di tutti gl’incauti che decidono di partecipare al pogo che si genererà sotto il palco. Cinque canzoni si succedono in maniera rapidissima, come letali colpi di mitra: l’opener “Drag Me To Hell” lascia il posto al death più feroce di “Nightfall” e “Strengh of My Wounds”, sempre ricordandosi di portare i necessari omaggi alla band di Mikael Stanne con la bella “The Tunnel”. Amerisi si muove per tutto il tempo minacciosamente acquattato sul palco, completamente assorbito dalla propria performance, e si rivela mattatore dello show, attirando sguardi e scatti con atteggiamenti e posizioni da chi on stage si trova a suo agio come a casa propria. Non saranno stati la band più originale tra le presenti, così ancorati agli stilemi del genere del quale si fanno alfieri, ma come formazione dal vivo i Lahmia dimostrano di non avere pari in questa serata, almeno per quanto riguarda energia e atteggiamento.
MALNATT
La furia dei Lahmia non si è ancora spenta che i presenti alla venue (che stanno diventando un po’ di più rispetto al deludente inizio, anche se l’affluenza rimane comunque non eccezionale) si trovano subito immersi in un altro stato d’animo ugualmente estremo e disturbante: la follia dei Malnatt. Grossi teschi bianchi un po’ deformi riempiono lo spazio anteriore del palco tra un monitor e l’altro e quattro strane figure, coperte da bianchi indumenti simili ad un incrocio tra tute da rischio ambientale e divise da operatore ecologico, salgono sul palco stringendo i propri strumenti. Formazione minimalista (basso, chitarra, batteria e voce), drumkit anch’esso minimalista per uno show che invece si rivela denso di spunti di cui parlare. Black metal, intriso di follia e di decadenza, esce potente dalle casse e viene nell’occasione più che bene interpretato nella nostra lingua madre dal simpatico cantante Porz, che più di tutti gli altri frontman interagisce col pubblico presente (salvo forse Privitera dei Bejelit, prossima band sul palco). Lasciando ad altri tipi di formazione i classici ‘battete le mani’ o i vocalizzi in risposta al cantante, Porz sfrutta ogni momento tra una canzone e l’altra per riversarci addosso una vasta (ma simpatica) marea di cazzate, che vanno da ‘un applauso a voi che siete qui a sopportare il metal’ a provocazioni rivolte ai politici e alla società attuale, passando per poco velati inviti (sempre scherzosi) a raggiungere la band nelle macchine dietro il locale per un simpatico ‘aftershow’. Concentrandosi di nuovo sulla musica, le varie canzoni presentate, tutte tratte dall’ultimo “Principia Discordia” (“Manifesto Nichilista”,”L’Amor Sen Va”,”Iper Pagano”, “Ave Discordia” e l’umoristica “Don Matteo”), si fanno ben ascoltare, mostrandoci una band capace di coniugare provocazione, estremismo, divertimento e buona musica in un unico prodotto, e di presentarcelo in una cornice sempre imprevedibile ma memorabile. Sicuramente uno show che ci rimarrà in mente a lungo, anche se magari non solo per la qualità delle canzoni…
BEJELIT
Dopo l’atipico show dei folli Malnatt, il compito affidato alla metal band di Arona non è dei più facili. La posizione di terzultimi in serata li posiziona a ridosso dei cosiddetti headliner, e la gente, dopo tre ore esatte di concerti che si sono rivelati più o meno tutti di alto livello, comincia ad avere aspettative più importanti. I Bejelit qui a Romagnano sono quasi di casa (a parte la vicinanza geografica con Arona, non ci ricordiamo quante volte li abbiamo visti su questo palco…) ma questa sera si presentano con un serio handicap legato allo stato di salute del frontman Privitera che, su sua stessa ammissione, è affetto da una brutta faringite. Anche se questo annuncio non ci arriva che prima del terzo brano in scaletta, ce ne accorgiamo subito notando i tentativi (per fortuna non maldestri) di rielaborare parti e vocalizzi su registri più acuti in maniera più alla portata e ‘rockettara’, un po’ alla stregua di quello che fa spesso Hansi Kursch su oramai un numero sempre crescente di pezzi dei Blind Guardian. Il risultato, ammettiamo, non è male e mostra da parte del cantante un certo mestiere derivato dall’indubbia esperienza maturata in questi anni, però è anche vero che ci spiazza in alcuni punti, nei quali avremmo preferito un’esibizione più aderente a quanto apprezziamo su disco. Similmente alle altre band, anche i Bejelit si concentrano sul materiale distribuito da Bakerteam, e quindi solo l’ultimo “Emerge” viene saccheggiato dei suoi cinque pezzi migliori, presentati a noi in stretto giro nell’arco di nemmeno trenta minuti. L’opener “Darkest Hour” scalda i muscoli alla band, approfondendo il lato più oscuro e pesante della serata. Sotto l’invito di Privitera a ‘dare la caccia a dei cazzo di alieni di merda!’, ci immergiamo nelle atmosfere futuristiche e trash della bella “C4”, chiudendo poi con i momenti più orecchiabili, che mai mancano ai concerti dei Bejelit, rappresentati da “We Got The Tragedy”, “Emerge” e “Dancerous”. Abbiamo sicuramente visto i Bejelit più in forma e meno confusionari di questa sera, ma la pagnotta è sicuramente portata a casa. Oramai l’esperienza sui palchi dei cinque di Arona è decisamente alta, e con il numero impressionante di concerti inanellati dall’uscita di “Emerge”, anche al fianco di grossi nomi, qualche serata di leggera flessione è anche fisiologica. Siamo sicuri che al loro prossimo show ne vedremo di nuovo delle belle…
GORY BLISTER
La notte è oramai inoltrata quando i Gory Blister prendono possesso del palco per i loro quaranta minuti buoni di pura demolizione sonora. Scordiamoci la parola ‘melodico’, scordiamoci anche di possibili contaminazioni al death floridiano da sempre bandiera della band, ed abbracciamo per questa serata una proposta musicale talmente ben costruita ed eseguita che non può non strappare applausi. Non si scende a compromessi in questo concerto dei Gory Blister, ogni singolo brano è un calcio allo stomaco e alle palle dell’ascoltatore, pregno di una furia e una violenza sonora senza limiti. Il singer John St. John si presenta assolutamente belligerante e arcigno, esprimendo odio con il suo growl marcio e gutturale in ogni pezzo; i riff tecnicissimi di Raff non tradiscono un’imprecisione nemmeno a pagarla, mentre la cosa che sicuramente ci stupisce di più è la prestazione del monolitico John La Viola dietro la sua mastodontica batteria. I vari pezzi si susseguono senza sosta, con pochissimo spazio lasciato all’interazione con il pubblico: l’armata Gory Blister sale sul palco, spara sul pubblico, conta i morti e se ne va, nel puro stile delle band più classicamente death metal. Anche se personalmente non siamo addentro questo tipo di sonorità, non possiamo non apprezzare l’atteggiamento intransigente e senza compromessi della band: calza effettivamente a pennello a questi quattro loschi figuri. E, d’altro canto, a livello delle singole capacità dietro i propri strumenti non abbiamo paragoni in questa serata. Ode quindi ai Gory Blister, nonostante ci siano risultati un po’ ostici, e sugli scudi Joe La Viola. Solo dal vecchio batterista dei Nile avevamo sentito fare qualcosa di simile…
CADAVERIA
Si giunge, poco dopo mezzanotte, agli headliner della serata. Spariscono i mille tamburi massacrati fino a quel momento da La Viola, sparisce anche una delle due casse, e un nero drappo con il monicker della band si alza lugubre dietro al palco. Quasi di soppiatto, i musicisti prendono il proprio posto: l’atmosfera è lugubre, tesa, e gli ultimi echi dell’eccesso di violenza appena finito scompaiono rapidamente dalle nostre orecchie, lasciandoci con un senso di attesa ed anticipazione di quello che vedremo sul palco. A piacerci di questo show è stata proprio l’alta capacità di ‘presa’ che Cadaveria e compagni hanno mostrato di avere sul pubblico. E’ un magnetismo strano, quello che dimostra la band, un quid che li rende in grado di attrarre attenzione e sguardi più con atmosfere e atteggiamento che con la musica vera e propria. Il tutto sembra venire molto spontaneo all’affascinante frontwoman: vestita prima di uno stretto impermeabile di pelle, rimane già nella seconda canzone con un più ridotto abito nero, e riesce ad essere attraente e ammiccante senza fare nulla per cercare di esserlo. E’ più il carisma naturale, che un atteggiamento voluto, quello che si nota e si apprezza in questo show, e che ci mostra una band per la quale le atmosfere orrorifiche e lugubri sono più che un mero modo di ‘atteggiarsi’. Il concerto scivola via anche troppo velocemente, con le varie canzoni più apprezzate dal pubblico (un esempio per tutte: “Memento Auderer Semper”) a strappare applausi e i momenti più cupi a lasciarci invece in attenta attesa. L’heavy metal si mischia con qualche traccia di black, gothic e dark, e la voce di Cadaveria passa senza soluzione di continuità da vocals pulite a graffianti parti più gutturali. Inutile a dirlo, lo show di questa band chiude come la classica ciliegina sulla torta un festival che abbiamo davvero apprezzato, e che ci mostra il volto emergente (e anche quello più storico) del metal italiano.